10.03.2021
Con Panzieri. Una nota
Ubaldo Fadini
Ancora un saggio su “Quaderni Rossi”.
Da sedici anni nel cimitero di Torino
conosci l'altra parte, l'elegia ti fa ridere.
Franco Fortini

È particolarmente da apprezzare la pubblicazione, negli ultimi tempi, di testi incentrati sulla figura di Raniero Panzieri, uno degli intellettuali militanti del movimento operaio più significativi a partire dal secondo dopoguerra e prematuramente scomparso nel 1964 (era nato a Roma nel 1921).

Tra i più recenti, mi limito a segnalare lo studio di Marco Cerotto, Raniero Panzieri e i “Quaderni Rossi”. Alle origini del neomarxismo italiano, DeriveApprodi, Roma, 2021, la raccolta di testi dello stesso Panzieri, curata da Andrea Cengia, Il lavoro e le macchine. Critica dell’uso capitalistico della tecnologia, Ombre corte, Verona, 2020, la riedizione, a cura di Paolo Ferrero, di Raniero Panzieri. L’iniziatore dell’altra sinistra, Shake, Milano 2021 (la prima edizione è del 2005, Edizioni Punto Rosso, Milano: da riferimento fa però la seconda edizione del 2006, che raccoglie alcuni testi panzieriani), la raccolta, in lingua francese, Le marxisme comme expérience. Ecrits de Raniero Panzieri, con un testo di Danilo Montaldi, Eterotopia France, Paris, 2021.

È dalla mia prefazione a quest’ultima raccolta che traggo la formula del “Marx dopo i marxismi”, non tanto per segnalare lo smarcamento teorico e pratico dalle ortodossie predominanti all’interno della sinistra novecentesca in relazione alla Rivoluzione d’Ottobre, che pur caratterizza il percorso dell’indagine di Panzieri, quanto per mettere ancor più in luce lo sguardo singolarmente “sociologico”, avvertito dunque empiricamente e sviluppato nel senso del con-ricercare, nei confronti delle trasformazioni del capitalismo. È appunto a partire da queste ultime e dall’analisi delle conflittualità del/nel rapporto capitale/classe che ha preso il via, con l’esperienza decisiva dei “Quaderni Rossi”, quel processo di rinnovamento del marxismo, a livello pratico e teorico, che ancora oggi risulta estremamente importante e produttivo per meglio afferrare alcuni dei cambiamenti più significativi del capitalismo odierno.

Tanti sono i temi che meriterebbero un’analisi puntuale: la necessità di uscire da sinistra dallo stalinismo, negli anni 50, l’insistenza sullo strumento dell’inchiesta operaia, l’idea, che a me sembra estremamente attuale, della realizzazione di istituzioni del movimento, in grado di supportare le spinte alla costruzione di politiche di massa e così via. Ma in questa sede mi preme ritornare Sull’uso capitalistico delle macchine, testo essenziale, apparso nel primo numero dei “Quaderni Rossi”, del 1961.

Panzieri aveva già in precedenza rimarcato la necessità di tenere sempre presente il nesso tra la dimensione “tecnologica” e quella più propriamente organizzativo-politica nella dinamica produttiva capitalistica. E nei confronti dei discorsi allora (ma anche oggi...) correnti sulla razionalità insita nel processo lavorativo complesso, è da sottolineare l’osservazione criticamente pungente (da richiamare con forza nel nostro presente, nel momento in cui circolano senza problemi metafisiche assortite della tecnica, con un retrogusto filosoficamente dolciastro, ai limiti dell’insopportabile) su ciò che rimuovono, cioè “che è precisamente il ’dispotismo’ capitalistico che assume la forma della razionalità tecnologica. Nell’uso capitalistico, non solo le macchine, ma anche i ’metodi’, le tecniche organizzative, ecc. sono incorporati nel capitale, si contrappongono agli operai come capitale: come ‘razionalità estranea’. La ‘pianificazione' capitalistica presuppone la pianificazione del lavoro vivo, e quanto più essa si sforza di presentarsi come un sistema chiuso, perfettamente razionale di regole, tanto più essa è astratta e parziale, pronta per essere utilizzata in una organizzazione soltanto di tipo gerarchico. Non la ‘razionalità’, ma il controllo, non la programmazione tecnica ma il progetto di potere dei produttori associati possono assicurare un rapporto adeguato con i processi tecno-economici globali” (riprendo queste righe dal testo panzieriano ripresentato nella raccolta curata da Cengia: pp.92-93)

Panzieri rimarca in breve con grande lucidità il fatto che l’uso capitalistico delle macchine non è da intendersi come “la semplice distorsione o deviazione da uno sviluppo ‘oggettivo’ in se stesso razionale”: al contrario, esso determina lo stesso sviluppo tecnologico che si presenta così proprio come sviluppo capitalistico, con il suo portato di programmazione (che corrisponde poi allo sviluppo della cooperazione, del “processo lavorativo sociale”). È in questa prospettiva che si comprende meglio l’insistenza, sempre nel testo del ’61, sull’importanza del concretizzarsi di una coscienza politica di classe in grado di avanzare istanze di controllo complessivo dell’organizzazione della società in vista del superamento del suo di/segno capitalistico e dunque anche della tecnologia presente così come è fondamentalmente data nel suo legame con la produttività.

La stessa negazione del “meccanismo salario-produttività”, attraverso la rivendicazione di aumenti reali del livello dei salari, non può essere considerata decisiva, pur nel riconoscimento della sua validità critica: “Solamente investendo le radici dei processi di alienazione, individuando la crescente ‘dipendenza politica’ dal capitale, è possibile configurare un’azione di classe veramente generale” (pp.98-99). È rispetto a tale assoggettamento che si ripropone l’esigenza di una differente gestione di ciò che viene investito dal “dispotismo” che “il capitale proietta ed esercita sull’intera società e a tutti i suoi livelli”: esigenza che si traduce materialmente, praticamente, nella rivendicazione del “controllo operaio” come espressione di “massima pressione sul potere capitalistico” (Ibid.).

Tutto questo ha ancora oggi, a mio modo di vedere, una funzione di stimolo assai importante, in tempi di trasformazioni radicali della forza-lavoro che non mantengono quella centralità della classe operaia specifica di una fase della vicenda capitalistica che ha conosciuto ulteriori sviluppi, quelli che abbiamo davanti a noi, nel nostro presente. Come pensare oggi un diverso “controllo”, su quale base e rispetto a quale linea di intervento politico alternativo (anche rispetto ai resti della tradizione socialdemocratica e postcomunista)?

E soprattutto: in relazione a quali soggetti di lotta? Avvertendo che una volta rilevati e anche parzialmente compresi (pure all’interno di un quadro per così dire “teorico”) tali soggetti, resta comunque quanto mai aperta la questione della prospettiva politica di un controllo da parte dei “molti”, delle varie facce del lavoro vivente, di soddisfazione condivisa dell’esigenza autentica di superamento concreto del capitalismo.

Questione da affrontare anche avendo presente la ricerca di Panzieri, con la consapevolezza della ricchezza del suo percorso, ma sapendoci infine, pure in virtù del lavoro del coordinatore dell’impresa collettiva dei “Quaderni rossi”, effettivamente dopo di lui nel momento in cui ci riconosciamo – così facendo con-ricerca – anche attraverso il segno militante del suo operare.