Connessioni ecologiche
Andrea Ghelfi

26.11.2022

Il testo che segue è l'Introduzione di Andrea Ghelfi al volume Connessioni ecologiche da lui curato, edito da Ombre Corte

Introduzione

Terrestre, Chthulucene, Cosmopolitica



Il sintomo Antropocene testimonia le tracce indelebili della presenza umana sul pianeta Terra e il divenire pericolosamente instabile dei sistemi relazionali Terra-umani. Sesta estinzione di massa, crisi climatica, esaurimento dei suoli, acidificazione degli oceani, migrazioni forzate, distruzione delle foreste, coronavirus. Le tracce del conflitto ecologico chiamato Antropocene sono ovunque, mentre le modificazioni chimiche, biologiche e geofisiche della Terra comportano conseguenze sempre più ingovernabili. Come sostiene Crutzen, viviamo in “terra incognita” (Crutzen 2002). Questa è la nuova condizione ecologica. Coloro che sono apparsi con l’atteggiamento di una potenza colonizzatrice – i principali attori del conflitto ecologico – sono ora minacciati tanto quanto i mondi che hanno radicalmente modificato e distrutto quando hanno preso le redini di ciò che hanno chiamato “terra nullius” (de la Cadena and Blaser 2018): terra libera da afferrare, materia libera da smaltire e materiali liberi da prelevare in un’estrazione accelerata di risorse naturali finalizzata a soddisfare una domanda globale di minerali ed energia. Siamo nel mezzo di un conflitto ecologico profondo, nel bel mezzo del potere distruttivo dell’Antropocene, tra una moltitudine di problemi ecologici. Questa condizione di imprevedibilità ci costringe a rimanere con le “molte intrusioni di Gaia” (Stengers 2017): la scomoda verità che le crisi ecologiche fanno parte del nostro presente e del nostro futuro. Gaia è il nome di una divinità mitologica greca che mostra una decisa indifferenza nei confronti degli effetti delle sue azioni: Gaia non agisce per punire qualcuno o per ristabilire la giustizia. Agisce, punto e basta. Le “intrusioni di Gaia” interrompono ogni idea di progresso storico, di umanesimo geocentrico, di natura passiva. Come ci ricorda il filosofo Michel Serres: “non dipende più da noi che tutto dipende da noi” (Serres 1995, p. 189). Questa affermazione non è un invito all’inazione. Al contrario, sembra contenere un invito all’azione, un invito a sperimentare nuovi modi di fare intraprendendo azioni – teoriche e pratiche – senza garanzie.

Tra le diverse prospettive teoriche che ci aiutano a pensare il problema della rigenerazione ecologica quelle di Donna Haraway, Bruno Latour e Isabelle Stengers mi paiono particolarmente efficaci in quanto in grado di coniugare una critica dell’umanesimo moderno con una comprensione dell’ecologia oltre la dicotomia natura-cultura. Haraway vede nell’esaurirsi della cultura dell’umanesimo moderno e nel simultaneo decentramento dell’umano in relazione al mondo materiale, alle tecnologie e ad altre specie una condizione di possibilità per sperimentare composizioni socio-materiali più ricche e convivenze multispecie più sostenibili. Latour ci invita a pensare la continuità di ogni azione mondana dentro a un continuum umano e non-umano, mostrandoci come una prospettiva ecologica possa essere sviluppata oltre una nozione normativa di natura, e oltre quel riduzionismo, umanista e moderno, che sempre più appare come l’esito di una purificazione che pretende di separare la società umana dal mondo materiale. Infine Stengers che ci chiede, nel tempo delle intrusioni di Gaia, di riattivare la nostra capacità di fare attenzione. In prima istanza dobbiamo fare attenzione a ciò da cui dipendiamo perché, ci dice Stengers, gli umani dipendono da qualcosa di più grande di loro, da un concatenamento di forze suscettibili e con le quali, tuttavia, dobbiamo comporci.

