Dal grado zero della stanchezza
Rosella Corda

30.05.2021


Esiste una stanchezza dell’intelligenza astratta ed è la più terribile delle stanchezze. Non è pesante come la stanchezza del corpo, e non è inquieta come la stanchezza dell’emozione. È un peso della consapevolezza del mondo, una impossibilità di respirare con l’anima.
F. Pessoa, Il libro dell’inquietudine


Stanchi. Non di questo o di quello. Troppo stanchi perfino per individuare questo o quello. Stanchi del simbolo, ma anche dell’indice. Stanchi anche del segno, per indicare. Disfatti – e non come se si fosse partiti da un (bel) disegno, una (bella) figura, cancellata o scarabocchiata per noia. Come se si potesse ancora contare su di un’estetica anche solo blandamente consolatoria, perfino nell’abbandono. Disfatti: come se non ci fossero più fattezze: né quelle del prima, né così quelle del dopo. “Una impossibilità di respirare con l’anima”.

Eppure.

E se la stanchezza non fosse altro che una forma larvale di forza, quella cui attingere nei momenti di secca vitale, per ricaricare i processi di soggettivazione? Il riposo del grado zero – e penso all’Hölderlin di Deleuze. Che non è il riposo che segue a una fatica – ma il non avere ossigeno a sufficienza per qualunque fatica possibile…

E se questo stallo dell’in-azione non fosse altro che l’interlinea dell’affermazione, lo spazio bianco delle fughe? Ci sono fughe da dis-allontanamenti, come de-sideri che possono ancora contare su di un firmamento da contemplare, seppure nell'’indietro” di un gesto metafisico (che aneli al suo passato immemore da rimemorare come chimera), nella sottrazione e nella privazione, nelle distanze siderali. Poi ci sono fughe immobili: quelle tra le mattonelle, per esempio. Da piastrellisti che hanno perso lo schema degli incastri.

Ci sono fughe che non scappano ma stanno.

Oltre un’ontologia della fuga, con i suoi divenienti e i suoi divenuti, ci vorrebbe l’ossimoro di una fuga che “sta”, per cui “scappare” è far-si largo larva-mente. Spaziare: all’insegna della stanchezza, da fermi, nel non-sapere del potere possibile della trasformazione.

Si parla di una stanchezza radicale, quella della disperazione placida, cui l’esaustione dei possibili spegne il chiasso delle urla-contro il destino. Stanchi anche delle rivendicazioni e dei risentimenti.

Ci vorrebbe una pedagogia dell’esausto, come di colui che, con Deleuze, avendo consunto i possibili, torna allo stallo di un’epochè reale, che virtualizzi attualità possibili. Non una sospensione fittizia delle possibilità, ma un’assunzione del totale in un sol punto, quello che preme il bottone del reset, per apatia. Una pedagogia da stanchi, per un pragmatismo radicale.

Non è forse che, solo così, si può riprender fiato, ridare al virtuale la sua forza e rinnovare un campo d’azione? Fino a che si è navigato militanti tra i possibili da negare, da sognare, da ipostatizzare, si è solo spostata più in là la linea dell’identico, senza mai fuori-uscire davvero dalla palude del sistematico. Ora è in questione, finalmente, altro.

In questa condizione di disarmo, di miseria del simbolico e dell’affettivo (penso a quella ben descritta da B. Stiegler), in questa fuga da interlinea silente, si può forse riaprire uno spazio onesto di critica, assecondando solo la traccia dell’antica fêlure, dell’antica sorgente della fragilità costitutiva e costruttiva della soggettivazione effettiva?

Occorre forse dare compimento a questa stanchezza, a questo de-potenziamento de-bilitante, per ri-abilitare una postura di attenzione effettiva ai fenomeni, il cui perno sia una possibilità nutrita di virtualità ad n-dimensioni e non una possibilità mistificante e sterile, gioco di carte su quello stesso tavolo di sempre?

Bisogna cercare nuove armi – Deleuze aveva ragione. Ma a partire da cosa, con quali materiali fabbricare? Con quali forze?

Forse a partire dall’insufficienza radicale: che non è angoscia, non è ansia, non è colpa. Ma solo im-possibilità radicale. Lasciare a terra le spoglie dell’Ego – e con lui i residui di una sovrastruttura epistemologica satura, fallocentrica, perfino nel patire…

Far-si spazio di mute che si connettono a partire da quella comune interlinea, che si dipana lungo reti oblique di profili interrotti.

Se c’è una dimensione, una proto-dimensione, a cui la stanchezza radicale può dare libero accesso, forse è proprio quella del transindividuale come serbatoio delle individuazioni a-venire. Penso alla lezione di Simondon. Non un inconscio collettivo, ma il “pre”, supino, e del collettivo e dell’individuo, come di quell’ante-fatto sempre presente eppure mai del tutto dato e risolto.

Voglio credere a questo “corpo” – ricordando ancora Deleuze. A questo piano senza pianificazioni. Voglio credere che se la stanchezza ha un senso, questa sia rinvenibile in se stessa: in questa sua “internità” che è più “fuori” di qualunque esterno.

Non aver paura del fuori-luogo della stanchezza.

È dal fuori-luogo che si riattiva l’angolo prospettico. Sempre nuovamente di sbieco.