BUIO
Daniela Floriduz

10.12.2021

La redazione di Doppiozero [www.doppiozero.com] in questo periodo sta curando un dossier dal titolo «Parole per il futuro». Il 15 novembre, Francesca Rigotti si è cimentata con il termine «buio», sdoganando questo concetto dall’alone pessimistico che lo segue in tempi di pandemia, che lo rende metafora vivente di oscurantismo.

Perché, secondo la Rigotti, il buio dovrebbe essere addirittura un’eredità da consegnare ai posteri, una «parola per il futuro»? Si legge nel suo articolo: «Il buio ci serve per pensare, ed è qui che il suo sapere risuona con maggior vigore: per concentrarci, entrare in rapporto col nostro centro, chiudiamo gli occhi, come se il buio producesse una capacità di visione interna.

Chiudiamo gli occhi anche per assaporare più intensamente il piacere, di un rapporto amoroso o dell’ascolto di un brano musicale; chiudiamo gli occhi quando cerchiamo di ricordare un nome o una nozione che ci sfuggono, come se i ricordi giacessero nel pozzo oscuro della memoria da cui cerchiamo di ripescarli facendo sembiante di immergerci in quello stesso buio. Chiudiamo gli occhi per concentrarci, per ricordare, per assaporare il piacere. Per aumentare dunque il nostro stato introspettivo e percettivo. Tant’è che la cecità è stata a lungo connessa con poteri sovrannaturali simili a quelli legati all’esperienza del sonno.

Gli antichi Greci, abitanti di una cultura in cui la luce era promossa quale metafora pervasiva per la comprensione e la conoscenza (oìda = ho visto = so) nondimeno ritenevano che lo stato di cecità, l'inquietante figura del non vedente, offrisse prospettive straordinarie». Si pensi infatti alla preveggenza di Tiresia, l’indovino della mitologia greca consultato dagli eroi più illustri, che molto probabilmente soffriva più per la condizione di veggente che per la sua cecità... Ma il buio a cui fa riferimento la Rigotti pare poter essere alla portata di tutti, senza dover necessariamente arrivare ad una forma di accecamento volontario.

Mi viene in mente un libro pubblicato nel 2007 da Sergio Vitale per la casa editrice Clinamen, che si intitola Si prega di chiudere gli occhi. Era la scritta che Freud leggeva sempre su un cartello, appeso ad una parete, nella bottega di barbiere dove andava quotidianamente. Una metafora alla portata di tutti – non del solo Tiresia – per arrivare al superamento dell’ontologia della visione che permea la filosofia occidentale.

Secondo questa ontologia, si è arrivati ad una distorsione tale per cui ormai non si può più pronunciare la parola «immagine» senza che immediatamente quest’ultima non venga connotata visivamente, anche se si tratta di rappresentazione, cioè di immagine mentale. In altri termini, poiché dalla vista deriva più del 90% delle immagini sensoriali poi rielaborate dal nostro cervello, coloro che non possiedono la vista sarebbero, in gran parte, privi di esperienza conoscitiva, quindi al buio, anche mentalmente.

Sergio Vitale, attingendo alla sua esperienza psicoanalitica, ovviamente si sofferma sul valore cruciale del sogno per l’io e che il sogno derivi dal buio è naturalmente scontato. Ma poi propone altri percorsi che attingono all’arte, alla letteratura, all’esperienza comune, al pensiero orientale, tutti aventi come sfondo quel «punctum caecum» sul quale si stagliano i contorni delle cose, come quando è necessario non avere il sole in pieno viso in modo da non esserne abbagliati e distinguere così i contorni degli oggetti.

D’altra parte, anche il parto di una fotografia avviene in una camera oscura. «Illuminanti» sono le pagine che Umberto Eco ha dedicato alla nebbia.

Chi cammina nella nebbia «Non deve cercare la sua identità nel sole, ma nella caligine. Nella nebbia si cammina piano, bisogna conoscere i tracciati per non perdersi, ma si arriva sempre e lo stesso da qualche parte. La nebbia è buona e ripaga fedelmente chi la conosce e la ama. Camminare nella nebbia è più bello che camminare nella neve calpestandola con gli scarponi, perché la nebbia non ti conforta solo dal basso ma anche dall'alto, non la insudici, non la distruggi, ti scivola affettuosa d' intorno e si ricompone dopo il tuo passaggio, ti riempie i polmoni come un buon tabacco, ha un profumo forte e sano, ti accarezza le guance e si infila tra il bavero e il mento punzecchiandoti il collo, ti fa scorgere da lontano dei fantasmi che si dissolvono quando ti avvicini, o sorgere all'improvviso di fronte delle figure forse reali, che ti scansano e scompaiono nel nulla. Purtroppo ci vorrebbe sempre la guerra, e l'oscuramento, solo a quei tempi la nebbia dava il meglio di sé, ma non si può avere tutto e sempre. Nella nebbia sei al riparo del mondo esterno, a tu per tu con la tua interiorità. Nebulat ergo cogito». («Perché amo la nebbia che ci protegge dal mondo», Repubblica, 25 novembre 2009).

Ma oggi l’aggrapparsi alla luce è un estremo tentativo di onnipotenza, come attesta anche certa cinematografia recente (si pensi al film The Blackout di Egor Baranov del 2019). Quale buio affidiamo in eredità al futuro?

Sembra paradossale chiederselo davanti alle vetrine luccicanti di Natale, con i negozi vuoti e le persone che si ammassano per le strade, perse nei bagliori degli smartphone, che nemmeno ti guardano in faccia, che spesso camminano all’indietro… e sembrano brancolare nel buio anche se ci vedono benissimo.