05.02.2021
Cinici di professione
Melania Moltelo
"Chi possiede i beni della cultura finisce per amministrarli con buona o cattiva coscienza storicista, rinserrandosi […] nelle sdegnose posizioni di punta delle baronie d’intellettuali falsamente eversori e falsamente anticonformisti, in realtà gelosi custodi del loro sacro isolamento di dotti". Ferruccio Masini
Scrivo da studentessa, inevitabilmente dalla parte degli “infami” – per definizione istituzionale. Dalla parte di coloro le cui vite infime “sono divenute cenere nelle poche frasi che le hanno stroncate”. Di coloro che, come mosche nella controra estiva, sono schiacciati da un foglio di carta svolazzante. Dalla parte degli uomini infami le cose vanno sempre storte, così Pauline Benjamin rimprovera al piccolo Walter il suo impaccio pratico con quel famoso “saluto dal Signor Maldestro!”. Essere dalla parte “subalterna”, come insegna Foucault, significa potere effettuare un controdiscorso e, dunque, una contromanovra. Ma, come il proletariato ha da sempre avuto bisogno di alleati della borghesia, traditori della propria classe d’origine, così il diktat autoritario nella relazione di “professore” e “studente” – senza perdere di efficacia – andrebbe rovesciato nell’ipotesi di una felice collaborazione. Solo l’alleanza della coscienza da parte dei “subalterni” del proprio ruolo, svincolatosi dalle logiche coercitive dell’esamificio, e il disgusto della parte opposta per la propria posizione di fatto più immediatamente vicina al potere può lasciare pensare a una micro-rivoluzione.
Un tempo c’erano i “malinconici di sinistra”, per dirla con Walter Benjamin – quelli affetti da una stupidità tormentata, schiacciati su un reportage sociale sbraitante contro la miseria – sbraitando, lasciandola in pace. Il titolo di un libro fotografico degli accoliti della “Nuova oggettività” era, emblematicamente, Il mondo è bello: l’esattezza fotografica, di cui tanto si è discusso, si convertiva in trasfigurazione estetizzante, in una promozione del mondo così com’era. La presa di posizione manifesta era (e continua a essere) l’atteggiamento sbraitante di un conformismo travestito dal suo opposto. L’inconscio ottico era così diventato il sigillo del cattivo gusto, della trappola del difetto da masticare aizzandosi ad affamati del disgusto. Gli espedienti di dilatazione temporale e di rilevazione delle smagliature di un “altrove” incapsulato in un “hic et nunc” scadevano a contemplazione rallentata del reale sociale. D’altronde, le scariche sovversive sono destinate alla loro neutralizzazione, a un’anestesia totale o localizzata. I malinconici di sinistra, sudici e impiccati sul bidet, sembravano appagarsi solo facendo il contropelo al gusto, convertendo anche la lotta di classe in uno strano svago.
Quei malinconici, così come tutti quelli che sventolavano nell’aria putrefatta le bandiere dell'”umanità” e dell'”interiorità”, si ingannavano sull’orrore della società, nella cui reale testimonianza non si sente neanche più l’eco di una parola comprensibile, non si vede neanche più un uomo che non sia già metamorfizzato nello scarafaggio contorto e sibilante della prosa di Kafka, così come i coinquilini non sono poi tanto diversi dal mostriciattolo Odradek che ruzzola per le scale. Quei malinconici, in segreto accordo con il dominio, sembravano già emanare l’odore lussureggiante dei “cinici di professione”: cravatta aggiustata, orologio al polso, abito da professore e sproloqui dalla barba lunga per occultare l’occasione di “protagonismo” in cui sguazzano. Dimenticando che anche coloro che sono seduti sul trono del mondo sono seduti sul proprio…culo. Posture elitarie mascherate da “impegno”. Non è semplice discorrere: questi ascoltano solo il rimbombo delle proprie stesse parole, plasmano chi “educano” a propria immagine e somiglianza – apprezzano solo ciò in cui si riconoscono. Malinconici Atlanti, sembrano reggere sulle spalle la zavorra del mondo. “Vampiri” insaziabili, non vanno via fino a quando non hanno lasciato impallidire il volto con le loro “passioni tristi” – di facile trasmissione. Certo, “noi non si poté essere gentili” diceva Brecht, ma questi uomini “dal sangue freddo” hanno bandito tutte le parole che suonavano sdolcinate al proprio orecchio, intossicando il corpo e facendo la corte alla competizione e allo snobismo. Certo, l’ingiustizia canta “canzoni arrabbiate” – ma un ottimismo disperato, che si distingue dalla serenità sintetica e dal “keep smiling” a ogni costo, non preferisce le passioni tristi alla gioia dei corpi, l’indifferenza alla commozione. Alla generosità. Ama solo le solitudini affollate.
In una società della prestazione e dell’auto-promozione, la stanchezza (il “sono stanco a te” di Handke) è l’ultima strategia per un allentamento dell’Io che ingrossa le innervazioni di un corpo del collettivo; ciò per cui il surrealismo ha giocato la sua partita, storie di innamorati di amori folli, ricerca di un’ebbrezza che liquidasse l’Io solipsistico nell’esperienza delle cose invecchiate o sul punto di scomparire. La ferita si chiuse stancamente. La stanchezza di Handke non è una “stanchezza dell’Io esaurito”, ma una “stanchezza del noi”. Ci si arricchisce impoverendosi, ci si arricchisce con le proprie reciproche stanchezze. Come scrive Deleuze, “noi non dobbiamo giudicare gli altri esistenti, ma sentire se ci convengono o ci sconvengono, ossia se ci apportano delle forze oppure ci rimandano alla povertà della guerra”. I cinici, che fanno la mimesi della guerra, fissano negli occhi il riflesso dei propri occhi: a loro rispondono i rari e fievoli sorrisi degli uomini in crisi.