Auerbach: la vita al culmine della storia
Manlio Iofrida

07.05.2021

Assai di rado Eric Auerbach si scopre su concetti politici impegnativi come Rivoluzione, socialismo, democrazia: eppure, i suoi lettori attenti sanno che essi sono per lui assai più importanti - sono, verrebbe da dire, quei temi che per un autore sono così importanti e fondamentali da indurlo a non esplicitarli mai. Uno dei testi in cui maggiormente il grande filologo tedesco esplicito in proposito è senz’altro il saggio Sull’ imitazione seria del quotidiano (tr. it. in Auerbach, Romanticismo e realismo e altri saggi ecc., Pisa, Edizioni della Normale, 2010, pp. 19 e sgg.). Riprenderò qui, da un altro punto di vista, alcuni dei temi che ho di recente svolto nell’articolo su moderno e postmoderno.

In Sull’ imitazione seria del quotidiano in effetti il ruolo della Rivoluzione francese nel determinare quella che per Auerbach è una nuova fase della storia dell’autocoscienza umana è decisivo; né Balzac né Stendhal e nemmeno Flaubert - così spesso confuso per un reazionario - sarebbero comprensibili senza il presupposto della Rivoluzione, e ciò non tanto e non  solo per un problema di contenuti, ma per un problema formale: il loro “realismo serio del quotidiano” si basa sul fatto che vite, eventi, sentimenti che prima erano fuori dal campo del tragico acquistano pari dignità stilistica: ad essi si addice lo stile più alto, quello della tragedia.

Questa tragedia non è altro che la storia; ciò che sta in basso, ciò che è più umile, grazie alla distruzione delle millenarie gerarchie feudali operata dalla Rivoluzione francese, diventa il soggetto centrale di una letteratura che ha come oggetto fondamentale la storia: è quest’ultima che il realismo illustra come il teatro della lotta tragica per il conseguimento di una pari dignità - lotta tragica, poiché comune ai tre autori è la certificazione che la nuova società borghese, se ha spezzato le catene del feudalesimo, non ha tenuto fede alle sue promesse di realizzare una vera uguaglianza.

Il realismo ottocentesco che interessa Auerbach non è dunque quello che, precursore del realismo socialista del ‘900, descrive le sorti progressive del proletariato, ma quello che culmina nella delusione del Flaubert de L’educazione sentimentale e di Madame Bovary. E la sua filosofia della storia non ha niente di lineare, il profetismo laico che avevamo visto schizzato con riferimento alla Bibbia e a Dante non ha nulla di un’attesa certa del futuro: sulla linea di Goethe e del Kant di cui abbiamo parlato, non il tempo, ma lo spazio sono l’asse su cui viene incardinata la storia.

Il moderno, aperto dalla grande Rivoluzione, è il campo di una grande contraddizione fra possibilità di un’apertura inedita alle differenze (e quindi di un’uguaglianza concepita ben oltre l’ugualitarismo astratto borghese) e la possibilità opposta (assai più spesso realizzatasi) del loro più violento sterminio o dell’avvento di un dispotismo della più astratta omogeneità (come Auerbach intravide subito dopo la seconda guerra mondiale, quando vide in tale omogeneità il tratto più profondo della coesistenza - bellicosa o pacifica - fra Usa e Urss).

Ma è con la lettura degli sviluppi del realismo nel XX secolo, con Proust, Joyce e Woolf, che il disegno di filosofia della storia di Auerbach si chiarisce in tutta la sua potenza e che si chiarisce anche il carattere tutto novecentesco e sperimentale (in opposizione alla lezione di Lukács) della sua nozione di realismo. Con questi autori la letteratura arriva a concepire una storia spaziale, intesa “come processo duraturo e compresente, come poliedrica unità”; il culmine è rappresentato dal celebre calzerotto marrone di Gita al faro. Sentiamo direttamente la voce di Auerbach:

