Arnulf Rainer tra azione e agency
Pasquale Fameli
A. Rainer, Messerschmidt Series, 1976–77, collezione privata © Arnulf Rainer

26.02.2022

«Il gesto, il dinamismo corporeo o la cinetica del volto non sono per me né un gioco, né un utensile teatrale né tantomeno un rituale, bensì coscienza, la forma di comunicazione più fondamentale dell’uomo». Con queste parole, Arnulf Rainer (1929) entra in sintonia con il pensiero fenomenologico, e in particolare con Maurice Merleau-Ponty, nell’idea che la gestualità sia già di per sé coscienza, rivelazione di un’attitudine del soggetto, modulazione del proprio essere-nel-mondo.

D’altra parte, questa stessa idea corroborava, insieme a tante altre riflessioni affini, il fenomeno artistico europeo più significativo degli anni Cinquanta, quello dell’Informale, che lo stesso Rainer ha interpretato mediante la poetica della Atomisation, una riduzione dell’immagine a un opaco spessore di materia, a una grumosa presenza nucleare.

A quegli stessi anni risale la realizzazione dei primi Blindmalerei, dipinti realizzati a occhi chiusi che recano tracce delle sue mani. Questi ultimi non determinano solo un più diretto contatto con la materia che prescinda dalla mediazione del pennello, ma anche un modo di esplorare meno indagati canali della conoscenza sensibile. Storicamente l’Informale si opponeva alla sofisticazione della tecnologia per restaurare un rapporto primordiale con il mondo: l’immagine si riduceva così a una traccia di materia palpitante, brulicante di una vita liberata da qualsiasi imposizione.

Se consideriamo l’Informale quale ultimo stadio di un processo di degradazione, di regressione ontogenetica dell’immagine, i Blindmalerei di Rainer ci appaiono allora come più radicali tentativi di negarne anche il canale di fruizione privilegiato: davanti all’incedere di una cultura visuale sempre più invasiva, rappresentata dai media e tematizzata dalla Pop Art, Rainer sceglie di chiudere gli occhi e di affidarsi esclusivamente al tatto, primo mezzo di modellazione di un’immagine del mondo per ogni essere umano.

La ricerca dell’artista sulla gestualità corporale si amplia con il ricorso alla fotografia: il fatto che le prime Photoposen risalgano agli stessi anni Cinquanta conferma la continuità esistente tra la pittura di gesto e la performance, prima ancora che, negli Stati Uniti, Allan Kaprow dichiari l’happening quale evoluzione del dripping di Jackson Pollock.

La fotografia però non basta a restituire appieno la veemenza dell’evento fisico, è necessario intervenire con opportune estensioni grafiche che compensino la staticità dell’immagine. È lo stesso artista a dichiararlo: «Rimasi comunque deluso dalla rigidità di alcune foto. Avevano documentato troppo poco. Quindi fui sollecitato a dipingervi sopra il dinamismo e la tensione che non trovavo nelle fotografie». Estensioni dei propri gesti, certo, ma anche aggressioni autoinflitte, se riteniamo la fotografia un prolungamento effettivo della sua corporeità.

La vocazione autolesiva della foto-performance di Rainer trova conferma nella serie degli autoritratti realizzati sotto l’effetto dell’alcol in una cabina Photomatic della stazione di Vienna tra il 1968 e il 1969: l’ingente quantità di alcolici assunti permette all’artista di aggirare le inibizioni comportamentali dettate dal contesto pubblico, sperimentando deformazioni facciali che non avrebbe ottenuto in condizioni di lucidità, ma ai danni del suo stesso organismo.

Ad allentare ulteriormente i freni inibitori contribuisce anche l’automaticità della ripresa fotografica che garantisce l’assenza di occhi giudicanti. L’operazione è da considerarsi quindi un’autentica performance di resistenza, basata su inflizioni corporali, come quelle praticate oltreoceano dai più radicali esponenti della Body Art, nell’idea che il “corpo proprio” sia tanto il mezzo quanto il campo ideale di ogni indagine esistenziale.

Nel passare dall’immagine fotografica a quella video Rainer rinuncia a ogni apporto grafico, non tanto per via di presumibili limiti tecnici, quanto per la possibilità di diluire la temporalità condensata nello sgorbio o nella pennellata in un’azione più dilatata e continua.

