Bonus psicologo e ri-politicizzazione della sofferenza psichica
Gianluca Viola

02.07.2022

Il decreto sull'erogazione del nuovo "bonus psicologo", recentemente firmato dal Ministro della Salute Roberto Speranza, è stato salutato, da più parti, come un atto di civiltà, doveroso, necessario, per venire incontro alle esigenze di buona parte della popolazione - specie i più giovani -, i quali sempre più, specialmente in seguito al radicale cambiamento delle modalità di vivere il sociale e il pubblico dovute alla crisi del Covid-19, si affidano a professionisti della psiche in cerca di sostegno e di aiuto per prendersi cura della propria salute mentale.

Qualche critica non è mancata: più che sull'effettiva opportunità di porre l'accento sulla condizione psichica della popolazione, esse ruotavano piuttosto attorno all'aspetto economico di questa misura - da alcuni considerata una forma intollerabile di assistenzialismo, priva di una dimensione realmente strutturale e dunque, in ultima istanza, inefficace. Solo il tempo potrà confermare o smentire queste ipotesi e potrà permetterci di valutare se si tratti unicamente di una manovra come tante o di un virtuoso tentativo, della politica, di porre al centro dell'attenzione il tema della salute mentale.

Come ha sottolineato in un'audizione in Senato il Presidente dell'Ordine degli Psicologi David Lazzari, si tratterebbe del riconoscimento del diritto dei cittadini ad un aiuto psicologico, dal momento che il bonus non sarebbe rivolto alle "malattie mentali" comunemente intese, bensì alle situazioni di sofferenza, stress, depressione vissute dalle persone nel quotidiano, più diffuse di quanto si possa credere, soprattutto a causa della normalizzazione, finora imperante, di questi fenomeni.

Negli ultimi due anni si è sentito parlare soprattutto della sindrome da burn-out: secondo l' «European Journal of Emergency Medicine» in un campione di 25.000 tra medici, infermieri e paramedici, individuati in 89 paesi diversi, il 62% manifesta sintomi legati allo stress e all'esaurimento e al 31% è stata diagnosticata una vera e propria sindrome da burn-out, in seguito ai ritmi di lavoro massacranti dovuti all'emergenza pandemica; secondo questo studio, solo il 41%, nel corso di questi due anni, ha ottenuto sostegno psicologico. Sono numeri, si dirà, legati soprattutto alla situazione emergenziale che abbiamo vissuto; in realtà, sembra proprio che l'emergenza pandemica, piuttosto che favorire l'insorgere di nuove dimensioni della sofferenza mentale, non abbia fatto altro che radicalizzare una situazione pregressa: non solo nel contesto sanitario, ma in molteplici ambiti lavorativi - dalle strutture pubbliche legate al sociale alle forze dell'ordine, dalla vita di fabbrica al lavoro per grandi compagnie multinazionali.

La sindrome da burn-out è sempre più riconosciuta come disturbo professionale, fondamentalmente connesso al lavoro e alle sue condizioni: non si tratta dell'alienazione su cui tanto ha insistito il marxismo, ma di un vero e proprio svuotamento emotivo e personale dovuto all'esposizione a condizioni di stress protratte nel tempo e all'esigenza di raggiungere determinati risultati in un regime di spietata competitività e sostanziale instabilità lavorativa; la possibilità di ottenere sostegno psicologico è certamente importante all'interno di queste condizioni, così come nelle condizioni sempre più diffuse dell'altro grande male del nostro tempo: la depressione. All'aumento della domanda, però, negli ultimi decenni, corrisponde un aumento dell'offerta: esistono, ad oggi, decine e decine di orientamenti e di indirizzi diversi nella cura della salute mentale, dalle terapie cognitivo-comportamentali, alla psicologia relazionale, diversi metodi di psicoterapia, fino alla classica psicoanalisi.

Si tratta di metodi, pratiche e concettualità molto diversificate, ma, bene o male, concordanti su un punto: si può registrare una generale rimozione del sociale, del politico, del pubblico e un ripiegamento sulla condizione individuale e personale del singolo, una forma di privatizzazione integrale delle dinamiche psichiche. Niente di nuovo, forse: si viene ricondotti a quella celebre vignetta dell'uomo che, seduto sul lettino dello psicoanalista, enuncia il suo disagio nei confronti della propria realtà sociale o professionale e si sente rispondere: «Bene, adesso mi parli di sua madre».

La psicoanalisi, del resto, ha progressivamente accentuato il ripiegamento sul privato, sull'analisi dell'inconscio individuale e della vita familiare – quella che è stata definita "edipizzazione"; per questa ed altre cause - una certa insofferenza rispetto alle recenti scoperte delle neuroscienze, un ormai assestato settarismo, un progressivo distacco dalla realtà effettiva per rifugiarsi nel dogmatismo della teoria, una generale pubblica perdita d'interesse rispetto alla disciplina - la psicoanalisi è certamente, se non in fondo, per lo meno nella parte basse della "classifica" delle discipline chiamate in Francia "psy", per quanto concerne il numero delle persone che si rivolgono a questo genere di professionisti - specialmente in Francia e negli Stati Uniti, i luoghi in cui la psicoanalisi novecentesca ha avuto maggior successo.

