Cinquant’anni dopo, i giovani infelici
Gianluca Viola

21.01.2023

«Uno dei temi più misteriosi del teatro tragico greco è la predestinazione dei figli a pagare le colpe dei padri»; questo fu l’incipit di un piccolo testo, redatto da Pier Paolo Pasolini – quasi – cinquant’anni fa, nei primi giorni del 1975, poi inserito nel volume delle Lettere Luterane, a titolo I giovani infelici. Il riferimento alla categoria del tragico e, nella fattispecie, a quella legge del tragico espressa, per esempio, dalla maledizione dei Labdacidi, parrebbe forse poco consono, dal momento che lo scritto vorrebbe indagare la condizione giovanile di un’Italia alle prese con la «mutazione antropologica» della società dei consumi, nei confronti della quale uno sguardo sociologico, interessato ai dati, avrebbe dovuto, forse, dare risultati migliori.

Pasolini, massimo critico della società italiana post-boom economico, segue piuttosto, in questo caso almeno, un cammino nietzscheano - del primo Nietzsche, autenticamente pessimista, ripreso da Foucault - cercando di congiungere la «dialettica della storia» - il mutamento antropologico determinato, appunto, da una certa situazione storico-sociale abbastanza precisa – con le «strutture immobili», quelle verità di pathos espresse nel contesto del teatro ateniese e tramandate come altrettante forme del patire nel flusso della storia occidentale, istanze pronte a riaffiorare dall’oblio nei momenti in cui la coscienza contemporanea si rigira su di sé, alla ricerca di un significato più profondo, capace di raccordare il mero dato statistico con un fenomeno di più ampia portata e, soprattutto, dotato di senso. Nella tragedia, i figli devono pagare le colpe dei padri, devono essere puniti per le colpe dei padri, innanzitutto poiché essi, in qualche modo, condividono quelle stesse colpe e le condividono in una maniera molto particolare, così come particolare è la loro colpevolezza: «i figli che non si liberano dalle colpe dei padri sono infelici: e non c’è segno più decisivo e imperdonabile di colpevolezza che l’infelicità» (P.P. Pasolini, I giovani infelici, in Id., Lettere luterane, Garzanti, 2009, p. 22).

Le colpe dei padri da cui i figli non si erano ancora all’epoca liberati sono ravvisate da Pasolini nella connivenza, nell’«intimità», nella placida rassegnazione e nella responsabilità di fronte al «“fascismo”, sia nelle sue forme arcaiche, che nelle sue forme assolutamente nuove» (p. 19); fascismo, quindi, sia nella sua accezione storica, sia nella sua accezione «eterna», sia soprattutto nella sua metamorfosi più contemporanea, celato nel fondo oscuro delle illusioni prodotte e distribuite in serie dalla società dei consumi. La realtà e persistenza di questo spettro infestante rende – dal punto di vista di Pasolini – i giovani degli anni ’70 dei ragazzi «puniti», tragicamente puniti giacché scontano una colpa della quale non possono essere direttamente imputati, ma una colpa effettiva, inaggirabile; a causa di essa, non si può far altro che provare, nei confronti di questi giovani, un «sentimento di condanna», che va ad accentuare, come un macigno ulteriore di un collettivo castigo di Sisifo, la loro infelicità.

Negli ultimi anni stiamo assistendo ad un insieme di fenomeni assai interessanti, in riferimento alla questione giovanile: da un lato, mai come oggi le generazioni si vanno progressivamente allontanando, i figli si discostano, talvolta nettamente, dalle credenze, dalle decisioni dei padri e cercano disperatamente di svincolarsi da quelle colpe, ormai accettate in quanto tali; allo stesso tempo, analizzando la condizione giovanile contemporanea, non si può fare a meno di notare quanto pervasiva, sviluppata, quasi ineluttabile, risulti ormai l’infelicità dei ragazzi e delle ragazze – per valutarla, ad oggi, non è necessario assumere l’atteggiamento provocatorio di Pasolini e desumerla dall’aspetto dei giovani, dall’omologazione ad un unico modello sociale, dalla perdita delle identità in favore dell’identico: oggi l’infelicità è un problema politico-sociale continuamente sotto gli occhi di tutti, com’è sotto gli occhi di tutti l’epidemia di disagio psichico, le crescenti ansie rispetto al futuro, alla possibilità stessa del futuro, alla certezza di un futuro, anche prossimo, probabilmente peggiore rispetto al presente.