Queste tre prospettive teoriche, nelle quali ecologia e politica si ripiegano continuamente una sull’altra, attraversano tanto questa sezione introduttiva quanto le riflessioni e i contributi che trovate in questo libro. Nella prima sezione del volume, dedicata a Donna Haraway, Carlotta Cossutta ci invita a pensare cosa possa significare costruire connessioni in/appropriate a partire dalle esperienze e della narrazioni femministe; Angela Balzano esplora il pianeta Haraway seguendo le linee che congiungono la galassia della tecnoscienza, la meteora biologia e possibili altrove; Miriam Tola ci offre un denso e appassionato corpo a corpo tra Haraway e Marx e infine Elisa Virgili ci aiuta a comprendere il rapporto tra xenofemminismo e Haraway. Nella seconda sezione del volume, dedicata a Bruno Latour, Francesco Di Maio ci introduce nel laboratorio Latour attraverso una puntuale ricostruzione del posto che ibridi ed enunciazioni occupano nella sociologia dell’Actor Network Theory; Mirko Alagna ci restituisce vizi e virtù della postcritica, mentre Michele Bandiera e Enrico Milazzo situano Latour e Stengers tra gli ulivi della Puglia, nel tentativo di farci comprendere qualcosa di più su ecosistemi e batteri. Veniamo a Isabelle Stengers. I concetti di Gaia e cosmopolitica sono qui analizzati da Gilberto Pierazzuoli, e il pensiero di minoranza, che segna da sempre l’avventura intellettuale di questa importante filosofa belga, ispira le note di Nicola Capone su come rifare il mondo restando felici. Un testo inedito in lingua italiana chiude il volume: la prefazione di Isabelle Stengers all’edizione francese di The Mushroom at the End of the World: On the Possibility of Life in Capitalist Ruins di Anna Lowenhaupt Tsing. Tutti questi contributi sono stati pensati a partire da un luogo di conversazione. L’agriturismo Testalepre, nel comune di Greve in Chianti, ha ospitato due edizioni del Retreat Testalepre dedicate al pensiero di Haraway, Latour e Stengers nel settembre 2018 e nel settembre 2019. Le relazioni presentate in questo contesto seminariale sono state in seguito rielaborate dai singoli autori e autrici, e grazie all’interesse dell’editore ombre corte, oggi sono raccolte in questo volume.

L’ecologia politica è un campo di studi che negli ultimi cinquant’anni ha politicizzato in molti modi l’impatto della produzione e riproduzione umana sull’ambiente. Negli ultimi anni una serie di prospettive emergenti, all’intersezione tra antropologia culturale, geografia, filosofia della scienza, sociologia dell’ambiente, science and technology studies ed environmental humanities, stanno sviluppando una comprensione dell’ecologia politica oltre la moderna biforcazione tra società e ambiente. In questo dibattito, Haraway, Stengers e Latour sono autori chiave per dare corpo a un pensiero ecologico in grado di evidenziare l’interconnessione di umani, animali, piante e mondi geofisici, così come l’intreccio di ecosistemi, tecnologie, istituzioni e culture. Mentre la prospettiva ambientale si concentra principalmente sulla natura non umana, il pensiero ecologico che emerge da queste traiettorie di studio comprende la complessa rete che lega insieme umani, non umani e sistemi planetari. Attraverso una piccola e parziale introduzione al pensiero ecologico di questi autori e autrici, nelle pagine che seguono intendo esplorare una rete di concetti chiave – quali terrestre, chthulucene, cosmopolitica – per pensare l’ecologia politica e la riparazione ecologica nel continuum quotidiano umano-non umano.


Terrestre

Rifiutando ogni distinzione essenzialista tra natura e società Latour ci ha insegnato che “non siamo mai stati moderni”: la materialità della vita non può essere disgiunta e separata dalle tante interazioni vitali che legato la vita della nostra specie con quella di molteplici altri attori. Gli umani, da milioni di anni, hanno esteso le loro relazioni sociali a una serie di attori non umani con i quali essi formano veri e propri collettivi. Questa enfasi sulla nozione di “collettivo” sta a sottolineare come attori umani e non umani si compongano continuamente l’uno con l’altro in mondi comuni. Differenti ed eterogenei attori partecipano e rendono possibili diversi assemblaggi socio-materiali, materializzando e rendendo possibili certe condizioni di fatto piuttosto che altre. Tale nozione di collettivo ci offre la possibilità di ripensare radicalmente la nozione di agency, ponendo radicalmente in crisi i tratti umanistici e intenzionali con i quali si è soliti definirla nel pensiero politico. Piuttosto che essere localizzata esclusivamente nel corpo umano, tale nozione di agency tende a essere redistribuita in un campo costituito dalla presenza attiva di attori eterogenei. Non a caso Latour intende per ecologia politica non tanto una attenzione per la natura, quanto piuttosto un certo modo di favorire e di concepire l’associazione tra umani e non umani alternativo alla modernizzazione, al progetto moderno. Potremmo dire che in Latour il tema dell’ecologia politica occupa lo spazio dell’insieme delle intersezioni della filosofia politica dell’umano e dei non umani. Vediamo in breve come, a partire dal suo singolare approccio materialista.

