Allentare le dipendenze, di qualsiasi tipo
Ubaldo Fadini

29.11.2021

Capita alle figure che si muovono nel vento di manifestare dei fenomeni un po' singolari di allentamento. In che senso? Sottolineo immediatamente che voglio qui tentare un affondo rischioso in direzione della presa d'atto che molto oggi concorre ad una determinazione della nostra soggettività risolta su piani di sempre maggiore dipendenza.

Non che quest'ultima sia aggirabile ma la mia convinzione è – una volta ritenuta realizzabile una diversa formulazione – che sia possibile restituirla a quella sua inesorabile parzialità che ne segnala infine la provvisorietà, la temporaneità (perlomeno per le forme che sono date, presenti).

E' questo il mio modo di fare i conti con le dipendenze, quelle che si ripropongono con un automatismo, comunque per qualcuno sospetto, in tempi di apparente normalità, e pure con altre, più recenti e relativamente “nuove”, che si sono particolarmente affermate nella contingenza che stiamo vivendo (forse...).

Il presupposto di queste mie annotazioni è ancora benjaminiano (con un richiamo anche a Asia Lacjs) nel momento in cui si fanno i conti con un restringimento dei confini, per via pandemica, che ha intimato un stop, certamente per qualcuno provvisorio, alla loro “dilatazione” di segno vagamente neoliberista degli ultimi decenni, gonfi di liquidi e di bolle alla lunga sempre meno orientabili e gestibili.

Si sa che negli anni 20 del secolo scorso la “dilatazione dei confini” era avvertita in modo un po' diverso, in correlazione con l'auspicata e più radiosa possibile “libertà dello spirito”, da collegare certamente a condizioni complessive di “povertà” in grado però di far ripartire il meccanismo di una esistenza fantastica, nel senso proprio di ciò che viene costantemente rianimato da una “passione per l'improvvisazione” che può trovare espressione nelle dimensioni della tecnica, dell'arte, della politica e così via.

Mi interessa proprio tale passione perché oggi è in grado, sempre a mio parere, di veicolare una sorta di “oscura cognizione” riferibile a elementi/momenti indispensabili per la delineazione di scenari differenti di esistenza, a livello individuale e collettivo, di vie, di strade diverse per coloro che attraversano le “città”, così come capita, ad esempio, ai personaggi del film del 1973 di Wim Wenders: Alice nelle città.

Una “oscura cognizione” sostenuta da un lavoro ostinato a favore e “in nome del vivente”, contro tutto quello che si protende/pretende come “positivo” nell'esito imposto di una incessante ri/normalizzazione/normazione del sociale, intravisto come pericoloso rieducatore di quella educazione penosamente rivolta ormai a garantire, nelle articolazioni concrete del sistema dell'istruzione, stili di vita e di pensiero con/correnti all'interna dell'unica gara che viene proposta: quella della competizione per la selezione delle prestazioni dovute alla sola legge che conta effettivamente, quella del “plusvalore” e della massimizzazione dei profitti da ottenere a tutti i costi.

E' stato Peter Szondi a rilevare – nella sua “nota” alla traduzione delle benjaminiane Immagini di città – la particolare “valenza storico-sociologica” della ricerca del filosofo berlinese: “Movendo dalla condizione sociale tardo-borghese, irrigidita e prigioniera del principio d'individuazione, egli cerca la strada delle perdute, originarie categorie del sociale. La protesta, che il primo Hegel e Hölderlin levarono in nome del vivente contro il positivo, suona di nuovo alta in Benjamin” (in W. B., Immagini di città, Einaudi, Torino 1971, p.107).

Ma abbiamo anche bisogno di nuove categorie del sociale, accanto al ritrovamento di quelle perdute..., proprio in virtù del manifestarsi irregolare, eccentrico, di quest'ultimo, non facilmente preordinabile: ci sono state e si svolgono ancora, nonostante tutto, altre storie nel confronto in ogni caso vivo con esperienze condensate in artifici sempre diversi, sofisticati, che possono essere anche forse utili per tentativi di riscatto dalla parte di una socialità effettivamente compressa, sospinta fin quasi al disfacimento di sé.

