17.09.2022
Probabilmente non ci si sofferma mai abbastanza a riflettere su quanto i nuovi media abbiano contribuito a trasformare i luoghi, fisici e mentali, della nostra quotidianità. E, ancora meno, sul fatto che le premesse di questa trasformazione risiedano già nel riassetto tecnologico, antropologico e geografico iniziato poco meno di due secoli fa. È il processo – impossibile da riassumere in poche righe – che ha visto l’abbattimento delle distanze fisiche, l’avvicinamento tutt’altro che risolto tra le civiltà o l’inversione del rapporto tra la Terra e la mappa, al punto da mettere in crisi ogni modello unificante di descrizione del mondo. Non è difficile intuire come tutti questi mutamenti abbiano contribuito a complicare vertiginosamente la nozione, già di per sé complessa, di ‘paesaggio’, smentendo l’ipotesi di una sua definizione univoca e chiarificatrice.
Claudia Losi (Piacenza, 1971) è forse l’artista italiana che, più sistematicamente di altri, affronta da anni questa problematica, come conferma anche la sua ultima personale alla Rocca Roveresca di Senigallia, Being There. Oltre il giardino, a cura di Leonardo Regano. È una tappa importante nel percorso dell’artista, giacché ne sintetizza motivi, formativi e concettuali, ricorrenti. Da anni il lavoro di Losi si focalizza infatti sulla complessità dei processi di antropizzazione del paesaggio naturale e sulle dinamiche della socialità più in generale. La sua ricerca spazia dal disegno alla fotografia, dall’installazione ai progetti partecipativi, riflettendo idealmente l’odierno paradigma della multimedialità, intesa più in generale come il ricorso simultaneo a strumenti differenti per affrontare la complessità del reale. Il transito da un medium all’altro non si limita ad attestare un atteggiamento creativo teso alla massima flessibilità, ma rispecchia sul piano operativo un tema centrale della sua ricerca: eludere il rischio della stanzialità, di una condizione immobile, di un posizionamento definitivo.
Losi interviene negli ambienti secondo una concezione mobile, erratica, del rapporto tra il soggetto e lo spazio, che si nutre di stratificazioni e sovrapposizioni continue. L’artista ripensa ogni luogo in cui opera come un’area carica di energia solcata da linee mutanti, pieghe e curvature che decidono il destino di ogni oggetto coinvolto. Lo si comprende osservando anche la ricorrenza di questi motivi formali negli elementi di volta in volta impiegati o reinventati: le ossa di una balena, le traiettorie fitte e irregolari dei tessuti, le proliferazioni vegetali che si appropriano di vecchi utensili abbandonati dall’uomo. Sono le tracce di uno spostamento nomadico e imprecisato, caratterizzato da diversioni continue e imprevedibili, che rifiuta l’idea di una spazialità passiva e inerte. In queste scelte, infatti, si coglie l’esigenza di aderire a ogni superficie non per colonizzarla, ma per risignificarla, per attivare porzioni di spazio solitamente trascurate o ritenute trascurabili. Marmagne 3 (1999) è probabilmente l’opera che attesta più esplicitamente tale intenzione: la gigantografia della vasca di un allevamento abbandonato di trote, completamente invasa dalla vegetazione, porta l’attenzione dell’osservatore sulla capacità rigenerativa della natura, evidenziandone al contempo la disponibilità adattiva; il piccolo ricamo dell’ultima fase della deriva dei continenti al centro dell’immagine, mimetizzato tra le piante, sembra costituirsi tuttavia come simbolo di una frattura irreparabile, di cui non restano che pochi frammenti. La clamorosa inversione di proporzioni tra il brano di paesaggio fotografato e la rappresentazione delle terre emerse è ancora una volta indice di una spazialità controversa, sospesa tra la verificabilità della traccia e l’astrattezza della rappresentazione iconica.
Attestano il carattere rigenerativo della natura sulle tracce dell’uomo anche Altro da cose (2015), un gruppo di ventitré utensili da cucina in alluminio (piatti, bottiglie, padelle, scolapasta, etc.) schiacciati, deformati e ricoperti da licheni in cartapesta. Più delle piante cresciute nella vasca di allevamento delle trote, i licheni si configurano come forme emblematiche della disponibilità adattiva della natura. Biologicamente, essi sono classificati come simbionti, ossia microrganismi che vivono in simbiosi mutualistica e che traggono vantaggi e benefici reciproci da questa condivisione. Presenti nel lavoro di Losi già a partire dalle Tavole vegetali del 1993, i licheni si costituiscono quindi come metafore di un’interconnessione armonica tra le forme di vita che, in Altro da cose, provvedono alla riappropriazione discreta di spazi compromessi dai rifiuti dell’uomo. La loro forza è tuttavia evidenziata dalla capacità di fissare questi oggetti alle pareti e di tenerli sospesi con la delicatezza che contraddistingue molte forme ornamentali. Alcuni di essi, infatti, riposano vicino ai capitelli con le foglie d’acanto di alcune porte presenti nella sala della Rocca che li ospita, intavolando silenti ma continuativi colloqui tra forme di natura artificiale venute da epoche e luoghi lontani nel tempo e nello spazio. Ci si trova quindi, ancora una volta, di fronte al collasso delle distanze, all’abbattimento di ogni gerarchia prospettica e cronologica.
