11.01.2021
Critica del collasso e crisi ecologica
Paolo Missiroli
È una banalità dire che molto di buono può venire dal comprendere in che senso il nostro mondo, nella sua dimensione storica e naturale, sia in un momento di profonda crisi e come quest’ultima possa manifestarsi anche secondo dinamiche propriamente catastrofiche. Uno studio di queste dinamiche di crollo può difficilmente essere considerato problematico in sé, nella misura in cui illumina tutta una serie di problemi costitutivi delle nostre società e quindi del loro rapporto con il mondo naturale, sul cui sfruttamento e distruzione esse sono, in parte, fondate. Da questo punto di vista l’insieme di tesi – certo molto eterogenee tra loro - noto con il nome di Collassologia può aiutare non poco nella comprensione critica del nostro presente. Ad un livello di astrazione maggiore, tuttavia, esse manifestano un limite che le rende problematiche, sia per la comprensione che per la critica della nostra stessa condizione storico-naturale.
Tale limite ha a che fare con la definizione stessa della Collassologia. Essa è infatti, al di là dei differenti modi in cui si dà, un pensiero ed una pratica del divenire-distrutto-del-mondo. Questo significa che, concependo il presente come qualcosa in via di disgregazione, essa è un pensiero del mondo come qualcosa di riducibile ad un processo temporale lineare, in direzione della distruzione. La Collassologia, come fanno i moderni secondo Koselleck, pensa cioè il presente a partire dal futuro, o meglio a partire dal movimento che lo porta verso un futuro, per quanto non più luminoso come quello dei moderni. Da questo punto di vista, la Collassologia pare essere la negazione indeterminata dell’Accelerazionismo. Se per il secondo il compito politico-critico risiede nel vedere cosa nel presente erompe nel futuro, quale moto porta il presente al di là di sé stesso, per la prima, specularmente, esso sta nel vedere cosa, nel presente, crolla e rende così possibile l’apertura di un mondo toto genere diverso.
Il fatto che la Collassologia possa darsi solo nel pensare il divenire-futuro del presente stesso le rende forse più complicato accedere ad un ambito di pensiero che definisco ecologia politica critico-radicale. Essa, infatti, si differenzia dalla teorie del Collasso su due piani, che per semplicità espositiva chiamo descrittivo e prescrittivo.
La Collassologia, in alcune delle sue declinazione più diffuse, pensa la possibilità di un collasso assoluto, cioè di un’uscita radicale dalla presenza, da tutto ciò che noi, come esseri umani, abbiamo visto e sperimentato sinora. Una parte degli usi del termine Antropocene sono da ricondurre a questa posizione. Esso sarebbe un crollo totale di ogni parte del mondo socio-naturale che l’umanità ha sperimentato. Quest’ultima avrebbe dunque il compito di abbandonare la presenza che viene meno, di ripensare l’interezza del suo vivere. L’ecologia politica a cui si fa qui riferimento, invece, pensa ad un movimento istituente radicato in un fondo della presenza che per definizione non è possibile abbandonare. Ad esso continuamente si ritorna, in ultima istanza, non perché esso è l’origine perduta delle nostre pratiche e dei nostri pensieri, ma piuttosto perché esso permane al fondo della nostra storia, è l’imminenza nel cuore delle differenze. Non è dunque possibile, in un pensiero ecologico, né collassare completamente, né salvarsi fino in fondo: la Natura è quel fondo con cui non si coincide mai compiutamente e che allo stesso tempo non può essere abbandonato. Lo spazio proprio di un’ecologia politica oggi si dà oltre il collasso e la salvezza. Se anche per la Collassologia più vicina ai temi ecologici un mondo altro si dà solo come ricostruzione dopo il crollo, per l’ecologia politica radicale essa non può che essere costruzione nel mentre di questa crisi (che non è un Collasso). Le due posizioni appaiono dunque inconciliabili sul piano della possibilità o meno di un fondo che permane. A questo si lega immediatamente l’altro piano di distinzione, quello prescrittivo. La Collassologia, se translata politicamente, è definibile come la capacità di aprire spazi di costruzione del nuovo in un mondo che si disgrega, secondo quell’idea di un presente visto come da valorizzare, anche da un punto di vista pratico, esclusivamente in virtù del movimento contenuto in esso che va verso il futuro. Un’ecologia politica radicale, al contario, non può che consistere nell’agire in un mondo che resta, cioè nell’istituire a partire da ciò che in questo mondo resta: ad esempio, il rapporto del vivente con la Terra ad un certo stadio della sua Storia, in cui essa ha una conformazione geo-biologica per nulla scontata ed al contrario sempre più messa in crisi. Tale crisi, a cui è stato dato anche il nome di Antropocene, non terminerà in un collasso e continuerà per almeno diverse decine di migliaia di anni, in cui gli umani dovranno abitare un mondo non in crollo, ma in crisi. Su un piano di ragionamento ecologico agire politicamente nell’Antropocene non significa, dunque, cercare delle linee di fuga in un mondo che viene meno, quanto, facendo leva precisamente su ciò che di questo mondo non viene meno, istituire il nuovo. In questo senso, superando la Collassologia e l’Accelerazionismo, un’ecologia politica radicale (e quindi volta alla trasformazione reale dello stato di cose presente) penserebbe il futuro a partire dal presente e dalla presenza, e non viceversa. Seguendo l’imperativo di Maurice Merleau-Ponty, essa parlerebbe cioè non della fine, ma dell’inizio.