Ma ciò che va rimarcato qui del complesso procedere benjaminiano è l'indicazione di un carattere comunque specifico del fare esperienza che va nella direzione di un modo di porre la questione singolare del soggetto stesso che lo rileva attraverso un allentamento delle maglie della individualità, di ciò che appare essere paradossalmente confermato ed eventualmente rianimato nella reificazione di un “io” che si ritiene auto-sufficiente e pienamente consapevole di sé.

Un allentamento da perseguire evitando le estremizzazioni che lo restituiscono in sintonia con quel consumo appunto di sé dalla parte del soggetto nel tentativo di coordinarsi – nell'ordine dello spreco inarrestabile – con le dinamiche/sollecitazioni proprie dell' “ipercapitalismo” corrente oppure in una deriva che non riesce a mettere a valore il fenomeno della qualificazione dell'essere nel mondo nella modalità di uno smarrirsi che può portare anche ad altro rispetto a quello che in partenza era previsto, preordinato, annunciato dai portavoce della dogmatica ideologica che da più di quarant'anni segna di sé qualsiasi manifestazione del vivente, ad ogni grado della sua espressività.

Ritornare quindi sul valore del fare esperienza, mai pienamente inquadrabile e talmente indisciplinato da restare pure ostico agli apparati attualmente così sofisticati di controllo. Sarebbero qui da ricordare le significative pagine deleuziane, in un qualche modo realmente illuminanti, su quella che è diventata la “nostra” società, da indicarsi propriamente come “società del controllo”, con i suoi specifici “regimi di dominazione”.

Insomma, la posta in gioco è quella di una ricerca dell'allentamento che permetta di scoprire le finalità di tale controllo e quindi i nuovi modi dell'asservimento, rapidi, veloci, mobili, mutevoli e però, proprio in ciò, continui e incessanti, per riprendere ancora il filosofo francese: che consenta cioè di riarticolare la lista canettiana delle “vite mancate”, di un esistere che non porta da nessuna parte se non nei circuiti a rapida rotazione del consumo delle merci.

Riafferro però a titolo esemplificativo un filo più letterario per concludere queste annotazioni. Ho letto recentemente in un testo di Paolo Morelli una raffigurazione di Gianni Celati che lo coglie nel suo “aspetto allentato”, che un po' mi appartiene e che rilancio su piani di lettura in positivo del posizionarsi naturalmente eccentrico e in effetti “ciondolante” della soggettività un po' restia al controllo di cui sto scrivendo.

Potrei aggiungere il “camminare” di altri autori a me cari, da Robert Walser a Thomas Bernhard, per non ricordarne altri altrettanto essenziali, ma il pensiero va a L'ultimo a parlare, di Maurice Blanchot, laddove il saggista francese individua in Paul Celan quel movimento della poesia che cor-risponde al bisogno di parlare, di orientarsi, di capire dove ci si trova e dove si ha da andare perché una qualche realtà prenda forma: è, per riprendere alla lettera la riflessione celaniana, “un evento, un movimento, un cammino”, “il tentativo di ritrovare una direzione”.

Contro, controtempo, controcorrente – aggiungo – rispetto ai tanti pseudo-maestri che giungono incessantemente da terre di morte.

E l'allentamento, negli incontri che permettono l'aggrapparsi a spezzoni di realtà, lo trovo indicato proprio in quell'incamminarsi risoluto verso un “tu”, in quella ricerca di vie che possano condurre là dove tutto può essere differente: “il nome Ossip ti viene incontro, tu gli racconti / quel che già sa, lo prende, te lo prende, con mani, / tu gli stacchi il braccio dalla spalla, il destro, il sinistro, / attacchi i tuoi al posto loro, con mani, con dita, con linee, / – quanto divelto, si salda di nuovo, / ecco, prenditeli in pegno, / lui prende anche questo, e tu hai / di nuovo ciò che è tuo, ciò che era suo” (P. C., E' tutto diverso).