Ogni esplorazione nomadica è scandita da soste momentanee necessarie a riacquisire le forze per proseguire. Ossi (2019), una capanna ottenuta dalla convergenza di tre costole di balena realizzate in cotto di Impruneta, ne segna una tra le più significative. Rifugio simbolico da una precarietà incombente, questa struttura rappresenta l’ultima tappa del Balena Project, iniziato oltre vent’anni fa con la realizzazione di una gigantesca balenottera in tessuto, riempita di lana e di ovatta, destinata a perdere nel tempo la sua forma originaria. Nella poetica di Losi la balena si costituisce come «ultraforma», per dirla con Werner Herzog, un’entità che eccede ogni misura ed è in grado di occupare per intero lo spazio infinito dell’immaginazione, come dimostrano i numerosi racconti in cui riveste un ruolo cruciale, dal Moby Dick di Hermann Melville al recentissimo Albert e la balena di Philip Hoare.
È una forma che eccede ogni misura, ma perché le contiene tutte: la carne della balena è capace di assorbire e trattenere sostanze ed elementi di ogni tipo per decenni tra i suoi tessuti. Così essa è divenuta, per Losi, il simbolo della resistenza ai mutamenti climatici e ambientali causati dall’uomo: una resistenza temporanea, destinata a trovare nelle whale fall una conclusione tanto suggestiva quanto amara e sconcertante. La riproposizione sotto varie forme del cetaceo e delle sue sezioni anatomiche attesta per l’artista la necessità di ricreare una relazione espansiva con il mondo animale per formulare ogni volta la domanda della nostra esistenza. Ma la capacità contenitiva della balena può essere intesa anche come dimensione dell’accoglienza e della protezione. Da questo punto di vista, Ossi delinea quindi lo spazio aperto, poroso e permeabile di una coabitazione equilibrata tra tutte le forme viventi presenti sul pianeta.
Il percorso della mostra si chiude con Oltre il giardino, un arazzo di circa quindici metri in tessuto Jacquard realizzato per l’occasione e destinato a rimanere nella collezione della Rocca. La pratica tessile caratterizza il lavoro di Losi sin dai suoi esordi ponendosi nell’ottica di un rifiuto delle rigidità moderniste per esaltare i valori della sofficità e della morbidezza, più affini alla dimensione biologica esplorata dall’artista. La forma stessa della balena si pone, d’altronde, come esempio ideale di un volume mobile e flessuoso, di una materia vivente capace di adattarsi a ogni spazio.
La superficie dell’arazzo di Senigallia è gremita di segni eterogenei indistintamente stratificati: si riconoscono, tra gli altri, gli uri delle Grotte di Lascaux, varie rappresentazioni vegetali desunte da erbari medievali e più prosaiche iscrizioni parietali dei giorni nostri. Lo spazio dell’opera si configura quindi come una sorta di diario verbo-visivo delle forme grafiche messe a punto dall’uomo per condividere conoscenze, bisogni, desideri e paure che, nel corso dei secoli, hanno condizionato la sua presenza e la sua attività nel mondo. La raccolta dei simboli non ha seguito un orientamento arbitrario, ma si è basato su un processo partecipativo: nel corso dell’anno precedente, infatti, l’artista ha organizzato alcuni workshop tra Singapore, Gerusalemme, Urbino e Rovereto nel corso dei quali ha chiesto ai presenti di indicare ciascuno la propria idea di luogo naturale.
Ne è scaturito un insieme eterogeneo di forme e di idee, talvolta contraddittorie e inconciliabili, che hanno dimostrato l’instabilità di tale definizione, sospesa tra la dimensione pubblica e quella privata, tra le funzioni primarie della propria esistenza fisica e l’insieme dei costrutti pratici e simbolici ideati dall’uomo per organizzarla. Losi ha ridisegnato tutte le immagini ottenute per omogeneizzare il tratto e realizzare il disegno a partire dal quale è stato prodotto il tessuto Jacquard. La superficie dell’arazzo funge perciò da contenitore attivo di istanze ideali e simboliche, un po’ come la carne della balena, capace di trattenere nei suoi tessuti qualsiasi sostanza sia in grado di assorbire.