Decostruire il libro, frammentare i formati
Matteo Gaspari
© Chris Ware, Building Stories (Pantheon Books)

30.07.2021

L’affermazione del graphic novel ha senza dubbio portato un miglioramento allo status percepito del fumetto, permettendogli di aggirare tutta una serie di pregiudizi e di infilarsi nel granitico – e perlopiù pernicioso – sistema distributivo librario. Tuttavia l’accostamento sempre più frequente tra la forma romanzesca, o per meglio dire tra un’idea preconcetta di forma romanzesca, e quello che identifichiamo come “fumetto culturalmente rilevante” non è scevro da criticità. Anzi.

Perché da un lato è vero: il riposizionamento di mercato del fumetto e la conseguente legittimità che ne è derivata ci ha portato grandi e fondamentali letture, ampliando le possibilità del linguaggio a narrazioni più intime, o più politiche, o più sperimentali. Col passare del tempo poi la componente intima ha preso il sopravvento, più spesso che no nella forma di un’autofiction più o meno esplicita, trasformando quello che era un orizzonte di possibilità in una nuova norma al limite del prescrittivo: vogliamo e ci vengono quindi proposti graphic novel lunghi, monolotici, smaccatamente intimisti e fortemente ancorati alla realtà, meglio se tangenti le grandi domande sull’angoscia per la vuotezza dell’essere o sul rimpianto dei tempi andati che l’invecchiare porta con sé. Insomma, qualsiasi cosa che rimandi anche solo vagamente a Proust o a Joyce – o meglio, di nuovo, all’idea che di Proust o di Joyce si ha nell’immaginario collettivo.

E c’è del valore in questo, beninteso, ma è opportuno ricordare tutto ciò che da tale anelito di seriosa autorialità viene lasciato fuori: la striscia, la forma breve e la serialità in primis, ammazzate dai meccanismi distributivi e dalla minor mirabilia cartotecnica di storie per le quali l’oggetto libro è al più un compromesso; la fiction e in particolar modo la narrazione di genere, affossate dalla percezione di un minor valore letterario; la ricerca formale e la tensione verso una non-fiction pura che siano capaci di sfruttare con efficacia, allargandole, le possibilità offerte dall’interazione tra testo e immagine, così come tra immagine e immagini. Mi sembra opportuno iniziare l’esplorazione di queste strade alternative al graphic novel propriamente detto dall’idea di frammentazione. Una frammentazione della narrazione che, pur essendo connaturata al linguaggio fumetto stesso, è spesso evitata dal romanzo grafico autoriale mainstream.

La prima forma di frammentazione a cui penso e quella più materiale, che ci permetta di superare o almeno di aggirare quest’ossessione feticistica per l’oggetto libro che si è impadronita a tutti i livelli del mercato fumettistico nostrano. Lo stesso Chris Ware si è notoriamente più volte confrontato, con esiti di indiscusso valore artistico, con l’idea che il libro non sia necessariamente sempre la forma migliore entro la quale contenere le storie. Il picco massimo di questa riflessione è senza dubbio il suo Building Stories, oggetto strabiliante da un punto di vista cartotecnico che i più ottimisti attendono ancora di veder tradotto in italiano.

È un’esplorazione della memoria, quella delle persone così come quella dei luoghi, e la memoria non è fenomeno lineare: i ricordi appaiono e scompaiono, si sovrappongono fino a confondersi oppure svaniscono lasciando lacune insondabili, generano reti di significato in cui ogni nodo influenza tutti gli altri. In questo senso, lo smembramento di quello che sarebbe potuto essere altrimenti un libro come tanti non è solo esercizio formale ma cosciente riflessione sul rapporto tra contente e contenuto. Nel rifiuto della standardizzazione, l’oggetto si fa da tramite a parte fondante dell’esperienza di lettura, amplificandone la portata e la profondità, in un parallelismo tra forma oggettuale e forma narrativa ben frequente nell’albo illustrato ma meno usuale nel fumetto.

Allo stesso modo, ma in senso opposto, non riesco a scrollarmi di dosso la sensazione che la pubblicazione di Rusty Brown in volume ne abbia, in qualche misura, tarpato la complessità. È un romanzo corale asincrono, che segue le vicende del ragazzino che dà il nome al libro, del bullo che lo tormenta, del padre con le sue delusioni amorose e di vita, della maestra d’infanzia del bambino, di Chris Ware stesso (in un refolo di autofiction che non posso che percepire superfluo). Si procede per blocchi abbastanza stagni, in una rete relazionale la cui gerarchia è fissata non tanto dal narrare stesso ma più che altro dalla sequenzialità dell’impaginato e dal titolo che campeggia in copertina. D’altro canto come negare che la vicenda di Jordan Lint – il bullo – con il suo lungo incedere dalla nascita alla vecchiaia in cui ogni pagina è riassunto simbolico di un anno di vita sia la meglio riuscita del libro? Meglio riuscita e tutto sommato autonoma, tanto che era stata in origine pubblicata da sola.

Certo, assieme al resto assume un significato altro, ed è innegabile che contribuisca a formare un affresco ampio e coerente. Ma comunque permane la sensazione di un libro che al contempo è un’antologia e non lo è, nel quale i personaggi sono ugualmente importanti ma alcuni sono più importanti di altri, che l’ordine in cui sono presentate le storie sia fondamentale ma in qualche misura arbitrario. È un effetto ossimorico voluto, senza dubbio, ma viene da chiedersi se una frammentazione “alla Building Stories” non avrebbe reso un servizio migliore alla vita del povero Rusty, del suo povero padre con le sue pene d’amore, del povero Jordan Lint con la sua inutile vita, della povera Joanna Cole con i suoi rimpianti (un sacco di povertà, a conti fatti).

È un titolo dal valore indiscutibile (o soltanto indiscusso?) che rientra però con entrambe le scarpe nel pattern di “fumetto d’autore voluminoso sui piccoli grandi drammi dell’esistenza” di cui si diceva nell’articolo “Un’idea monotipica di autorialità”. Ed è difficile scacciare l’idea che sia un tipo di libro che più è grande e compatto e meglio lo si vende.

Ecco, credo che per scardinare – o almeno scompaginare – il graphic novel che tanto ha dato ma altrettanto sta togliendo al fumetto, un primo passo possa essere ribaltare questa sorta di ossessione per i libri grandi e con tante pagine che tengono assieme anche cose che forse avrebbero giovato a stare da sole. Frammentare, rimpicciolire o ingrandire i formati, giocare con la carta, in un’assonanza da ricercarsi sempre tra l’oggetto e il suo dentro.

Penso a Riflessi di Marco Corona e alla sua forma squisitamente tripartita, o a Cinema Zenit di Andrea Bruno con i suoi iati e le sue atmosfere sospese, o a Charles di Alessandro Tota che è un libricino piccino picciò. O ancora al “Povero Pescatore” di Sammy Harkham che nella sua edizione monografica originale è un librino quadrato 10x10 con una vignetta per pagina, o al leporello di Joe Sacco sulla battaglia della Somme La Grande Guerra. Cos’avrebbero guadagnato questi titoli dal venire omologati al classico volume unico 17x24?