"Credere". Nonostante tutto
Ubaldo Fadini

28.05.2022

Sul quotidiano, soprattutto quello domestico, e sulle sue trasformazioni radicali molto si è detto e scritto, negli ultimi tempi. Vorrei riprendere appunto un filo di ragionamento che è presente anche in alcuni miei recenti scritti e che collega alcuni aspetti di tali trasformazioni che mi pare opportuno riconsiderare.

Il pretesto di questa ripresa è dato dalle immagini terribili delle abitazioni e dei grandi palazzi sventrati dai bombardamenti nella guerra che si sta sviluppando in Ucraina. Appartamenti squarciati, con una “intimità” lacerata, ferita, di cui è profondamente dubbio che si possa mettere in piedi qualcosa di quasi immediatamente riparatorio. Terremoti umani, per così dire, rovine prodotte nella/dalla dialettica in questo caso “tragica” dello storico e – appunto – del naturale. Immagini difficilmente inquadrabili all'interno dell'anemico discutere odierno sull'abitare, sia pure nell'ordine del conflittuale, il nostro pianeta.

Potrei rinviare ad alcune pagine del “mio” Eterotopie dell'umano. Metamorfosi antropologiche (ombre corte, 2021) sulle rinnovate attenzioni, in primo luogo di taglio sociologico, allo spazio quotidiano ma quello che qui interessa è il nesso di quest'ultimo e di immagine, così come appare nelle fotografie sui giornali o nei reportage televisivi.

Al di là delle sue rappresentazioni sulle riviste patinate, il quotidiano appare oggi – soprattutto nelle immagini della guerra – come una combinazione inquietante, allorquando viene a palesarsi, di ordinario e singolare. Riprendendo lo studio vivace di Jun Fujita Hirose su Il cine-capitale (ombre corte, 2020), lo stravolgerei in questo senso: nell'immagine si coglie innanzitutto il lavoro vivo, il corpo vivo-vivente che la esprime e che nel momento in cui la si supporta tecnicamente si dà in quella sua attualità da afferrare come manifestazione parziale di potenziali di trasformazione, di virtualità.

Ma l'immagine dei palazzi sventrati, della messa a nudo dei loro contenuti lesionati e resi funzionalmente indisponibili (consegnati, forse, al destino della loro sostituzione, in questo caso effettivamente traumatica...), espone ad una rilevazione bruciante e cioè che il quotidiano “vivo” è comunque sotto il dominio del “morto”, del “lavoro passato”, di quel “fisso” che si esalta ancora nelle manifestazioni – e in questo caso estreme – della distruzione e della sua così paradossalmente (ma non troppo...) messa a valore.

In tale “ottica” si comprende qualcosa di più di ciò che accade, rispetto al – quasi – nulla odierno. Tutto viene infatti più o meno oscurato, nell'intrico delle battaglie “materiali” e delle strategie di guerra, salvo ciò che vale come conferma di un punto di vista che si auto-rappresenta come privilegiato perché costitutivamente “vero” e quindi chiaro, illuminante.

Ma non è la schermatura mediatica a interessarmi particolarmente, anche perché in essa è piuttosto da rinvenire proprio la dinamica della combinazione, della “cooperazione” degli “ordinari”, delle immagini abituali, composizioni che a volte possono pure risultare inquietanti, sorprendenti/sconcertanti.

Importa invece la ripresa un po' stranita del quotidiano ricondotto crudamente alla logica del dominio, quella che afferma che “il più vale di più” anche nella modalità del consumo illimitato, della “distruzione” incessante, che serve all'illimitato crescere produttivo, della quantità delle merci.

Oltretutto si sa ormai che il quotidiano domestico, considerato una volta come spazio fondamentalmente riproduttivo rispetto alla spesa al suo esterno della forza lavoro (con l'eccezione comunque decisiva del lavoro complessivo femminile al suo interno), è oggi trasfigurato dalla proiezione su di esso di quel capitalismo che pretende una vita al lavoro senza pause, in qualsiasi circostanza del giorno e della notte, in modo tale da confermare una pratica invasiva nei confronti del tessuto quotidiano stesso (così come scrive Jonathan Crary).

C'è, in breve, un mutamento significativo della nostra percezione dello spazio e del tempo che mette a tema un movimento di sostituzione dell'abitare la storia con l'abitare il mercato. Anzi, dovrei oggi dire meglio: c'è un cambiamento di tale percezione che va nel senso di con/fondere la storia con il mercato con l'affermazione della regola appunto che “il più vale di più”. Con ordine, però: in un passato neppure troppo remoto la percezione del tempo era di fatto la storia, quella dimensione di collocazione dell'umano che permetteva di raffigurare la relazione tra la finitezza dell'esistenza e il proiettarsi del tempo verso un futuro che si auspicava migliore nei confronti del presente.

In quest'ottica, la storia individuava la direzione di marcia atta a dare solidità ai percorsi individuali e collettivi. Oggi abbiamo una storia con/fusa e abitiamo concretamente il mercato. Questo vuol dire allora privilegiare un tipo particolare di comunicazione che si differenzia dalla comunicazione di carattere “storico” legata al continuum dell'esistere e del raccontare, per dirla in termini benjaminiani: siamo cioè più coinvolti, se non sprofondati..., in un presente puntiforme, ben restituito dall'egemonia dell'istante, dalla successione di tempi dell'adesso che contraddistingue la mobilità della Rete.