Scrive Latour: ““Ci sono più agency nel pluriverso, per usare l’espressione di William James, di quanto filosofi e scienziati immaginassero” (Latour 2022, p. 240). Piuttosto che a una molteplicità di punti di vista umani su una stessa cosa, nel pensiero di Latour a essere molteplici sono le cose stesse. Tale nozione di molteplicità non ha niente a che vedere con una flessibilità interpretativa o con rappresentazioni simboliche, piuttosto è la cosa stessa che si disloca come molteplicità. Perché una cosa è sempre un pluriverso di agenti materiali. Un pluriverso non è mai un oggetto stabile ma viene continuamente performato e agito da un insieme di attori, relazioni, pratiche, azioni portate avanti da agenti umani e non umani. La composizione del reale è qui definita come l’esito sempre parziale e momentaneo di azioni e pratiche che coinvolgono attivamente attori eterogenei, e un pluriverso è sempre l’esito di una co-azione e di una coproduzione di agenti, una composizione ibrida. Latour ci sta dicendo che nella costituzione di un mondo materiale gli esseri umani non sono l’attore centrale, piuttosto spartiscono di fatto le ‘loro’ agency con uno svariato numero di agenti materiali di cui non sono padroni e su cui non esercitano controllo.

Non ho modo qui, per questioni di spazio, di esaminare limiti e ricchezze della sociologia ibrida – l’Actor Network Theory – che Latour deriva da tale configurazione ontologica, una sorta di nietzschiana volontà di potenza distribuita simmetricamente tra tutte le cose del mondo. Andiamo dritti alla filosofia politica. Scrive Latour: “Gli umanisti moderni sono riduzionisti perché attribuiscono la capacità di agire solo a un piccolo numero di poteri, relegando il resto del mondo a niente, a forze mute” (1993, p. 138). Se questo fa la mediazione politica moderna, relegando dunque molti attori significativi fuori dal campo politico, la proposta di Latour di una “costituzione non moderna” consiste nel riconoscere un diritto di tribuna, un diritto di partecipazione politica e di rappresentanza ad attori non umani. Un “parlamento delle cose” nel quale si esercita una sorta di management ibrido che emerge dalla connessione di attori eterogenei e dagli accordi parziali che via via si definiscono tra loro. Se la politica in Latour si riferisce alla capacità di estendere e favorire pratiche di negoziazione, la costituzione non moderna costituisce un modo per includere nuove agency in forme costituite di policy in modo da coltivare migliori condizioni di negoziazione. In questo modo nuove agency vengono introdotte e incluse dentro al progetto costituzionale.

La necessità di includere entità non umane nel progetto costituzionale si fa ancora più urgente in tempi di crisi ecologiche, tempi nei quali è impossibile fare “l’analisi concreta della situazione concreta” senza fare i conti con ciò che comporta l’aumento di tre gradi della temperatura del pianeta. Si tratta, secondo Latour (2018), di ricostruire un realismo del terrestre capace di afferrare le cose da vicino, di riconnetterci politicamente con le dimensioni materiali che permettono la generazione della vita terrestre: di riconoscere il tessuto di dipendenze materiali che compongono un territorio, un territorio di vita. Compito di una politica terrestre, che Latour contrappone tanto a un globale “universalistico” quanto al locale chiuso su stesso, sarebbe quello di coltivare dei radicamenti capaci di farci abitare un territorio e di riconnetterci con una discendenza. Un territorio dentro al quale situarci e un passato da reiventare, ecco due dimensioni fondamentali per una politica del terrestre, politica che Latour contrappone in modo netto a ogni rigurgito localista, identitario e reazionario. La politica della mondializzazione univoca ha fatto tabula rasa di queste due dimensioni, concependo il territorio come un effetto delle forze globali e il passato come qualcosa da superare. Invece Latour ci propone di riconnetterci con le tante dipendenze che ci permettono di vivere in un territorio – esercizio fondamentale per provare a capire cosa siamo disposti a difendere – così come di concepire il passato come eredità, passaggio, ripresa, trasmissione, trasformazione, generazione – esercizio fondamentale per capire cosa del passato far passare nel presente, e dunque cosa vale la pena reinventare. Il terrestre è certamente un campo politico rilevante per pensare un orizzonte dell’ecologia politica oltre, e contro, i paradigmi della mondializzazione e del localismo regressivo. Al contempo Latour sembra incapace di portare “l’inchiesta sul terrestre” dentro agli esperimenti ecologisti e nei molteplici tentativi di abitare diversamente i territori: riconoscere il traffico di relazioni umane-non umane non è sufficiente per una politica di rigenerazione materiale, importa come le pratiche generino, o meno, altri intrecci e politiche alternative della materia. Latour si ferma sulla soglia delle pratiche, come se fosse impossibilitato a uscire dal quadro politico della rappresentanza moderna.