Ciò che si profila davanti ai nostri occhi è un rapporto chiastico tra corpo e medium volto a ridiscuterne gli specifici tecnici: l’artista sfida l’immagine fissa con gesti concitati e frenetici, mentre all’immagine in movimento affida minimi esercizi condotti con lentezza. In opere come Mouth Piece o Confrontation with My Video Image, prodotte presso il centro Art/tapes/22 di Firenze nel 1974, Rainer ripete ossessivamente alcuni semplici gesti della bocca e delle mani stando seduto di fronte alla videocamera: la ripetizione sostituisce il segno grafico nel processo di intensificazione visiva dell’atto fisico, assumendo una funzione sostanzialmente omologa. Conferma l’intenzione di sperimentare la lentezza il terzo video prodotto a Firenze, emblematicamente intitolato Slow Motion, in cui l’artista si trascina carponi per lo studio con una flemma quasi snervante: un’ennesima variazione sul fattore della resistenza fisica intorno alla quale si enuclea la poetica della Body Art.

Pur caratterizzandosi per l’impiego diretto del proprio corpo, la ricerca di Rainer non trascura la possibilità di riflettere su altre modalità di azione attraverso l’immagine. Anzi, è probabile che essa parta proprio dalla consapevolezza che le immagini, anche quelle più tradizionali, possiedano una forza agentiva, la capacità di simulare le qualità vitali del corpo umano, di interpellare quello dell’osservatore e di attivarlo per induzione.

È la teoria dell’atto iconico formulata più di recente da Horst Bredekamp, che assegna a diverse forme della rappresentazione visiva qualità performative persino superiori a quelle della Body Art. Riflettendo sulla produzione di Rainer, Bredekamp osserva che gli interventi grafici sulla fotografia non mutano l’immagine in un corpo attivo ma, al contrario, marchiano uno spazio rappresentativo già di per sé carico di quozienti agentivi: si verifica perciò una sovrapposizione tra due differenti tipi di atto iconico, quello “schematico”, ottenuto dall’inclusione della vita nell’immagine, e quello “intrinseco”, che scaturisce dall’energia fisica emanata dalla forma.

Possiamo rintracciare questa stessa sovrapposizione anche nel ciclo di opere realizzato tra il 1976 e il 1977 in omaggio a Franz Xaver Messerschmidt, lo scultore settecentesco noto per le “teste di carattere”, una serie di sessantanove busti dalle esagerate mimiche facciali. Rainer definisce queste immagini come “conversazioni” con lo scultore suo conterraneo, esiti di un dialogo ancora aperto, necessario, come sembrano rivelare alcune fotografie in bianconero scattate dallo storico dell’arte Alfred Weidinger il 10 novembre 2012 al Belvedere di Vienna, in cui vediamo l’artista ultraottantenne interagire con un busto di Messerschmidt. Benché afferenti a un diverso paradigma rappresentativo, queste “teste” possono costituire d’altronde un ideale precedente plastico delle performance facciali compiute da Rainer in fotografia.

Il ciclo di opere del 1976-77 si compone di otto riproduzioni fotografiche delle “teste di carattere” elaborate graficamente da Rainer per acuire le deformazioni facciali, nel segno della vocazione espressionista radicata nella tradizione artistica mitteleuropea. All’atto iconico schematico delle teste di Messerschmidt si combina quindi quello intrinseco dei segni di Rainer.

Questo ciclo amplia le coordinate di una poetica apertasi alla citazione solo l’anno prima con la serie de L’art sur l’art, che consta di Übermalungen e di Überzeichnungen effettuati su riproduzioni di Gustave Doré, Vincent Van Gogh o Leonardo da Vinci. Sono gli anni “giusti” per questa virata, dato che, alla fine del decennio, l’arte cerca una rinnovata condizione di materialità anche tramite un confronto con più consolidati codici visivi.

Nel caso di Rainer tale confronto non avviene però con il ritorno a una più tradizionale pratica scultorea, bensì con la rilocazione di opere plastiche fortemente connotate all’interno dello spazio fotografico. Sguardo rivolto al passato, quindi, sì, ma attraverso uno dei mezzi elettivi della “smaterializzazione” e della cultura visiva contemporanea in generale.

Non stupisce poi che Rainer avverta l’esigenza di intavolare simili “conversazioni”, non solo per via della comune attenzione alle esasperazioni della mimica facciale ma anche per il fatto che, al di là delle specificità materiali, l’opera di Messerschmidt cela un presupposto performativo degno della più autentica Body Art: Rudolf Wittkower ci ricorda infatti che lo scultore aveva rivelato all’amico scrittore Christoph Friedrich Nicolai di avere eseguito queste smorfie di fronte a uno specchio, dandosi dei pizzicotti sul corpo, per domare le insidie dello “spirito della proporzione”.

La scultura era diventata, dunque, per Messerschmidt, il medium attraverso cui fissare le reazioni del proprio corpo, secoli prima che la fotografia lo diventasse per Rainer.