05.02.2021
Bellezza. Note a margine
Valerio Dehò
Il tema irrisolta della Bellezza ritorna periodicamente dentro il dibattito nella nostra società sempre alle prese con memorie e sopravvivenze. Oggi il Bello è pura nostalgia. Non perché non ce ne sia bisogna, ma perché ormai è stato liquidato da un secolo e mezzo e spesso diventa solo un modo per far finta che possa ancora esistere qualcosa del genere. Per i Greci e per Pitagora in particolare, la trinità Bello-Buono-Vero è stata probabilmente il momento storico più alto per il riconoscimento della Bellezza come di un canone per la conoscenza dell’Universo (cosmos) e per la lucidità dei comportamenti morali ed etici. La conoscenza sensibile posta sullo stesso piano di quella intellettuale, è uno status inarrivabile oggi con una società in cui il gusto personale è elevato al rango di discrimine tra il Brutto e il Bello, tra il vero e il falso. Abbiamo perso il senso dell’armonia del mondo, della corrispondenza tra mondo degli uomini e quello degli dei e/o natura, e non si può certo tornare indietro. Inseguire la velocità e la simultaneità spesso vuol dire anche rimanerci legati, soffocati. La bellezza ha bisogno di una temporalità espansa, meditativa. Ha bisogno di contemplazione. Oggi abbiamo un’ estetica diffusa perché tutto è “bello” soprattutto se si può acquistare, se viene incarnato dalle cose che sono sempre più omologhi alle merci. La distrazione, la scarsità di riflessione, la superficialità che ci accomuna nell’afflato tecnologico, sono deterrenti a qualsiasi ritorno del rimosso.
L’arte non produce Bellezza da oltre un secolo, lo si è detto, ha imparato e insegnato a farne a meno. Dal Laocoònte in avanti, dalla sua fortuna critica nella filosofia tedesca, è nato il concetto di “interessante” che relativizza il bello a favore di qualcosa di più duttile e oggettivo, forse pratico. La tecnologia è una grande opportunità, ma stabilisce con il fruitore e il creatore un legame che possiamo definire “abbraccio mortale”. L’arte si spinge in una direzione da cui non ha ritorno se non fa come un giovane artista come Quayola che prevede anche un percorso di rilettura del passato, se non produce l’opera e in qualche modo torna indietro all’hic et nunc di Walter Benjamin e alla tradizione di pensiero che l’ha preceduto. Per esempio l’idea di Friedrich Nietzsche che l’arte nasca dalla tragedia, da un’esperienza traumatica anche se distante nel tempo, che lascia una taccia vitale nell’opera. Discorso ripreso da Aby Warburg nel concetto di Nachleben, cioè quello di sopravvivenza. Didi-Huberman ha osservato: “Di fronte a ogni opera noi siamo coinvolti, implicati in qualcosa che non è propriamente una cosa, ma piuttosto ‒ e qui Warburg parlava proprio come Nietzsche ‒ una forza vitale che non possiamo ridurre ai suoi elementi oggettivi”. E questa forza è il fantasma che abita l’opera e la rinnova transitando nel corso dei tempi, rigenerando la vitalità del fuoco originario. Questa forza esula dalla temporalità ma non è mediabile, non può entrare nella comunicazione, perchè vive di contatto e di presenza. Giusto quello che manca al mondo contemporaneo.
L’Einfühlung, cioè l’immedesimazione, la quale è fisica perchè il soggetto si autoattiva al confronto con l’oggetto, recupera vitalità e memoria, si “estende” fuori da sé, entra in contatto con qualcosa di nuovo e perduto nello stesso tempo. Vive il pericolo di perdita del sé associato al Sublime che senza l’Esserci non ci sarebbe. Barnett Newmann lo ha ripetuto a metà del secolo scorso.
Lo stesso concetto di brutto è irrecuperabile ormai diluito nella quotidianità, nella violenza, nelle immagini così ripetute da diventare una colonna “visive” delle giornate qualsiasi. Per i Greci era non-esistenza, la bruttezza non aveva albergo nella società ideale, nella pòlis delle idee. Il Novecento ha seminato orrore e ha reso indolore il parteciparvi, ha assuefatto le persone al peggio, probabilmente come firma di autodifesa. Il brutto, il disgustoso, l’osceno sono spesso dei concetti relativi, ancora una volta ritorna la soggettività pervasiva, che sono utili a confronti e strategie. Ma non vivono che l’occasione di un discorso a termine. L’arte si è marginalizzata perché totalmente impreparata a confrontarsi con il proprio fantasma. Da dove riprendere, da dove ripartire? Forse per farlo bisogna cercare un perché. La promessa di eternità del digitale è effimera. L’obsolescenza tecnologica è rapida come vuole il mondo dell’industria. Per questo le immagini nell’universo digitale non sono fantasmi, non sono tracce di una sopravvivenza, ma sono solo se stesse, non rimandano ad altro che al nulla, senza esserlo veramente. Vivono l’eternità dell’istante cancellate da un altro flusso, soffocate sul nascere dalla memoria che non riesce ad attualizzarsi. Solo il Sublime è allora possibile perché non regimentabile nelle logiche dell’arte, perché non è una pratica, ma un sentimento di correlazione con la fisicità.
Natura o Corpo non è importante, perchè il Sublime ha sempre a che vedere con la nostra sopravvivenza e con la possibilità tutta umana di sentirsi proiettati al di là della Natura stessa, in una sorta di contingente eternità. Non ci toglie le illusioni e apre le porte agli archetipi, alle immagini recondite che si agitano nelle notti della nostra mente, quando abbandoniamo la simultaneità digitale del vivere quotidiano. Mentre il bello e il Brutto posso essere confinati dentro lo spazio diffuso dell’Utile, il Sublime è un concetto estetico che non è ascrivibile solo all’arte, è una relazione. E’ il Soggetto che si specchia nell’oggetto e lo modifica. Non vi è soddisfazione, è un processo aperto che non si può concludere e che non si può ripetere nella stessa modalità. In fondo quello che ci serve è una via d’uscita. Il mondo tecnologico tende all’implosione nella forma del simulacro di cui ha tanto e bene scritto Jean Baudrillard. Essere in contatto con un sentimento in cui bellezza e paura sono fusi insieme, saper guardare oltre lo schermo e verso orizzonti nuovi perché sempre in attesa di uno sguardo, fa sì probabilmente che il Sublime, quello di Burke e di Kant, possa veramente diventare l’ultima possibilità di parlare ancora di arte, almeno nel senso di vicinanza ad un assoluto, come richiesta da Heghel. La tanta, troppa “arte” che ci circonda toglie valor al concetto stesso. La diffusione impersonata dalle immagini digitali e dagli oggetti è invalicabile allo sguardo. L’arte come esperienza può esistere solo nel Sublime, nell’ andare sotto la realtà a cercare quel che resta delle immagini che hanno formato la nostra civiltà. Solo il timore di non riuscire più a sopravvivere ad un’esperienza terribile come quella della Bellezza, può tornare a dare un senso all’arte come appartenenza e non banalmente come piacere o confortevole decoro.
Valerio Dehò, “Il Bello, il Brutto e il Sublime”, NFC edizioni, 2020