Ma come è possibile pensare la natura costitutiva di forze e processi materiali nella vita ecologica, sociale, tecnologica e politica non come una politica della rappresentanza inclusiva, ma piuttosto come una politica costituente? Ecco, credo che questa domanda ci presenti lo scarto tra la proposta di Latour e quella di Haraway. A patto che per politica costituente si intenda la capacità immanente a svariati processi di materializzazione di fareTerra e di creare mondi. Ma andiamo con calma, per essere più chiari.

Haraway fa propria e in qualche modo contribuisce a costruire una nozione chiave del pensiero di Latour: il concetto di ibrido. Per Donna Haraway viviamo mondi ibridi a conseguenza del fatto che il cronotopo moderno, e dunque le modalità specifiche nelle quali il tempo e lo spazio sono state concepite nella scienza moderna, sono implose nelle forme di vita contemporanee. La cornice di senso moderna è implosa. E dunque ad essere implose sono le linee di separazione essenzialista che dividevano il naturale dal culturale, il tecnico dal politico, l’umano dal non umano, il soggetto e l’oggetto, il materiale e il semiotico. A un immaginario fatto di regioni ben delineate e di confini stabili, ne subentra uno nel quale fusioni e condensazioni creano mondi ibridi. Se Crutzen ci ha detto “benvenuti nell’Antropocene” nei primi anni duemila, Haraway negli stessi anni ci diceva benvenuti nell’implosione dell’anthropos, benvenuti in natureculture.

Bene, dentro queste molteplici implosioni Haraway ci dice esplicitamente che la differenza politica da fare consiste non tanto nell’attivare una politica inclusiva della rappresentanza, o nel restaurare la cornice di senso moderna, ma piuttosto nello sperimentare forme di vita in grado di assemblare umani e più che umani in modi più sostenibili. “Il punto sta nel fare una differenza nel mondo, nel coltivare certe forme di vita piuttosto che altre. Nel farlo, nel mezzo dell’azione bisogna essere finiti e sporchi, non trascendenti e chiari” (1997, p. 36). Nel tempo in cui diverse traiettorie tecnoscientifiche creano nuovi mondi, ontologie e forme di vita, tale politica del fareTerra può a mio giudizio essere concepita come una politica della materia che viene agita a partire da contesti, processi e pratiche situate.


Chthulucene

In Chthulucene (Haraway 2019), un libro dedicato all’imprevedibilità della parentela e a tutti e tutte coloro che generano parentele, Donna Haraway ci regala una serie di appunti pratici per vivere, sopravvivere e sovvertire l’epoca dell’eccezionalismo umano. Sono appunti collezionati e ricomposti in un gioco di stringhe, fabulazioni speculative, teorie scientifiche, performance artistiche, studi etnografici, impronte di attivismo, riflessioni su corpi e tecnoscienze, storie e paesaggi i cui contorni sono ridefiniti quotidianamente a partire dalle plurali e eterogenee forme del vivere che li abitano. Sono storie nelle quali stare nel mondo, mondeggiare e fare mondi sono sempre esercizi collettivi e multipli, nei quali agire significa, consapevolmente o meno, agire con altre creature: con-divenire. Eccolo qua lo Chthulucene, uno spazio-tempo utile per rimanere a contatto con il vivente, con ciò che vive e muore, in tempi barbari. Come in permacultura le specie compagne – le commensali della terra – portano avanti forme di recupero parziale, lavorano la terra nella terra, creano rifugi multispecie, imparano le une dalle altre a partire dalla materialità situata dei problemi che affrontano: nessuno vive ovunque, tutte vivono da qualche parte. Niente è connesso a tutto, tutto è connesso a qualcosa. Ecco perché stare a contatto con il problema è condizione necessaria per fare parentele impreviste, per stare con le creature ctonie, con i tanti nomi che prendono e le mille storie che raccontano queste creature indigene della Terra.

