Creazione e resistenza in Gilles Deleuze
Melania Moltelo

10.07.2021

La filosofia – come le altre discipline – è una disciplina che crea e inventa. Nel caso della filosofia si tratta specificamente di una fabbricazione, e non di una conservazione, di concetti. Tuttavia, nella filosofia come nell’arte, la creazione non risponde mai al piacere del creatore, ma solo a ciò di cui egli ha assolutamente bisogno. Avere un’idea, inventare, non è mai dell’ordine della comunicazione, non si riduce alla comunicazione in senso stretto. Quest’ultima è la propagazione di una informazione, di un insieme di parole d’ordine. Per Deleuze la distinzione foucaultiana tra società di sovranità e società disciplinare si complica ormai nel delinearsi di un nuovo modello: la società del controllo.

La società del controllo non necessita degli spazi di reclusione che concernono l’esercizio della disciplina: “con un’autostrada non si reclude nessuno, ma facendo autostrade si moltiplicano i mezzi di controllo. Non dico che questo sia l’unico fine dell’autostrada, ma si può andare in giro all’infinito e “liberamente” senza essere affatto reclusi, pur essendo completamente controllati. È questo il nostro futuro” (G. Deleuze, Che cos’è l’atto di creazione?). La comunicazione informativa è, dunque, il sistema sofisticato di tutte le parole d’ordine che valgono in un determinato tipo di società.

L’opera d’arte si inserisce trasversalmente in questo discorso: non si tratta con essa di cimentarsi con gli espedienti di comunicazione, di veicolare un messaggio o un’informazione. L’opera d’arte, contro-informativa, ha piuttosto a che fare con un atto di resistenza. Il rapporto più misterioso tra la lotta umana e l’atto creativo chiama in causa un popolo che manca: ogni opera d’arte fa appello a un popolo che non esiste ancora. È questo il senso di un “eternamente minore” che implica l’erosione dei confini tra pubblico e privato. Il popolo che muove l’atto di creazione è un popolo oppresso e sotterraneo, quel popolo bastardo che non ambisce mai all’affermazione e alla sopraffazione.

Per questo le opere d’arte più autentiche non si confondono con le narrazioni ufficiali e le lingue di Stato, ma, attraverso un esercizio minoritario di una lingua anche maggiore, balbettano in creazioni marginali o popolari. Da qui l’uso complesso di una espressione come quella di “letteratura popolare”: non si tratta dell’assunzione di tematiche elettive e che marginalmente ineriscono il “popolo”, ma di rivoluzionare l’impianto linguistico ed espressivo in direzione contraria a una presa “maggioritaria”, ufficiale. Talvolta l’ultima strategia di resistenza all’inganno della comunicazione è la fuga dalla comunicazione, la creazione di un discorso che tradisce le strutture consolidate. Ciò che resiste è, in ultima istanza, ciò che non si lascia ri/conoscere e comunicare.

Le convenzioni prefabbricate del linguaggio ci restituiscono l’immagine di una realtà immutabile: si tratta di svelarne le crepe, di assecondare l’emersione del nuovo. La sperimentazione artistica è svuotamento e rielaborazione del testo del mondo, i cui rinvii criptici rimandano, in un’assenza di rimandi attestati, all’esperienza dell’avventura e del vagabondaggio. Difendere la creazione, in arte come in filosofia, vuol dire far vivere ancora “un po’ di possibile…”, applicare infine la patina dell’incertezza e dell’imprevedibilità ai quadri usuali di riferimento e di cognizione.