Cartografie radicali
Lorenza Pignatti
09.09.2023
Il testo che qui di seguito presentiamo è l'Introduzione  al volume di Lorenza Pignatti, Cartografie radicali, edito da Meltemi.


Esplorazioni indisciplinate, curiosità errante alla ricerca di un approdo nello studio della cartografia, che conduce invece ad altre derive. La ricerca in fondo è questo, continuare a interrogarsi e a porsi domande, in uno stato di sospensione e conoscenza su alcuni aspetti della cultura visuale di cui mi occupo, in particolar modo del dialogo transdisciplinare tra l’ambito geografico e quello artistico e umanistico.

Versatili strumenti di navigazione territoriale ed esistenziale, mappature e cartografie mi accompagnano da diversi anni. Gli studi della New Cultural Geography e della cosiddetta “svolta spaziale” restituiscono i mutamenti e mettono in discussione le ideologie che hanno sostenuto lo spazio geografico utile all’espansione territoriale. Sappiamo che le mappe descrivono il mondo in termini di relazioni di potere, di preferenze e priorità. “I cartografi producono potere. Creano un panottico spaziale, che è un potere inscritto nel testo della mappa stessa. Possiamo parlare del potere della mappa come abbiamo parlato del potere della parola e del libro come forma di cambiamento. In questo senso le mappe fanno politica. Si tratta di un potere che è inciso nella conoscenza. Ed è universale”, scrive John Brian Harley in The New Nature of Maps: Essays in the History of Cartography. Non esistono mappe neutrali, sono sempre una “costruzione sociale” che corrisponde al punto di vista di chi commissiona l’opera, di chi la realizza o di entrambi.

La storia della geografia è il racconto di una lunga serie di pratiche che hanno seguito le logiche degli imperi coloniali e poi, negli ultimi decenni, quelle della globalizzazione. Artisti e collettivi si sono occupati di cartografie critiche riguardanti alcuni aspetti della società contemporanea come la globalizzazione e le sue promesse mancate, le migrazioni, il cambiamento climatico, l’inquinamento, in una varietà di scala che va dal locale al globale, dal pubblico al privato. Cartografie che hanno permesso analisi propositive e critiche alla globalizzazione per attivare riflessioni e relazioni costruttive, come scrivono Marc Tuters e Kazys Varnelis nel saggio Beyond Locative Media.

Con Cartografie radicali. Attivismo, esplorazioni artistiche, geofiction ho tracciato i cambiamenti avvenuti in seguito a un maggiore utilizzo dei dati geospaziali nella quotidianità degli individui, con la liberalizzazione dei segnali GPS. Cambiamenti che hanno permesso a collettivi come Blast Theory, Social Fiction, Proboscis, ad artisti come Masaki Fujihata, Stephen Wilson, Christian Nold, Teri Rueb, Jeremy Wood, Laura Kurgan, di realizzare performance e installazioni con i GPS alla fine degli anni ’90, quando quei dispositivi non erano presenti nei cellulari. Progetti che nascono nell’ambito della New Media Art e della Net Art, con la differenza che volevano riappropriarsi del territorio, da attivare con i loro interventi.

Nel 2005 la Apple ha installato nell’iPhone 3G il navigatore GPS. Un cambiamento radicale, perché i GeoTools di Google, uniti alla popolarità e al successo commerciale degli smartphone, hanno permesso un incremento esponenziale in termini di connettività e accessibilità alle navigazioni cartografiche digitali. Con il passaggio dal web 2.0 al web 3.0 le mappe digitali diventano trasformabili, piattaforme di navigazione multiple in continuo mutamento che interrogano la rappresentazione cartografica e i percorsi spaziali. L’aumento di applicazioni di uso quotidiano è parte di un sistema in cui la geolocalizzazione è gestita da sistemi multiagenti. La georeferenzialità degli individui diventa uno dei metadati presenti nella geosemantica ma non l’unico né il principale, come indica la teoria dell’attore-rete di Bruno Latour e diversi progetti di Natalie Jeremijenko, Beatriz da Costa, Esther Polak e Ivar van Bekkum.