Chthulucene è anche il nome di un terzo racconto, da affiancare a Antropocene e Capitalocene. Il sintomo Antropocene testimonia le tracce indelebili sul pianeta Terra della presenza umana e il divenire pericolosamente instabili dei sistemi relazionali Terra-Umani. Il Burning Man, ci dice Haraway, è la vera icona dell’Antropocene: gli esseri umani impegnati a bruciare fossili e determinati a crearne dei nuovi nel minor tempo possibile. Ma più che a una storia della specie umana Haraway guarda alle storie del Capitalocene, perché non è stata la specie umana a dettare le condizioni del colonialismo, dell’industrializzazione capitalista, dell’era nucleare o della terza era del carbonio. Il farsi globale dei rapporti sociali capitalisti, e le loro molteplici implicazioni socio-materiali, continuano ad essere un fondamentale oggetto di indagine a patto di rinunciare a quella divisione binaria tra natura e società che i marxismi ancora faticano a lasciarsi alle spalle. Nello Chthulucene infatti gli esseri umani sono nella terra e con la terra, e i poteri abiotici e biotici di questa Terra compongono la trama principale del racconto di Haraway: “rigenerare i poteri biodiversi della Terra è il lavoro e il gioco simpoietico dello Chthulucene” (Haraway 2019, p. 136). Respons-abilità multispecie, giustizia sperimentale, ecologia delle pratiche: soprattutto di questo ci parla lo Chthulucene, una foresta popolata da lotte ed esperienze collettive capaci di inventare dal basso pratiche di immaginazione, rivolta, resistenza e riparazione.

Cosa succede quando l’eccezionalismo umano e l’individualismo utilitarista dell’economia politica classica diventano impensabili nelle discipline e interdiscipline scientifiche più avanzate? Questa domanda fondamentale ci pone difronte a un concetto chiave del pensiero di Haraway, la “simpoiesi”, ovvero il “con-fare”. Prendendo sul serio il preziosissimo lavoro della biologa Lynn Margulis (Margulis 2007), Haraway riarticola la nozione di simpoiesi e la estende in natureculture a partire da un primato ontologico della relazione sui singoli enti. Le creature non precedono le loro relazioni: “le creature si penetrano a vicenda, si riavvolgono l’una attorno all’altra e l’una attraverso l’altra, si mangiano, fanno indigestione, si digeriscono in parte e in parte si assimilano a vicenda, e così definiscono degli ordini simpoietici altrimenti noti come cellule, organismi e assemblaggi ecologici” (Haraway 2019, p. 144). Il tortuoso e continuo mondeggiare terrestre non è fatto da entità preesistenti legate tra loro da interazioni di tipo competitivo, il neoliberismo è un racconto povero. Dunque la simpoiesi estende in forme generative le categorie di autonomia, autorganizzazione e autopoiesi, ci avvicina a pensare, sentire, lottare e costruire con i movimenti indigeni, femministi ed ecologisti altri mondi possibili con le forze di questo mondo. Il pensiero di Haraway costituisce un preziosissimo contributo per pensare un materialismo all’altezza delle sfide dell’ecologia politica, un materialismo che ci permetta di pensare la rigenerazione non solo come un processo sociale. Siamo di fronte alla sesta estinzione di massa. Il produttivismo della mondializzazione ha potuto svilupparsi grazie a una politica della materia di tipo coloniale. Certi umani e certi non umani si sono composti in forme insostenibili. Le conseguenze sono nel nostro suolo, nell’aria, nell’acqua, dentro di noi e intorno a noi. La soglia di sostenibilità materiale della modernizzazione è stata varcata. Ci vogliono altre politiche della materia: forme di coesistenza alternative tra specie, sostanze inorganiche e artefatti. L’ecologia politica non è solo un campo dentro al quale si moltiplicano le fonti di rivolta contro l’ingiustizia; l’ecologia politica come politica alternativa della materia è anche il campo dentro al quale si moltiplicano le pratiche quotidiane e silenziose di rigenerazione. L’autonomia del xxi secolo nasce dalla riscoperta della fitta rete di interdipendenze che ci permettono di vivere, dalla fine di ogni divisione essenzialista tra natura e cultura, dalla capacità di creare infrastrutture in grado di sostenere, difendere e far durare nel tempo forme alternative di esistenza. La questione sociale, campo attorno a cui le tematiche dell’autonomia si sono prevalentemente sviluppate nei due secoli precedenti, va riarticolandosi a partire da questo orizzonte di senso.