Sulle ragioni della crisi e del declino della psicoanalisi tanto è stato scritto; essa è stata indicativa soprattutto di un certo periodo storico preciso, irreversibilmente segnata dagli sconvolgimenti del secolo scorso e dalla fioritura culturale di un'Europa pronta a rimettere in discussione i fondamenti della propria percezione del soggetto e della realtà: al volgere del secolo e alla trasformazione integrale del mondo che ne è seguita, la psicoanalisi non ha saputo effettivamente reagire, divenendo inefficace ed inattuale.

Non si perdona facilmente alla psicoanalisi il "classismo" - pratica proverbialmente onerosa, a lungo è stata appannaggio dell'aristocrazia viennese, ai tempi di Freud, o dei borghesi parigini, ai tempi di Lacan; il "sessismo" - a causa del ruolo decisivo del binarismo nella costruzione teorica della disciplina e nel suo sistema simbolico: si pensi soprattutto ai lacaniani irriducibili che ancora oggi piangono la dipartita del Padre; infine, certamente l'etnocentrismo.

Malgrado ciò, questi limiti non hanno impedito alla psicoanalisi di innervare, anche in un senso critico, le riflessioni e le proposte di un certo marxismo - Fromm, Marcuse -, di un certo femminismo - Kristeva, Irigaray -, e delle prime, decisive, lotte decoloniali - Frantz Fanon. Nonostante la sua torsione individualistico-familiarista, la psicoanalisi non è certo stata indifferente al dato storico e culturale: già Freud, accanto ai difficili saggi di meta-psicologia e agli scritti tecnici, aveva scritto importanti testi come Il Disagio della Civiltà o Psicologia delle masse e analisi dell'io, in cui la concettualità psicoanalitica veniva adoperata nel tentativo di comprendere la complessità dei fatti sociali e politici propri del tempo.

Miguel Benasayag, filosofo e psicoanalista "eretico", riconduce la crisi della disciplina, fra le altre cose, alla «perdita del sentimento del tragico», ovvero alla constatazione secondo cui: «Gli individui hanno perso la loro capacità di essere toccati in modo organico da qualche cosa che non li tocca direttamente: il loro universo si ferma ai limiti del loro corpo. Quando vanno dallo psi parlano della loro vita personale, della loro famiglia ecc., senza alcun sentimento né alcun desiderio di prendere coscienza dei rapporti tra questo racconto e la loro epoca.» (M.Benasayag, "Oltre le passioni tristi. Dalla solitudine contemporanea alla creazione condivisa", Feltrinelli, p. 58).

Il fallimento della psicoanalisi sarebbe dunque riconducibile al fallimento delle speranze di emancipazione del secolo precedente, in cui la presenza di una dialettica politica più che accesa consentiva alle persone di guardare alla propria vita come qualcosa di essenzialmente connesso alle dinamiche sociali, storiche e culturali, e da esse estremamente dipendente.

Torniamo al "bonus psicologo": il fatto che lo Stato prenda anche solo in considerazione una proposta di questo tipo e la intenda come generalizzata - certo, legata alle fasce di reddito, ma in fondo rivolta a tutti indistintamente - implica una presa di coscienza intorno alla dis-funzionalità del sistema vigente; la psiche è integralmente investita dai flussi del sociale e l'aumento vertiginoso dei disturbi psichici procede parallelamente agli sviluppi tecnologici, ai cambiamenti del mercato del lavoro e alle piccole "mutazioni antropologiche" che tutto ciò comporta.

Ciononostante, la maggior parte delle terapie psicologiche di successo, oggi, pur non essendo nella posizione di negare questa considerazione, lavora a una forma di "immunizzazione" dell'individuo rispetto a queste dinamiche: ciò potrebbe essere effettivamente utile nel contesto dell'aumento del benessere personale dei singoli, ma è privo di qualsiasi prospettiva comunitaria e di qualsiasi potenzialità di intervento sui processi profondi che hanno causato questa spiacevole situazione; la psicoanalisi attuale non è da meno e anch'essa è impegnata a dare il suo contributo a questa "immunizzazione" e all'isolamento della vita personale dei singoli analizzandi dalla vita comunitaria, sociale, politica.

Se il "bonus psicologo" certifica la dimensione pubblica di questa generalizzata sofferenza, esso potrebbe divenire, qualora prendesse piede in maniera stabile, l'ennesima garanzia del mantenimento dello status quo iper-individualista e della fabbricazione dei nuovi individui dipendenti sempre più dai flussi del capitale. La ri-politicizzazione della sofferenza psichica non passerà forse dalla psicoanalisi, ma dovrà recuperarne lo spirito e la prospettiva; solo riconoscendo il grado d'invivibilità raggiunto dalla vita collettiva, potremo sperare di migliorare le condizioni della vita individuale.