18.02.2021
Bambini nella bruma: l’arte di vagabondare
Melania Moltelo


Patria non è qua o là. Patria è dentro te, o in nessun luogo”
Hermann Hesse
M. Moltelo Torino, settembre 2017 – immagini 'quasi' oniriche

Il bambino dice in continuazione quel che fa o tenta di fare: esplorare ambienti attraverso tragitti dinamici e redigerne la mappa” (G. Deleuze). La mappatura infantile è un’arte dell’esplorazione: la strada attira con i suoi rumori, le grida, la confusione dei passanti – si desidera l’ambiente che si riflette in tutti coloro che lo percorrono. “Nulla è più istruttivo dei percorsi dei bambini autistici, come quelli di cui Deligny rivela e sovrappone le mappe, con le loro linee abituali, le loro linee d’abbrivo, i loro meandri, i loro ritorni all’indietro” (G. Deleuze). Il viaggio reale sprigiona un “viaggio virtuale”; tra gli interstizi di “cristalli di inconscio” si scoprono traiettorie, alternanze di accelerazioni e catatonie, geografie sconosciute, giochi senza regole, paesaggi reali che sconfinano in paesaggi dell’immaginario. Ogni mappa è una pratica d’affetti, di altrettanti divenire: divenire-bambino (bambini si diviene!), divenire-lupo, divenire-blu.

L’arte-cartografica dell’infanzia non ha nulla a che vedere con i circuiti turistici: ogni carta comporta una pluralità di tragitti, una “invenzione” di linee, l’imprevedibilità del viaggio senza meta. Alla guida turistica e all’uomo d’affari si sostituisce felicemente la figura del vagabondo: così i due protagonisti del racconto di Gianni Celati intitolato Bambini pendolari che si sono perduti prendono tutti i venerdì il treno da Codogno per esplorare la grande Milano. La vita dei “pendolari” è una vita oscillante: molti potranno ricordare, si spera ben vaccinati “contro la nostalgia”, il viaggio carico di ansia di compimento dai luoghi desolati delle periferie al frastuono del paesaggio urbano.

I bambini di Codogno tentano di scappare dalla malinconia e dalla noia del “mondo degli adulti”; ma la metropoli non è immediatamente “luogo altro”, incastrata com’è dai suoi edifici d’organizzazione e dagli schemi mentali di chi la popola senza mai lasciare guastare la bussola del commercio e dell’ordinario: “Un’altra volta hanno seguito per corso Magenta una donna tutta vestita di nero con grandi occhiali da sole, che al bambino sembrava simpatica. Ma quando è arrivata a un posteggio e ha dato dei soldi al posteggiatore dicendo: “Tenga”, da come ha detto quell’unica parola loro hanno capito che era una donna noiosissima. Tanto che al bambino è venuto il disgusto in bocca a pensarci” (G. Celati). Un giorno, finalmente, si palesa l’incontro/scontro con l’imprevisto: i due bambini, reduci sconfitti dalla serietà, si mettono a inseguire una donna smarrita. Una donna che vaga, senza domicilio e senza identità. Questo percorso conduce a una sconfinata campagna avvolta nella caligine: “Nella nebbia voltandosi vedevano attorno a sé dovunque una grande parete bianca, in cui non riuscivano più a ritrovarsi l’un con l’altro, e neanche a vedere il proprio corpo, né a percepire bene un richiamo. Avevano freddo e si sentivano soli, ma non potevano andare né avanti né indietro, e dovevano restar lì, in quello stranissimo posto dove s’erano perduti” (G. Celati).

Alla nebbia riporta l’avventura, dove le identità scolorano per indovinare nuove mescolanze e le cose appaiono in una sospensione e non più come “fatti da documentare”, certezze da catalogare. Quella dell’avventura è una esperienza insieme del possibile e del reale, per il bambino un’esperienza possibile è altrettanto vera di un’esperienza reale. Al bambino che chiede al padre se la luna sia la pubblicità di qualche cosa “contro-risponde” il bambino-lunare. Nella totalità della “ridondanza”, scappa irriducibilmente “quel che dicono i bambini”. È lo spazio della strada e non quello della scuola, dove “si mette il linguaggio nella bocca dei bambini esattamente come si mettono pala e picconi nelle mani degli operai” (G. Deleuze).

Come scrive Ferruccio Masini, l’avventura, dimentica dell’ossequio per tutto quanto è utile, ragionevole e orientato, è “un divino tratto di dadi”. L’avventura non è la ricerca dell’avventura, ma l’incontro o lo scontro con essa: come la sorpresa della perturbante donna dei bambini di Gianni Celati, il cui volto affiora dalle nebbie e alle nebbie consegna. Non si è mai i protagonisti di un’avventura perché l’avventura è l’evento sottratto a ogni forma di possesso, anche quella dell’auto-possesso: divenire metafore per rompere la grammatica dell’ordine, il sistema dei significati univoci. L’avventura non è un progetto, ma un “farsi”, un “divenire” non progettabile: se il progetto sembra ricadere in un paradigma ben delineato, l’avventura somiglia di più agli esperimenti di cui non si prevede il risultato. È il tiro fortuito di dadi che si fa destino.

“Dove sta dunque l’avventura se non è possibile cercarla? Se non basta salire sul treno, salutare gli amici, accomodare il bagaglio sulla rete, stendere il giornale sulle ginocchia, guardare fuori dal finestrino mentre il cigolio delle ruote che cominciano la loro corsa si fa sempre più rassicurante e benefico, per dire che “Sì, questo è il principio dell’avventura?”” (F. Masini). Il viaggio non basta per operare una vera rottura: spesso il viaggio è di lavoro o è un divertissement (si ricordi V comme voyage di Deleuze). Il viaggiatore sa già quello che cerca, esattamente come il cittadino imbrigliato nelle cose da sbrigare – a cui si oppone il “perdigiorno” che, nell’ozio, aspetta di scontrarsi con il punctum, la ferita del quotidiano: possono essere degli occhi sfuggenti nella folla, come l’“amore all’ultimo sguardo” che investe il Baudelaire di Benjamin e richiama l’altrove della realtà. O il viaggiatore è qualcuno che scappa dall’ultimo barlume di resistenza, sventolando il fazzoletto bianco con cui egoisticamente si congeda alle incombenze e santifica il “principio di realtà”.