Questa politica autonoma la ritroviamo in una miriade di movimenti contemporanei che a partire da pratiche specifiche e da contesti eterogenei inventano altri modi di esistenza materiale, grazie alla sperimentazione di forme di interazione che coinvolgono la presenza attiva di entità umane e più che umane. Inventando modi di relazione tra elementi eterogenei, creando ecologie di esistenza abbastanza ricche e responsabili, abbastanza fitte e dense per poter coltivare prosperità mondane e il minimo di sofferenza possibile per tutti gli enti che le abitano, questi movimenti inventano pratiche del fare comune dentro una politica del quotidiano. Dal farsi pienamente globale dei movimenti ecologisti e contadini alle pratiche di solidarietà per il diritto alla salute, dalla permacultura fino alle fabbriche occupate, dai movimenti femministi e queer alle resistenze indigene, un punto centrale dell’ecologia politica contemporanea sta a mio giudizio proprio nella sperimentazione di altri modi di relazione tra persone, piante e artefatti, umani e suolo, tecnologie e umani. Se una politica istituente si riferisce prima di tutto alla capacità di praticare trasformazioni materiali, tale capacità di agire non può essere definita come una agency umana o come un universale da realizzare. Al contrario, tale politica della materia è sostenuta dalla capacità situata di “agire con” altri, umani e più che umani. Se il materialismo storico si è contraddistinto per una straordinaria capacità di tenere assieme materialismo e attivismo attorno al nodo della lotta di classe, il materialismo che emerge dalla foresta dello Chthulucene – e che risuona con il pensiero ecosofico di Guattari (2007) – ripropone con forza un rapporto tra materialismo e attivismo. Solo che, anziché partire da un regime di intelligibilità della politica interno alla sfera sociale della produzione, colloca la politica nel cosmo, nel laboratorio scientifico, nel consultorio, nella comune, nel campo, in officina e nei tanti altri luoghi dove stiamo imparando a decolonizzare il nostro rapporto con la materialità della vita.

Con Dimitris Papadopoulos abbiamo provato a chiamare questi movimenti “more-than-social movements” (Ghelfi e Papadopoulos 2021). Questa espressione indica la proliferazione contemporanea di movimenti che, partendo da pratiche localizzate e specifiche stanno costruendo altri modi di abitare il nostro pianeta. Attraverso la creazione di altri modi di vita quotidiana questi movimenti stanno costruendo dal basso pratiche di transizione socio-ecologica. Si tratta di movimenti “più che sociali”, nel senso che le loro pratiche e i loro obiettivi non sono diretti solo a sfidare le relazioni di potere o le istituzioni consolidate. La strategia di questi movimenti consiste in qualcosa di meno e al contempo in qualcosa di più della contestazione delle istituzioni esistenti. Se il concetto tutto politico di autonomia si riferisce storicamente all’idea che le mobilitazioni e i conflitti sociali guidano la trasformazione sociale invece di essere una mera risposta al potere sociale ed economico, i movimenti più che sociali rielaborano ed espandono l’autonomia in mondi “più che umani”, evidenziando l’importanza di creare una politica alternativa e quotidiana della materia. I movimenti socio-ecologici emergenti politicizzano il vivere quotidiano e si danno a partire dalla necessità di riarticolare attivamente la materialità di alcuni processi, per esempio la produzione di cibo. In mondi più che umani autonomia significa organizzare interdipendenze che permettano di creare altre forme di vita e inventare infrastrutture alternative che permettano a questi esperimenti di durare nel tempo. L’autonomia qui riguarda le pratiche quotidiane di rigenerazione e la costruzione di percorsi di giustizia ecologica e sociale. Quando i movimenti incontrano la materia come campo d’azione strategico per sperimentare pratiche generative di giustizia, la politica autonoma richiede l’interconnessione materiale, l’organizzazione pratica, la convivenza quotidiana e la promozione di alleanze ontologiche. E queste sono sempre più che umane, più che sociali. Esse implicano interazioni, modi di conoscere, pratiche che coinvolgono il mondo materiale, le piante e il suolo, i composti chimici e le energie, altri gruppi di esseri umani e l’ambiente circostante, altre specie e macchine. L’autonomia è un appello all’azione diretta, alla ricombinazione materiale, alla giustizia immediata. Insistere sull’emergenza di un ambientalismo della vita quotidiana, come quello che le reti di Genuino Clandestino (Ghelfi 2022) stanno portando avanti attraverso l’adozione di pratiche agroecologiche e la costruzione di comunità del cibo, è per me un modo per evidenziare il potere trasformativo di tali movimenti: la loro capacità di creare configurazioni materiali alternative e pratiche che mirano a materializzare la transizione socio-ecologica nel continuum quotidiano umano-non umano.


Cosmopolitica

Bene, veniamo a Isabelle Stengers, perchè su questo punto, sul pensare una ecologia delle pratiche a partire da una disposizione ad “agire con”, credo possa esserci molto utile per pensare un fare comune in una prospettiva ecologica.

