Ancora su storia e postmoderno
Manlio Iofrida

16.04.2021

Stefano Righetti è tornato di recente, in un suo articolo sul Tropico, sulla questione centrale del rapporto fra storia e postmoderno: quel che viene da chiedermi, dopo aver letto l’articolo e concordato con esso, e anche con quello di Ubaldo Fadini che verte sulle stesse questioni, è: oggi che la pandemia ha imposto il problema della natura come inaggirabile - oggi che un fenomeno che investe innanzitutto la vita ha, per così dire, fermato la storia, che sguardo possiamo gettare, da questa catastrofica posizione, su quest’ultima e sulle questioni, che ad esse sono strettamente connesse, del moderno e del postmoderno?

Se, come dice Stefano, l’essere ha interrotto il tempo, questo fatto che tempo apre? E che visibilità getta sugli ultimi trent’anni
della nostra storia e, più a largo raggio, sugli ultimi duecentocinquanta anni? La prima cosa che mi viene da dire, abbozzando una risposta, è che il postmoderno si rivela per essere stato qualcosa di completamente diverso da ciò che credeva di essere e si spacciava di essere: si è presentato come una liberazione, accolta con sollievo, dalle catene della storia, dal mondo che insieme l’illuminismo, il Romanticismo, Marx e Hegel avevano costruito. Era, nei fatti, innanzitutto o altrettanto, una liberazione definitiva dal mondo della natura: il trionfo dell’illusione borghese e capitalistica che il mondo fosse destinato e finalizzato a suoi fini meramente produttivi. Il paradosso è che ciò sia avvenuto mentre si proclamava il contrario: il trionfo definitivo dell’estetico sulla finalizzazione alla produzione e all’impegno, ecc.

Buttar a mare i vincoli della storia, insieme a quelli dello storicismo lineare borghese (che era operazione sacrosanta), sottendeva buttar via quelli non meno fondamentali della natura, in un mondo che era pensato come un campo di affrontamenti linguistici , di différands, di dissidi - in cui la natura aveva lo stesso ruolo, pari a zero, che ha in tante serie americane, così istruttive sulla realtà postmoderna: dove l’intera esistenza è pensata come un’immensa e continua lite fra avvocati, poliziotti o giudici, il mondo materiale fa da semplice e intercambiabile sfondo e la realtà può essere rivoltata in qualunque direzione - una visione che coincide non a caso con quella che hanno i media televisivi e le catene giornalistiche ad essi legate.

Vediamo di approfondire e precisare questa linea di riflessione. Il postmoderno aveva voluto congedare la modernità, rigettandola sulle sue incarnazioni ottocentesche che in quel momento parevano più usurate: Hegel, Marx, Goethe, Humboldt, la Kultur tedesca, ma più di tutto la tradizione della Rivoluzione francese. Ma i due secoli che venivano così buttati nel cestino cosa erano stati? Verrebbe voglia di partire da una provocatoria affermazione di Auerbach, secondo cui, in quel periodo storico, anche i proletari erano stati inclusi nel gran progetto della borghesia.

Vediamo che senso possiamo dare a questa assai profonda, anche se criptica tesi. Ci serviremo di quel che dice lo stesso Auerbach su Stendhal e Balzac nel grande saggio Sull’ imitazione seria del quotidiano (tr. it. in Auerbach, Romanticismo e realismo e altri saggi ecc., Pisa, Edizioni della Normale, 2010, pp. 19 e sgg.). Il centro di tale saggio sono da un lato Flaubert, dall’altro la Rivoluzione francese come premessa necessaria del realismo tragico del primo. La Rivoluzione ha spezzato un mondo fatto di gerarchie millenarie e ha aperto delle prospettive di redenzione interamente nuove, ma le ha immediatamente deluse: Stendhal, Balzac, Flaubert (con sempre maggiore, progressiva chiarezza) sono coloro che traggono il bilancio tragico della delusione, che certificano il tradimento che la società borghese stava compiendo delle prospettive emancipatorie della Rivoluzione.

Il “realismo serio del quotidiano” che essi mettono a punto rappresenta il venir ad autocoscienza, per l’umanità, del pari valore e della pari dignità di ogni vivente e del fatto che la realtà attuale, la storia è il teatro della lotta tragica per il conseguimento di tale dignità. In questo senso Il rosso e il nero, La Commedia umana, Madame Bovary sono l’esempio di un’autocritica feroce del moderno, costituiscono un momento in cui una società borghese matura a nuovo livello di autocoscienza storica e critica dell’umanità.

