Contro la "speranza"
Ubaldo Fadini

23.05.2021

Keine Angst: niente paura o addirittura, con le dovute distinzioni, nessuna angoscia. Eventualmente dopo, se possibile, una crisi di panico. L'attacco è qui filo-spinoziano ma sempre dalla parte di Ernst Bloch. Si tratta semplicemente di qualche appunto “disperato”, stimolato sociologicamente dall'osservazione un po' scontata che nelle organizzazioni non “si” muore mai: nella loro realtà complessa, costituita da ruoli, funzioni, soprattutto decisioni e comunicazioni ecc., trionfa l'impersonale, meglio la nostra riduzione a maschere e queste ultime sono interscambiabili in un gioco che non sembra aver mai termine.

E visto che la presa organizzativa ci co/stringe sempre di più negli stati di eccezione che sono ormai la regola imperante, allora questo dilagare di speranza accompagnato dal tracimare mediatico dei volti e delle parole dei potenti e dei loro porta-voce mi appare un segno importante della riconduzione proprio dello sperare, del suo significare, al verbo neoliberale, a quel suo dettato ripetuto senza sosta che ripropone una particolare antropologia centrata sull'affermazione ineludibile del principio di prestazione, del valore indiscutibile del performativo a tutti i costi, del competitivo senza traguardo: a tutto questo si affianca poi anche il motivo “celestiale” del cosiddetto “capitale umano” che nient'altro propone se non la destinazione del vivo alla dipendenza del “morto”, che così riesce a non morire veramente mai.

Qualche amico, maggiormente dotato di spirito di ironia rispetto al sottoscritto, potrebbe osservare che soltanto così, come singolari morti viventi, possiamo continuare a sperare, calandoci ancora di più all'interno delle organizzazioni date o messe in piedi per l'occasione del momento, con i loro principi/ordini assolutamente indispensabili per anticipare qualcosa e selezionare su tale base le possibilità concrete di azione e di pensiero. Però ho il sospetto che facendo in tale maniera non si faccia altro che “effettivamente” non vivere e che tale condizione sia imprescindibile per poter illusoriamente sperare in una fantasmatica trasformazione del nostro modus vivendi: per sperare di non morire ci si deve consegnare mani e piedi alle logiche organizzative del nostro sistema di vita, bisogna realmente farla finita con il nostro ex-sistere, cioè tra/passare infinitamente nell'ordine del lascia-passare predisposto senza margini di errore, meglio: senza variazioni ingestibili dell'informazione e delle differenze, caso mai si manifestassero.

Mi viene in mente, come una sorta di “vizio assurdo” malamente mascherato, un “passo” di Gilles Deleuze a proposito di quella “società del controllo” che già dava ampia prova di sé, del suo articolarsi, in apertura degli anni 90 del secolo scorso. Il filosofo francese insiste sul fatto che in tale società non la “si finisce mai con nulla” in quanto tutto ciò che si co-presenta, dall'impresa alla formazione e ai servizi, sono “stati” prodotti da uno stesso “deformatore universale”, da una stessa “modulazione”. Già Kafka aveva in tal senso avvertito le diversità tipologiche di società: da una parte, “l'assoluzione apparente delle società disciplinari”, che consentono di ricominciare sempre (scuola, caserma, fabbrica ecc.); dall'altra, “il differimento illimitato delle società di controllo”, il loro incessante variare.

Si tratta in definitiva di due modi di vivere sotto veste giuridica che mostrano delle differenze profonde e di fatto le verifichiamo sulla nostra carne nel momento in cui siamo collocati all'interno di qualcosa che non fa altro che modularsi, “in stati di perpetua metastabilità”, in molteplici maniere, passando “per sfide, concorsi e colloqui assolutamente comici” e terribilmente idioti che però ben corrispondono – perché qui è appunto questo disinvolto corrispondere ciò che realmente conta – ad un “modo d'essere imprenditoriale”.

Deleuze ricorda i due poli della foucaltiana società disciplinare: la firma indicante l'individuo e il numero/matricola che posiziona all'interno di una qualche massa, ciò che ci restituisce il fatto che “per le discipline non esiste incompatibilità tra i due poli” (“il potere è allo stesso tempo massificante e individualizzante, cioè costituisce come corpo coloro sui quali si esercita, e modella l'individualità di ciascun membro del corpo”). Ma diversa è la realtà delle “società di controllo”. In esse, “la cosa essenziale non è più né una firma né un numero, ma una cifra: la cifra è un lasciapassare, mentre le società disciplinari sono regolate da parole d'ordine (sia dal punto di vista dell'integrazione che della resistenza).

Il linguaggio numerico del controllo è fatto di cifre che contrassegnano l'accesso all'informazione o il diniego. Gli individui sono diventati dei 'dividuali' e le masse dei campioni, dati, mercati o 'banche';. Forse è il denaro che esprime al meglio la distinzione tra le due società, poiché la disciplina si è sempre rapportata a monete stampate che racchiudevano l'oro come valore di riferimento, mentre il controllo rinvia a scambi fluttuanti, a rimodulazioni che come cifra fanno intervenire una percentuale delle differenti monete. La vecchia talpa monetaria è l'animale degli ambienti di internamento, mentre quello delle società di controllo è il serpente” (G. D., Poscritto sulle società di controllo, in Idem, Pourparler. 1972-1990, Quodlibet, Macerata, 2000, pp.237-238).

Si potrebbe continuare a lungo con l'ancora oggi puntuale fenomenologia deleuziana del regime nel quale viviamo e che mostra una sorta di metamorfosi antropologica caratterizzata dal tratto “ondulatorio” del modo di esistere del soggetto del/nel controllo, sempre più “indebitato” in relazione all'effetto dovuto sulla sua posizionalità/socialità dall'affermazione del nuovo centro o “anima” dalla parte dell'impresa: il “servizio vendite”. Le imprese hanno finalmente un'“anima”, fatto questo che rende più facilmente accettabile che possano non finire mai, al di là del loro apparente venir meno nelle forme date, presenti, in un qualche momento.

Tornando però al motivo delle organizzazioni, piegherei il ragionamento, sostenuto dall'idea che il controllo è rapidissimo e continuo (le progressioni tecnologiche investono pure le modalità del lasciapassare), nel senso di sottolineare come ormai si speri soltanto di assumere parti di controllo, di introiettarle, per così non finire mai, si ritiene, ed effettivamente qualcosa può succedere in tale direzione, laddove resti traccia di noi nella memoria del debito: ennesimo tentativo di trattenere parzialmente lo scorrere del tempo nella connessione im/mediata del vincolo crono/logico proprio dell'indebitamento. Si può e allora si deve sperare, in breve, di non morire, meglio: di far dipendere il nostro esistere dal più pieno conformarci alle regole delle organizzazioni all'interno delle quali la nostra presenza in carne e ossa, come soggetti di bisogni, desideri, fantasie, relazioni, saperi è esclusa a priori se non nella combinazione/composizione con le disposizioni proprie del primato del “morto” sul “vivo”.

Non si riesce neppure a capire meglio che così ogni vita è un “processo di demolizione”, per dirla con Francis Scott Fitzgerald, perdiamo la consapevolezza di ciò e ci ritroviamo ad essere dei fascisti, a gridare “ viva la morte!” pensando di poter sperare/affermare di non finire mai. Tale speranza non può essere la “nostra”: l'unica eventualmente da coltivare è quella “infine” consegnataci nella riflessione di Benjamin, da tenere ben ferma: “Solo per chi non ha speranza c'è data la speranza”.