Stengers definisce l’ecologia politica come la politicizzazione di problemi esistenti in relazione a pratiche di sapere e a pratiche materiali che hanno a che fare con le cose del mondo, con i processi materiali che abitano il mondo. No issue, no politics, sembra dirci la Stengers. Come a dire che lo spazio della politica emerge nel tentativo di far fronte, di rispondere a problemi situati. E più nello specifico ci dice che la questione ecologica ha a che fare con le connessioni e le frizioni che si vengono a creare tra ciò che viene a esistere e le tante differenze che si determinano in relazione alle tante esistenze alle quali tale ente è connesso. Dunque una definizione pienamente relazionale dell’ecologia, nella quale la vita di ogni ente non è separabile dalle tante interdipendenze a esso connesse. Per fare fronte, per affrontare tali frizioni, Stengers ci suggerisce un rapporto problema-soluzione nel quale l’enfasi è posta sulla capacità di un problema comune e di una materia di interesse comune di catturare l’attenzione di diversi attori. Ma qui ciò che è comune, non è una proprietà o una sostanza comune, piuttosto è ciò che chiama in causa diversi attori, ciò che li forza a pensare, ad inventare, ad agire di concerto dipendendo gli uni dagli altri. Il comune dentro a un “agire con” è ciò che sta tra di noi, che in vari modi ci interpella, ciò che ci chiama e ci forza a pensare e ad agire. Il comune dunque come ciò che riattiva una capacità collettiva di composizione tra diversi attori, che si compongono rifiutando la presenza di una autorità esterna, di un arbitro morale. Tale nozione di composizione ecologica segna una netta discontinuità con un’idea di politica nella quale accordo e unità si fondano su una supposta natura comune che tutti ci riveste, o su qualche universalismo trascendente. All’opposto, in Stengers abbiamo un approccio ecologico e composizionalista al tema del comune. Un invito ad andare piano, e comporre lentamente mondi comuni ed ecologie di esistenza. Come suggerisce l’etimologia della parola “interesse”, ciò che è interessante consiste in ciò che abita l’“inter-esse”, ciò che sta “tra”, che ci costringe a pensare con altre attenzioni, che estende le nostre razionalità, che ci mette in contatto con le conseguenze di qualcosa che sta accadendo e con coloro che in varia misura sono collegati e ridefiniti da tali accadimenti.

Stengers ci suggerisce di pensare all’ecologia politica al di là del ruolo fondante della nozione di natura, e ci ricorda che agire con altri che hanno un significato per noi è un’attività infinita e una condizione necessaria per fare mondi comuni popolati da eterogeneità divergenti che non diventeranno mai un insieme universalistico, ma composti materiali fragili e sempre rivedibili. Nella sua proposta cosmopolitica Isabelle Stengers suggerisce di resistere alla tentazione sia di pensare alla politica come a un piano per “un buon mondo comune”, sia di trasformare una pratica situata di cui siamo particolarmente orgogliosi in una chiave generale; una neutrale universalità buona per tutti e in ogni situazione. La sua proposta non è orientata a fornirci una lista di procedure che possano cogliere una definizione di ciò che è buono in un “mondo comune buono”, piuttosto l’idea implicita nel suo enigmatico termine “cosmo” suggerisce “di rallentare la costruzione di questo mondo comune, per creare uno spazio di esitazione su ciò che significa dire “buono”. Il cosmo, o meglio il suo enigmatico cosmo, non è un oggetto di rappresentazione in sé: più che un programma definito o uno scopo prestabilito da raggiungere, si riferisce a un ignoto, “l’ignoto costituito da questi mondi multipli e divergenti, e all’articolazione di cui potrebbero eventualmente essere capaci” (Stengers 2005, p. 996). E più che una teoria “generalista”, questo tipo di proposta acquista significato in situazioni concrete, dove sono all’opera pratiche concrete.

Questo tipo di “sospensione” è in grado di creare un’esitazione intorno al principio di equivalenza con le sue radici fortemente radicate nell’idea che la politica implichi l’esistenza di una misura comune e di una altrettanto astratta intercambiabilità delle posizioni. Più che con un operatore di equivalenza, tale politica del cosmo risuona con una “mise en égalité”, cioè uno spazio in cui ogni attore ha la sensazione di non poter dominare completamente la situazione in discussione. Lontano dall’obiettivo di una pace ecumenica, ciò che è in gioco in questo esercizio è l’invenzione di vincoli, l’invenzione di un modo per esporsi, per decidere – e qui decisione è parola che risuona con il chiedersi “che cosa stiamo facendo?” – in presenza di coloro che potrebbero essere toccati dalle conseguenze di tale decisione. La proposta etico-politica di Stengers sembra essere finalizzata alla creazione di forme di autoregolamentazione: un’etica capace di facilitare l’invenzione sperimentale di vincoli di reciprocità all’azione collettiva. Stengers ci ricorda che agire con altri/e che hanno per noi significato è un’attività senza fine e una condizione necessaria per fare mondi comuni popolati da eterogeneità divergenti che mai si faranno un tutto universalistico, ma nel migliore dei casi molti fragili e rivedibili composti materiali. Tale proposta etico-politica è finalizzata a sostenere i nostri tentativi di non arrenderci a ciò che ha creato le intrusioni di Gaia, a intraprendere azioni senza garanzie nella nuova condizione ecologica, a riattivare la nostra capacità di fare attenzione.