Nascono spontanee alcune domande: quale è lo spazio della creazione artistica in questo contesto informazionale? Quali strategie possono sviluppare gli artisti per non essere unicamente testimoni della produzione, post-produzione e distribuzione di dati e immagini geolocalizzate? Come si possono formalizzare nuove ricerche e mappature per la produzione di istanze politiche e sociali? Diversi artisti si sono serviti di Google Street View per realizzare le loro opere, basandosi su un digital storytelling georeferenziato, come Michael Wolf, Jon Rafman, Doug Rickard. I progetti di Aram Bartholl, Simon Weckert, Clement Valla, Mishka Henner ed Emilio Vavarella hanno mostrato come le immagini prodotte da Google siano restituzioni composite di un sistema visivo di cui è possibile decodificare il funzionamento dell’hardware che le supporta. I progetti di Guido Segni e di Adam Harvey cercano di interrompere l’automazione della visione algoritmica per proporre dispositivi critici, pur nella consapevolezza che si tratta di azioni di carattere simbolico che difficilmente riusciranno a incidere sul reale. Altrettanto sofisticate sono le mappature della sorveglianza, con le opere presenti nelle mostre Training Humans, Big Bang Data, A screaming comes across the sky, Watched! Surveillance, Art & Photography.

Diversi collettivi e artisti hanno analizzato questioni come la globalizzazione, l’estrattivismo, le migrazioni, il cambiamento climatico con mostre, libri, videoinstallazioni, fotografie e film-saggi. Tra le pubblicazioni ricordiamo This Is Not an Atlas. A Global Collection of Counter-Cartographies, curata dal collettivo Orangotango in collaborazione con il geografo Denis Wood, e An Atlas of Radical Cartography, raccolta di dieci progetti di contro-cartografie. E il lavoro di Forensic Architecture, Multiplicity, hackitectura, Bureau d’Études, The Center for Land Use Interpretation, Mark Lombardi, Francis Alÿs, Antoni Muntadas, Ursula Biemann, Bouchra Khalili, Angela Melitopoulos, Harun Farocki, Trevor Paglen. Alcune loro opere sono state esposte in mostre collettive da me analizzate, come Uneven Geographies: Art and Globalization, curata da TJ Demos e Alex Farquharson, You and I Don’t Live on the Same Planet, curata da Bruno Latour e Martin Guinard, Reset Modernity!, curata da Bruno Latour, Martin Guinard, Christophe Leclercq e Donato Ricci, per ricordarne solo alcune.

Sebbene impossibili da ridurre a un’unica prospettiva, le mappature e i progetti indagati nei primi due capitoli cercano di mettere in discussione le nozioni di spazio, conoscenza e potere. Mappature che difficilmente potranno portare a reali cambiamenti se non vengono trasferite su un piano di progettazione politica. Come indicato dalla mostra You and I Don’t Live on the Same Planet, questioni come la globalizzazione e il cambiamento climatico necessitano di soluzioni di carattere globale che offuscano la cartografia politica di ogni singolo paese.

Nel terzo e ultimo capitolo compongo un excursus di cartografie paradigmatiche realizzate da artisti. Dalle deambulazioni dei dadaisti e dei surrealisti, alle derive psicogeografiche dei situazionisti, alla World Map di Öyvind Fahlström, opera che sembra anticipare la cartografia “tattica” attuata nei tardi anni Novanta da attivisti e gruppi politici. Seguono i disegni, le mappe e gli interventi degli artisti fluxus e concettuali, e le mappature di Mark Lombardi che chiamava “strutture narrative”, con le quali visualizzava la storia contemporanea. Le carte geopolitiche di Alighiero Boetti realizzate alla fine degli anni Sessanta sono la testimonianza del suo interesse per la geografia, sia come costrutto culturale, sia come rappresentazione di conflitti politici. Mi sono poi occupata di geofiction, accompagnata dalle cartografie postmediali di Marcel Broodthaers e dalle carte geografiche di luoghi immaginari provenienti dalla collezione di Cathy Haynes.