Quando scriveva, Pasolini parlava, da padre – certo, un padre degenere… -, più ai padri che ai figli; posseggo il privilegio di appartenere all’altra schiera, di poter parlare da figlio – certo, un figlio degenere… -, alla pari con gli altri figli, senza nascondergli, ipocritamente, di condividere, in ultima istanza, lo stesso sentimento di condanna espresso da Pasolini: liberarsi – o, piuttosto, tentare di liberarsi – dalle colpe dei padri non porterà ad alcuna soluzione se prima esse non vengono individuate con precisione, se prima esse non giungono alla coscienza nella loro chiarezza. Mi spingo a dire che la colpa dei padri non è il fascismo, quanto piuttosto l’idolatria. La ragione, la fede, lo Stato, la razza, il progresso, il potere, il denaro, il benessere, il popolo, l’individuo, la tecnica, la tecnologia e così via: tutto ciò intorno a cui ruotano le colpe dei padri è un edificio di costruzioni astratte, assunte all’accezione di idoli, i quali si debbono adorare o combattere, ma per i quali, in ogni caso, si deve sacrificare; tale colpa è rinnovata in ogni tempo, appunto, dai giovani, i quali si impegnano quasi quotidianamente nella creazione e nel perfezionamento di nuovi idoli da adorare, di nuovi idoli per i quali immolarsi e immolare.

C’è un elemento più di tutti che separa, però, i giovani attuali da quelli delle generazioni precedenti: i giovani hanno oggi la consapevolezza della propria infelicità, poiché sentono effettivamente che tale infelicità dipenda da una certa colpevolezza – perciò, essi si sanno vittime, rivendicano la posizione di vittima senza volersi, necessariamente, svincolare da essa. In tal modo, si rientra facilmente nello schema tragico tracciato dal Pasolini, con uno slittamento sostanziale: i figli pagano le colpe dei padri senza volerne condividere la colpevolezza, ma presentandosi unicamente in quanto vittime di queste stesse colpe; ciò significa la rinuncia, nella metafisica del sacrificio, a qualsiasi posizione attiva, per cui il mondo, la realtà diventa essenzialmente qualcosa che il giovane subisce. Voglio mettere in comunicazione le pagine di Pasolini con un testo del filosofo ceco, ingiustamente semi-sconosciuto, Karel Kosíc, dedicato alla Primavera di Praga e al suicidio di Jan Palach, il giovane che, all’indomani dell’invasione sovietica, si diede alle fiamme in Piazza San Venceslao. Che significato ha un’azione di questo genere nel contesto della vita giovanile, cosa significa questo sacrificio? Si tratta di una resa all’attuale, di un deporre le armi, o la tragicità dell’atto ci insegna qualcosa di ulteriore? «Con il proprio sacrificio, il figlio si assume gli obblighi che i padri hanno trascurato, ma non rivendica il diritto a una ricompensa e a onori. Il suo atto è un’incrinatura, un’interruzione, una cesura che continuerà sempre di nuovo a inquietare, a stimolare, a provocare una disputa produttiva sul senso della vita. La morte del ragazzo implora» (K. Kosíc, Il ragazzo e la morte, in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia. Saggi di pensiero critico 1964-2000, Mimesis, 2013, p. 150). Questa implorazione dal valore produttivo ha molto da dirci: il giovane, assumendo fino in fondo il ruolo di vittima volontaria, esce dal circuito della colpa sconfessando l’idolatria, giacché egli non si uccide per questo o quell’ideale, per questa o quella motivazione; egli «ricorda ai tempi futuri la non ovvietà della vita». Il ragazzo che si dà alla morte incarna perfettamente il tragico dal momento in cui riunisce, in un unico gesto, lo statuto trinitario del sacrificio – officiante, vittima ed offerta -, segnando definitivamente la differenza abissale fra lui che arde e i padri, per sempre colpevoli di quel fuoco.

Mi s’accuserà di essere pessimista, di aver descritto una situazione che non lascia scampo né via d’uscita. Non invito i giovani a darsi fuoco nelle piazze, io stesso non ho alcuna intenzione di farlo. I giovani sono infelici poiché non si liberano dalle colpe dei padri, anche quando si impegnano il più possibile a liberarsene: per usare la terminologia di Furio Jesi, essi vogliono «distruggere le macchine», essi stanno, a poco a poco, distruggendo le macchine, ma non intaccano «la situazione che rende vere e produttive le macchine». Quale sarebbe tale situazione? Ponendo tale domanda ai giovani, a seconda delle inclinazioni personali e della capacità d’analisi, si potrebbe sentir rispondere: il capitalismo, il patriarcato, il razzismo, il progressismo, etc. Anche queste sono risposte macchiate inesorabilmente dall’idolatria, implicano qualcosa a cui sacrificare, qualcosa per cui sacrificarsi; esse rinnovano le colpe dei padri, non le estinguono. Quale incrinatura, quale discontinuità può oggi segnare la nostra azione, partendo dal sacrificio tragico di noi stessi, nell’ottica del tentativo di distruggere non le macchine, gli idoli, ma la situazione che rende veri e produttivi gli idoli? Il sacrificio del ragazzo ceco, come esempio, ci solleva dalla possibilità della morte e ci invita, piuttosto, a pensare, appunto, produttivamente, al senso della vita. Finché non avremo risposto profondamente a questa domanda, i giovani di questa generazione e, forse, delle successive, rimarranno – rimarremo - condannati, colpevoli, infelici.