Alla storia lineare e evolutiva, al tempo schiacciato sul futuro di Adam Smith, di Condorcet e di un certo Hegel oppongono una visione altamente tragica del presente, che dalla rappresentazione della società esistente fa scaturire in controluce le possibilità che essa ottunde, il tradimento delle stesse prospettive che essa ha spalancato; ma diamo la parola allo stesso Auerbach:

la Storia dell’ autocoscienza umana subisce una svolta decisiva con la caduta degli steccati stilistici e con l'interpretazione del quotidiano in chiave seria, come prodotto della storia. Di conseguenza, ogni individuo appare degno di imitazione seria: in quanto essere umano e, come tale, detentore d’ un umano destino. Si offre alla rappresentazione l’intero spettro della nostra vita, che, con le sue ampie ramificazioni, acquista rilevanza non già come sequela di fatti paralleli e susseguenti, ma come processo duraturo e compresente, come poliedrica unità. Per realizzarsi, quest'unità può ormai prescindere da limiti di tempo o di spazio e la nobiltà della lingua artistica alta non si misura più sul tenore delle scelte lessicali: è la gravità generale della condizione umana a rendere dignitosa ogni parola che si professi imitativa. Ma l'analisi degli sviluppi francesi fino a Flaubert mostra sia che le costrizioni storiche e sociali misero a repentaglio la libertà sia che le prospettive per una redenzione e una catarsi dell’umano apparvero tanto più ridotte quanto più la rappresentazione mimetica del reale si faceva seria e concreta.

Dunque questo altro lato della modernità - che mostra che libertà e “prospettive per una catarsi e una redenzione dell’umano” sono in pericolo proprio nel momento in cui si stanno aprendo - non schiaccia il presente sul futuro, ma è capace di darcelo “come processo duraturo e compresente, come poliedrica unità.” Il ventesimo secolo, e la lezione di Joyce, Woolf, Proust, che Auerbach
approfondisce nell’ultimo capitolo di Mimesis (Il calzerotto marrone), vanno visti come l’esito e l’approfondimento di questa linea di un moderno tragico: la lezione di questi massimi scrittori del Novecento è connessa alla valorizzazione della vita come istante qualsiasi, alla presa di coscienza che lo strato più profondo di essa si attinge laddove emergono i suoi aspetti più semplici, più elementari, assolutamente non strumentalizzabili, del tutto fini a se stessi e in cui il soggetto comunica con una dimensione interpersonale dell’esperienza che lo connette a tutti e a tutto. Ma sentiamo ancora direttamente la voce di Auerbach, laddove, commentando Virginia Woolf, investe una parte assai più ampia della tradizione letteraria novecentesca:

Ciò che avviene nel romanzo To the Lighthouse fu tentato dappertutto nelle opere di questo genere e, a dir vero, non dappertutto con lo stesso intuito e con la stessa maestria, che mette l'accento su un'azione qualunque senza valorizzarla al servizio d'un insieme predisposto di azioni, ma in se stessa, manifestando cosi qualcosa di completamente nuovo ed elementare: la pienezza e profondità vitale d'ogni attimo, a cui ci si abbandona senza intenzione. Quanto avviene in esso, si tratti di vicende esteriori o interiori, riguarda, sì, personalmente le persone che lo vivono, ma proprio perciò riguarda anche quanto negli  uomini in genere vi è di elementare e universale. Proprio l'attimo qualunque è relativamente indipendente dagli ordinamenti discussi e precari, per i quali gli uomini combattono e dei quali disperano; esso passa al di sotto di questi ed è la vita quotidiana. Quanto più lo si valorizza, con tanta maggiore evidenza si palesano i tratti elementari nella nostra vita, comuni a tutti; quanto più numerose, più diverse e più semplici sono le persone che costituiscono l'oggetto d'un simile attimo qualunque, con tanto maggiore spicco risaltano quei fatti (Auerbach, Mimesis, tr. it. Einaudi, Torino, 1991, pp. 336-7).

La distruzione delle gerarchie sociali, che era stata anche una distruzione delle gerarchie dell’essere, operata dalla Rivoluzione francese culmina in questa valorizzazione dell’umile, del semplice e dell’elementare: il corso della storia ha come suo telos - un telos solo possibile e assai poco probabile - questo riemergere della vita in tutta la sua incontaminata semplicità e purezza al culmine della civiltà. Dunque il moderno non era solo la riduzione dell’essere e della vita al tempo e alla storia lineare, era anche una nuova scoperta e proposta di vita e tempo.

La pandemia di oggi non ci sveglia infine dal sonno postmoderno che ci aveva oscurato insieme le prospettive sulla storia e sulla vita? Non ci riporta con violenza a quella dimensione critica che lo spalancarsi dell’età moderna e industriale aveva fatto nascere? La post-modernità che oggi sta cominciando, in tutt’altra direzione da quella degli anni Ottanta, è ben consapevole che il tempo dell’era industriale e dei Trenta Gloriosi si va chiudendo e che si apre l’era dell’ecologia: questa non potrà che - dialetticamente! - rifarsi alla tradizione critica (apertasi nell’era della grande borghesia) che l’epoca precedente aveva reso possibile - ed ecco un altro modo per rivendicare il valore della storia e lo spessore del passato.