Ho voluto confrontarmi e ho avuto il piacere di intervistare, per integrare alcuni temi di cui mi occupo nel libro, il Gruppo Ippolita, Juan Guardiola e Anna Castelli e Franco La Cecla. Con il Gruppo Ippolita abbiamo parlato dell’agency che dovremmo avere verso la tecnologia e dello sguardo critico, radicale, conflittuale e nello stesso tempo creativo che le mappature possono permettere, pur nella difficoltà di poter tracciare “un crossover di mappe”, in cui sembra impensabile poter dire “noi, dove in questo noi c’è l’infinito altro da me”.

Nell’intervista al curatore Juan Guardiola ho approfondito questioni riguardanti l’ecofemminismo e l’ecologia queer. Durante la ricerca e la scrittura del libro non riuscivo a trovare mappature femministe, queer e di genere. Molti libri e ricerche sociologiche, ma non mappature. I femminismi sono innumerevoli, in ogni paese emergono movimenti e discorsi specifici sul genere, intrecciati a lotte politiche locali e storie culturali. Le idee cambiano e si spostano tra aree geografiche, creano nuove alleanze, opposizioni e trasformazioni, e forse è proprio questo a non determinare il desiderio o la necessità di raccontarle e di trasferirle in una mappatura. Non ho trovato mappature su questioni razziali, oltre a quelle di cui ho scritto. La mia ricerca testimonia gli studi, gli incontri e le mostre che ho visto nel corso degli anni. Mentre cercavo mappature che non riuscivo a trovare, pensavo a Rachele Borghi quando scrive in Decolonialità e privilegio. Pratiche femministe e critica al sistema-mondo che bisognerebbe guardare la realtà servendosi di caleidoscopi e non attraverso dispositivi cartografici, e all’installazione The Library of Missing Datasets di Mimi Onuoha. L’opera è composta da un archivio fisico di “dati mancanti” che esistono in contesti che sono invece saturi di dati. La parola “mancante” è intrinsecamente normativa, implica sia una mancanza sia un dovere: qualcosa che non esiste, ma che dovrebbe invece essere presente. Ciò che gli archivi e le collezioni ignorano rivela più di ciò a cui dedichiamo la nostra attenzione.

Rispetto all’ecofemminismo e all’ecologia queer avevo un vivo ricordo della mostra curata da Juan Guardiola, intitolata Territorios que importan. Género, arte y ecología, dedicata all’esplorazione della relazione tra arte, natura e genere, presentata al CDAN (Centro per l’Arte e la Natura) di Huesca. La prima esposizione in Spagna e in Europa a raccogliere opere della seconda generazione femminista degli anni ’60 e ’70, fino all’arte queer degli anni ’90, che cercava di rompere con le definizioni normative della natura e delle questioni di genere, che mi aveva colpito per la molteplicità dei materiali raccolti e la sofisticazione del display curatoriale.

Con Anna Castelli e Franco La Cecla abbiamo approfondito temi come l’assunzione di “intraducibilità” presente nella trasposizione di una mappatura indigena extraeuropea nel contesto occidentale, e di come l’Occidente abbia cannibalizzato gli spazi di altre culture e civiltà. La pretesa di organizzare il mondo in mappe non è solo occidentale. È Claude Lévi-Strauss a scrivere dell’importanza nei mondi indigeni di classificare, di disporre in ordine, di avere gerarchie, in cui è importante mappare la presenza del martin pescatore e del pipistrello, dell’anaconda e dell’albero della gomma. I mondi indigeni sono tutt’altro che vaghi e disordinati, interpretano molto più di noi lo spazio come un sistema di reti su cui disporre la propria cosmologia.




© Lorenza Pignatti, Cartografie radicali, Meltemi 2023