In prima istanza dobbiamo fare attenzione a ciò da cui dipendiamo perché, ci dice Stengers, gli umani dipendono da qualcosa di più grande di loro, da un concatenamento di forze suscettibili e con le quali, tuttavia, dobbiamo comporci. E dunque, fare attenzione qui significa sperimentare dei modi situati per comporci diversamente, provando a mettere in sospensione le pressanti richieste dell’alleanza Imprenditore-Stato-Scienza che del non fare attenzione ha fatto la sua regola di funzionamento. L’autorità della Scienza, l’ordine pubblico, le necessità dell’accumulazione ci chiedono di non esitare, di arrenderci al Progresso e dunque alle barbarie. La riappropriazione collettiva della capacità di fare attenzione è in fondo ciò di cui Stengers si è da sempre occupata: la natura sperimentale delle pratiche scientifiche, il riunirci attorno a un “fare comune” e l’impresa del prenderci dei rischi sono esempi, alcuni dei molti modi possibili per riprendere in mano il senso di ciò che si fa. Un senso determinato, precario, vulnerabile, allacciato all’invenzione di mezzi pratici, alla fabbricazione di dispositivi politici.

Non si tratta solo di opporre un rifiuto e di tirare il freno a mano, ma di lavorare praticamente alla costruzione di alternative materiali in grado di permettere a qualcosa del passato di farsi spazio, di reinventarsi nel presente. Nel mezzo del libro Nel tempo delle catastrofi. Resistere alle barbarie a venire, Stengers si sofferma su un evento politico: il movimento di resistenza agli ogm in Europa e la sua capacità di creare una rete larga di alleanze e soprattutto di generare attorno a questa parziale vittoria un nuovo campo di visibilità in grado di mettere in questione cosa sia diventata l’agricoltura della modernizzazione. L’agricoltura del Progresso, quella in grado di mettere fuori dai giochi sementi tradizionali e piccoli contadini, dopo questa battaglia, non appariva più tanto “razionale”. Viceversa, un insieme di tecniche di coltivazione, di modi di vivere, di intendere ruralità e cibo che si supponevano appartenere a un passato contadino destinato a passare, cominciavano ad emergere per quello che sono: alternative materiali nel presente.

La cultura dei dispositivi politici è una faccenda farmacologica, ci dice Stengers. I farmaci, come ogni artificio, possono essere assieme rimedio e veleno. E tuttavia dobbiamo fare i conti con l’ambiguità che ogni pragmatica della costruzione politica porta con sè. L’epoca è cambiata: le teleologie della salvezza, l’eroismo epico e le verità dell’utopia non appartengono alla cultura del pharmakon. I/le commoners, coloro che si radunano attorno a ‘cause comuni’, si accordano con prudenza, imparano a dare valore, ad agire, sentire e pensare con gli altri e le altre: “molteplicità radunate attorno a ciò che forza a pensare e immaginare assieme, attorno a cause ‘comuni’ di cui nessuna ha il potere di determinare le altre, benchè ciascuna richieda che le altre ricevano questo potere di far pensare e immaginare le persone che radunano” (Stengers 2021, p. 106). L’ecologia delle pratiche, di cui Stengers si fa promotrice, comporta l’alleanza tra eterogenei e questa non è una situazione priva di pericoli, ma scongiura il gruppo di fusione e il pericolo del terrore come forma della politica.

Noi sappiamo, voi credete. Questo è il motto della alleanza del Progresso. L’ecologia delle pratiche di Isabelle Stengers prende congedo da questo modo di intendere l’incontro. Ci suggerisce dei modi per radunarci attorno a ciò da cui dipendiamo: un fiume, una foresta, una scuola, un presidio sanitario, un consultorio, un campo coltivato. Ci invita a pensare a come le situazioni possono essere trasformate se coloro che le subiscono trovano delle tecniche e delle pratiche per pensare e agire assieme.



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©Andrea Ghelfi (a cura di), Palestre di precarietà, Ombrecorte 2022