Ciò che avviene nel romanzo To the Lighthouse fu tentato dappertutto nelle opere di questo genere e, a dir vero, non dappertutto con lo stesso intuito e con la stessa maestria, che mette l'accento su un'azione qualunque senza valorizzarla al servizio d'un insieme predisposto di azioni, ma in se stessa, manifestando cosi qualcosa di completamente nuovo ed elementare: la pienezza e profondità vitale d'ogni attimo, a cui ci si abbandona senza intenzione. Quanto avviene in esso, si tratti di vicende esteriori o interiori, riguarda, sì, personalmente le persone che lo vivono, ma proprio perciò riguarda anche quanto negli uomini in genere vi è di elementare e universale. Proprio l'attimo qualunque è relativamente indipendente dagli ordinamenti discussi e precari, per i quali gli uomini combattono e dei quali disperano; esso passa al di sotto di questi ed è la vita quotidiana. Quanto più lo si valorizza, con tanta maggiore evidenza si palesano i tratti elementari nella nostra vita, comuni a tutti; quanto più numerose, più diverse e più semplici sono le persone che costituiscono l'oggetto d'un simile attimo qualunque, con tanto maggiore spicco risaltano quei fatti
(Auerbach, Mimesis, tr. it. Einaudi, Torino, 1991, pp. 336-7).

Il culmine della storia, il telos di essa non è la creazione di un mondo tutto artificiale e l’uscita dal mondo della natura; non è l’avvento della razionalità dispiegata a cui Kojève e Fukuyama vollero ridurre la lezione di Hegel; la linea della storia invece si riavvolge circolarmente su se stessa e il suo telos supremo è il ritrovare la vita come istante qualsiasi, il suo strato più profondo, che è assolutamente semplice ed elementare, che, all’opposto della ragione strumentale, è del tutto fine a se stesso e in cui il soggetto comunica con una dimensione interpersonale dell’esperienza che lo connette a tutti e a tutto. Il corso della storia ha come suo telos - un telos solo possibile e assai poco probabile - questo riemergere della vita in tutta la sua incontaminata semplicità e purezza al culmine della civiltà.

Così il profetismo ebraico secolarizzato di Auerbach indica come possibile esito del processo di civilizzazione e della storia la sua riconciliazione con la natura. Questo tempo insieme lineare e circolare è d’altra parte, sulla linea di Goethe e di Vico, alla base di tutta la tematica del frammento che Auerbach ha in comune con Kracauer, Adorno e Benjamin: l’Ansatz sulla totalità della storia significa che il mio presente può mettersi in comunicazione con molteplici strati di passato, che non sono disposti secondo una linea temporale in rapporto teleologico e di Aufhebung l’uno successivamente all’altro, ma sono compresenti al mio oggi, sono come un circolo di possibilità che sono aperte alla mia esperienza, che io posso riattivare, fare esplodere nel presente; la storia, di
nuovo e più pienamente, assume l’aspetto di un teatro:

La storia interna degli ultimi millenni, oggetto della filologia in quanto disciplina storicistica, è la storia dell'umanità giunta a un'espressione propria. Essa contiene i documenti della spinta potente e avventurosa grazie alla quale gli uomini prendono coscienza della loro condizione e realizzano le loro possibilità intrinseche; una spinta la cui meta (anche nella forma certamente molto frammentaria in cui oggi si presenta) per molto tempo fu difficilmente immaginabile e la quale, comunque, nei meandri contorti del percorso, sembra essersi manifestata come il perseguimento di un piano. Vi si trova tutta la ricchezza di tensioni di cui la nostra indole è capace; vi si sviluppa uno spettacolo la cui pienezza e la cui profondità mettono in moto tutte le forze dell'osservatore e, al tempo stesso, attraverso l'arricchimento cosí ottenuto, lo abilitano a trovare pace all'interno della sua condizione (Auerbach, Filologia della letteratura mondiale, edizione bilingue, Book Editore, Bologna, 2006, p. 39).

Quest’idea di una storia terrestre e spaziale, fatta di coesistenza dei diversi, luogo di incrocio degli uomini fra loro e con la terra, in tempi e luoghi diversi, troverà una sponda essenziale nelle ricerche fenomenologiche di Husserl e Merleau-Ponty, su cui continueremo prossimamente il nostro discorso.