Da Roma a Vienna e ritorno: riflessioni sul decoro
Serena Giordano

24.06.2021

Giorni fa, in piena afa estiva, quotidiani e social hanno dato particolare rilievo a una notizia decisamente banale. Una signora, dopo essersi spogliata, ha fatto il bagno nella fontana di piazza Colonna. Il seguito è decisamente più interessante dell’episodio in sé. Qualcuno l’ha ripresa col cellulare e ha postato il video su Facebook. Facile immaginare i commenti sul social: “Povera Italia!”, “Dove siamo arrivati!” Lo scandalo è stato certamente provocato dalla nudità anche se, a ben vedere, a meno di dieci minuti a piedi da Piazza Colonna, più precisamente in via Ripetta (sede dell’Accademia di Belle Arti), tutti i giorni, un gruppo di giovani è incoraggiato a osservare nei minimi dettagli le nudità di donne e uomini in carne e ossa (doloranti e mal pagati) per ritrarli in posa. Ma ben più vicino al luogo del tuffo, c’è Palazzo Chigi, cosa che tutti i quotidiani hanno tenuto a sottolineare. Ecco il vero scandalo: come ha potuto la signora mettere in scena la sua performance a pochi metri da un luogo così autorevole?

Questo episodio mi ha ricordato una storica performance, “Kunst und Revolution”. Il 7 giugno del 1968, quatto giovani si presentano un’aula universitaria di Vienna. Sono nudi e pronti a tutto. In piedi sulla cattedra, mettono in scena il repertorio che, di lì a poco, sarebbe diventato un classico dell’azionismo viennese: autolesionismo, defecazione, masturbazione e altre attività corporee. Gli studenti restano a bocca aperta: alcuni ridono, altri applaudono, altri ancora escono dall’aula disgustati. La performance di Günter Brus, Otto Muehl, Peter Weibel e Oswald Wiener si conclude con una denuncia. Per atti osceni? No. Per vilipendio della bandiera austriaca che, stesa sulla cattedra, aveva fatto da tappeto alle loro insolite attività.

Tornando a Roma, il “Corriere della Sera” ha scritto che la bagnante ha rischiato una denuncia (e una multa) per “sfregio al decoro”. La colpa della signora accaldata, infatti, non è di essersi mostrata senza veli, ma di aver offeso il decoro del palazzo del potere per eccellenza. La povera donna non ha nemmeno sfruttato i warholiani quindici minuti di notorietà. Avrebbe potuto dichiarare che si trattava di una performance e inventare un qualsiasi discorso. Qualcosa come “io dico alle donne e agli uomini di potere chiusi in quel palazzo, gettate via i vostri vestiti e lavate i vostri peccati!”. Un consigliere della Lega, dopo aver condiviso il video su Facebook, ha parlato di “degrado urbano”. La nudità non è il vero motivo dello scandalo, come nel caso di quei buontemponi degli azionisti viennesi. Qui si tratta di offesa al decoro urbano.

L’episodio ci consente di fare qualche considerazione sul concetto di decoro. La parola “decoro” ha origini militari e indica quegli oggetti (decorativi, appunto) che vengono apposti sulle divise dei soldati, come mostrine, stellette e medaglie. Insomma, oggetti privi di funzione, ma di grande significato simbolico che abbelliscono l’uniforme, confermando l’antico binomio tra bello e giusto. Colui che si guadagna una medaglia rispetta e onora le leggi della guerra, tralasciando quelle degli uomini (o, per chi ci crede, di Dio) che, invece, dovrebbero impedirgli di uccidere.

A ben vedere, l’origine militare della parola non si è perduta. I molti comitati anti graffiti che animano metropoli e piccole città si appellano proprio alla difesa del decoro, distinguendo tutto ciò che compare nel paesaggio urbano in due categorie: ciò che è bello e giusto e ciò che non lo è. Ciò che obbedisce alla legge, perché autorizzato oppure perché ha un valore economico, da ciò che non obbedisce a nessuna legge e si mostra gratuitamente. In sintesi, da una parte i soldati che meritano di essere decorati e dall’altra disobbedienti e disertori, questa è la logica. Non si spiegherebbe altrimenti come mai i comitati moralizzatori non facciano una piega di fronte a un ricco e vasto repertorio di interventi a dir poco discutibili di “vandalismo autorizzato”.

Qualche esempio. In linea di massima, i graffitisti non imbrattano i monumenti, perché operano in base a una vera e propria deontologia professionale, fatta di regole non scritte, ma note e condivise. Al contrario, in piccoli e grandi centri urbani, non è difficile imbattersi nella presenza “vandalica” di insegne d’ogni tipo che deturpano, nell’indifferenza generale, fior di palazzi storici. Banche, catene di fast food, negozi di telefonia o di abbigliamento (soprattutto le grandi firme) non suscitano alcuna indignazione quando ricoprono con i loro marchi e logotipi facciate di edifici certamente vincolati dai beni storici e architettonici.

A Milano, Roma, Napoli, Firenze o Bologna, le grandi banche e grandi firme della moda hanno sede in splendidi palazzi antichi. Anche queste insegne sono medaglie al valore, decorazioni buone e giuste, contrapposte a qualsiasi azione (dal tuffo nella vasca al writing) che occupa senza uno scopo lo spazio urbano. Nemmeno i molti messaggi razzisti, omofobi, volgari e maschilisti che compaiono nei manifesti pubblicitari di prodotti o di propaganda sembrano generare una grande indignazione.

Alla luce di queste riflessioni, è piuttosto evidente come il “comune senso del decoro” sia determinato da questioni che hanno ben poco a che fare con l’estetica. L’espressione di un potere che si manifesta attraverso il rumore visivo urbano è lecito per definizione.

Torniamo nuovamente a Vienna, dove nel giugno del 2005, in Neubaugasse, una strada piena di negozi, durante la notte scompaiono tutte le insegne, gli striscioni, i cartelli pubblicitari e quelli stradali. Ogni scritta o immagine è coperta da un adesivo di plastica giallo. Si tratta dell’esperimento “Delete”, ideato da Christoph Steinbrenen e Rainer Dempf [2006]. Gli abitanti, di fronte a quell’inaspettato “silenzio visivo”, reagiscono con sorpresa e imbarazzo, ma anche fastidio (interpretando inconsapevolmente il ruolo di protagonisti della performance). “Probabilmente l’installazione ha creato un vuoto insopportabile, proprio per la sobrietà dell’ambiente urbano così ricreato, obbligando per la prima volta gli abitanti a vedere le loro strade.” (Dal lago e Giordano, Graffiti. Arte e ordine pubblico. Il Mulino, Bologna 2016, p.111).

L’accettazione passiva del rumore visivo della città è la prova evidente della mancanza di partecipazione dei cittadini alle scelte che determinano il cosiddetto decoro urbano e della totale inconsapevolezza dello scenario in cui viviamo. Mi torna in mente la domanda che un anonimo writer tedesco ha scritto, in una notte, un po’ dappertutto sui muri di Lipsia: “Wem gehört die Stadt?” («A chi appartiene la città?»).