Artecrazia. Macchine espositive e governo dei pubblici: un testo di Marco Scotini
Melania Moltelo

30.09.2021

Artecrazia è l’efficace neologismo che dà titolo al testo ripubblicato questo settembre, dopo l’edizione del 2016, da Marco Scotini per DeriveApprodi: in questo termine, costitutivamente ambivalente e riferibile al “potere dell’arte” da un punto di vista etimologico, si condensa la critica dell’arte contemporanea come promozione dei processi di globalizzazione e lo sfruttamento di tematiche apparentemente dissidenti – dall’ecologia alle questioni di genere – in un processo di “artwashing” teso a “riaffermare l’arte come sistema autocratico del capitale, funzionale alle gerarchie sociali e al mantenimento dell’ordine”.

L’urgenza di questa ripubblicazione è stata incentivata dal potenziamento dei meccanismi di sussunzione durante l’attuale crisi pandemica in cui lo “tsunami digitale che ha investito il sistema dell’arte”, presentandosi come surrogato o riconfigurazione delle tradizionali forme di musealizzazione e di esposizione, ha confermato la reificazione delle opere nel “pantheon dei beni culturali” e la decadenza della fruizione ad attività perfettamente inserita nel sofisticato apparato di amministrazione del “tempo libero” e del “tempo del lavoro”: un processo ineguagliabile di neutralizzazione dell’arte che sembra averne definitivamente sottratto il “carattere incerto” che può complicare il sistema di collocazione e di conservazione delle opere.

Lo scheletro teorico di questa riflessione combacia con la critica – rinvenibile soprattutto nei saggi di Walter Benjamin e di Theodor W. Adorno – alla concezione dominante dell’impegno. Arte impegnata, come bene intuiscono i due filosofi tedeschi, è spesso sinonimo di un’arte esclusivamente ripiegata sul contenuto e, in questo senso, esposta con facilità alla sua stessa neutralizzazione.

I contenuti potenzialmente rivoluzionari sono facilmente assimilabili dal sistema vigente e l’esperienza artistica della Nuova Oggettività, analizzata da Benjamin, ben dimostra la conversione della lotta di classe in un rigurgito borghese, nel godimento “malinconico” e “sinistro” di una trasfigurazione del mondo che lo lascia inalterato. L’atteggiamento sbraitante contro la miseria, come si è già detto altrove, è spesso mero conformismo travestito dal suo opposto.

Questo si estende, oggi, a tutti quei discorsi che chiamano in causa le politiche dell’identità e il dominio sulla natura: l’arte, ancella della cattiva coscienza, assume contenuti politici e, attraverso raffinate strategie di marketing, lascia intatti i presupposti di disuguaglianza sociale e di crisi ambientale.

La semplificazione del “messaggio”, che passa attraverso tecniche algoritmiche di visibilità, potenzia i processi di diffusione normata e di intorpidimento delle coscienze. Tutto ciò emerge dal testo di Scotini, con un’attenzione rilevante alle più attuali forme di inserimento dell’arte tra le tattiche di consenso e di controllo generalizzato.

Così le biennali incrementano la codificazione dello spazio della cultura in accordo totale con i regimi economici e politici neo-liberisti: il lavoro curatoriale e artistico è piegato alle esigenze amministrative e burocratiche dell’evento.

La relazione arte-politica, da cui discendono attualmente la maggior parte degli eventi culturali, si può efficacemente sintetizzare nell’immagine proposta di “industrie creative contemporanee” che “isolano da quello che mostrano le procedure di produzione, il contesto storico, le intenzioni, le risorse”.

Il dissenso esibito in una mostra, con tutto ciò che concerne le mistificate finalità di incremento monetario e di sponsorizzazione dell’attuale modello economico (tutta l’arte sembra ormai scadere a spettacolarizzazione del sociale), si riduce a una funzione “decorativa” che genera l’illusione di uno spazio espositivo aperto e alieno ai modelli egemonici di una qualunque impresa.

Questo è possibile se si tiene a mente la persistenza di una “mitologia” dell’arte che, trascinandosi la concezione patriarcale del “genio”, come evidenzia Linda Nochlin, ne difende l’autonomia e la relega in un luogo estraneo alle masse di lavoratori ed emarginati.

Ma, come si è visto, il problema non è risolvibile neanche estremizzando il versante dell’engagement, tendenza oggi assai comune, che rischia di tradursi in una postura modaiola o in un oggetto di consumo. L’esposizione è, dunque, un “dispositivo di controllo poliziesco”: il pubblico si riduce a una folla addomesticata e consenziente al dominio del capitale; il fruitore si pone ancora come contemplatore (l’aura, di cui parla Benjamin, è conservata secondo Adorno dall’industria culturale come “putrefatta”, come “alone fumogeno”), come “spettatore innocuo” e, al tempo stesso”, “sorvegliato” per il mantenimento dell’ordine sociale.

Il consumo estetico del contenuto politico di tendenza annichilisce, in questo modo, i potenziali di azione e di trasformazione effettiva del mondo. È per questo che l’arte, presentandosi come ricompensa del lavoro e liberazione momentanea dal lavoro, a uno sguardo critico risulta essere in “segreta” (più o meno) alleanza con il potere annichilente e “possessivo-paranoico” che caratterizza i “nostri tempi”, in cui pullulano e proliferano “vite mancate” (per dirla, in senso lato, con Elias Canetti).

Ma come rovesciare il significato negativo dell’artecrazia restituendo all’arte il suo potere nel senso di una resistenza e di una operazione autenticamente trasversale? Insieme al momento distruttivo operato dall’interno, questa ricerca risulta essere l’altra stratificazione del testo complesso e minuzioso di Marco Scotini sullo “stato dell’arte” nell’epoca contemporanea.

Questa domanda mi sembra che resti, tutto sommato, una domanda aperta, pur indicando delle strategie liberatorie: il superamento dei confini netti tra fruitore e creatore, l’esposizione nelle esposizioni del potere come invisibile intermediario tra il pubblico e il prodotto artistico, i tentativi di “contromanovra” rispetto ai dispositivi di cattura e di coercizione identitaria, la riapertura degli spazi a un’organizzazione collaborativa e collettiva, una “politicizzazione dell’arte” come ricostruzione dell’apparato di produzione.

È l’invenzione di vocabolari e pratiche sottratti al monopolio delle classi dominanti l’ultima opportunità dell’arte di rivendicare il suo contributo al progresso reale, per questo resta ancora da chiedersi se “invece di parlare degli “usi” politici della cultura e dell’arte non sarebbe più importante metterne definitivamente a fuoco l’intrinseca politicità”.