Non sono poche ormai le fenomenologie della finitezza umana che manifestano la centralità di una coscienza individuale e collettiva effettivamente seduttiva e ammaliante nelle sue movenze ipertecnologiche, all'altezza quindi delle condizione odierne di un esistere consegnato il più rapidamente possibile ad una paradossale promessa di eternità.

Un po' di anni fa, uno studioso “controcorrente” e dunque abbastanza rimosso come Pietro Barcellona scriveva con accenti critici ancora di un qualche stimolo: “Il tempo puntiforme, da noi percepito attraverso l'uso del cellulare, è il tempo della comunicazione permanente e ci dà la sensazione di essere sempre in connessione. (…) L'esser-fuori dalla connessione equivale ad uscire dal mondo. Ad esempio, nel campo del lavoro non essere continuamente reperibili significa non essere disponibili al lavoro”

 E ancora, in termini pure più incisivi: “L'illusione di essere sempre in connessione in realtà interrompe la comunicazione e l'ascolto. (…) la dimensione diacronica viene distrutta, si perdono le coordinate spazio-temporali, con conseguenze anche sull'autodistanziamento che è alla base del rafforzamento dell'io. Io mi rafforzo se continuamente mi autodistanzio, mentre un Io che si risolve nella presentificazione è destinato soltanto alla performance: o riesce a dare il massimo possibile nell'istante della sua presenza o non è” (P. Barcellona, Il suicidio dell'Europa, Dedalo, Bari, 2005, p.40).

Il presente è quello di una territorializzazione predisposta alla registrazione della sostituzione del racconto dell'esperienza in termini autobiografici con il “mezzo” del curriculum atto a delineare il succedersi di ruoli e funzioni identificati a partire dal loro puntuale ricollegare le vicende, le “vite” complessive, alle meccaniche di funzionamento di una società che si vuole – desidererebbe essere con il suo regime specifico di temporalità – “defuturante”.

L'immagine dello spazio del quotidiano “domestico” separato parzialmente dai fattori di complicazione del vivere sociale, anche e soprattutto sotto il segno dell'alienazione/estraniazione produttiva, non sembra più reggere di fronte all'impatto a tutti i livelli del valore della performance, essenzialmente non sempre voluta, di ciò che inevitabilmente mina i costrutti del cosiddetto “vissuto” dei soggetti.

Con il quotidiano – anche domestico... – ridotto a rovine è come se si arrivasse a poter afferrare il rapporto stretto di qualsiasi territorializzazione, temporalmente determinata, con spinte, processi, rivolgimenti che appunto ne stravolgono gli assetti, le configurazioni, individuando così delle potenzialità insospettate, tradotte però nel nostro caso nel modo più negativo possibile.

Bucando lo schermo, a cui forse per fortuna siamo ancora assegnati (per il momento...), ritroviamo pur sempre la presa mortifera e insieme spettacolare della performance restituita a soggetti sempre più ansiosi a causa del carattere fondamentalmente omicida del tempo del mondo consegnato al primato del mercato, quello fantasiosamente celebrato dalle tante versioni dell'antropologia neoliberale con la loro pretesa di proporsi sotto veste “storica”, di una storia però pensata come quella in grado di raffigurare il tempo della fine del tempo, di tutte le finalità altre rispetto a quella della massimizzazione dei profitti.

Si avverte allora l'urgenza di una ecologia politica del quotidiano che si contrapponga alla riduzione del “mondo” al troppo piccolo delle immagini della rovina, che portano con sé la pretensione al niente, veicolata poi paradossalmente dalle “accelerazioni” esplosive che stravolgono il vivere odierno in tutte le sue manifestazioni.

Un ripensamento radicale delle relazioni tra la vita e il mondo è appunto indispensabile per accompagnare eventualmente una critica politica rivolta a riformulare diversamente contenuti e bisogni del quotidiano complessivo.

Si tratta, per dirla in termini deleuziani, di ritornare a “credere al mondo”, a un differente rapporto tra l'essere umano e il mondo, sulla base di “ragioni molto speciali”, di rinnovata critica rispetto a tutto ciò che spinge in direzione dello spossesamento, dell'espropriazione del tempo di vita: “La nostra credenza può avere come unico scopo la 'carne', abbiamo bisogno di ragioni molto speciali che ci facciano credere al corpo, ma come al germe di vita, al seme che fa spaccare i selciati, che si è conservato, perpetuato nella sacra Sindone o nelle bende della mummia e che testimonia la vita, in questo mondo così com'è. Abbiamo bisogno di un'etica o di una fede, e questo fa ridere gli idioti. Non è un bisogno di credere a qualcos'altro, ma un bisogno di credere a questo mondo qui, di cui gli idioti fanno parte” (Gilles Deleuze, L'immagine-tempo. Cinema 2 [1985], tr. di Liliana Rampello, Einaudi, Torino 2017, p.202).