Alla larga dall'area di rigore e dalle sue truffe
Ubaldo Fadini

03.05.2021

Être de gauche c’est dabord penser le monde, puis son pays, puis ses proches, puis soi; être de droite c’est l’inverse  G. Deleuze

Sul “rigore” delle organizzazioni – o su quello che viene da esse così “spacciato” sotto forma “tossica” – molto ci sarebbe da dire: mi ha colpito ultimamente rileggere – a distanza di parecchi anni dalla prima volta – un passo di N. Luhmann nel quale si osserva come le “persone” non muoiano mai all'interno delle organizzazioni, salvo qualche raro “incidente” (e qui si potrebbe pensare anche alla “incidentologia” di P. Virilio).

Sono i ruoli e le funzioni che contano, più in là le “strutture” e non le vite vaganti, anche del sottoscritto, semplicemente interscambiabili. E a tutto questo si collega l'affaccendarsi senza sosta, la partecipazione ininterrotta a quella comunicazione istituita, organizzata, che sola sembra permetterci di presentarci/manifestarci anche quando in effetti, in essa, non si vive e non si pensa, in “carne e ossa”: ed ecco allora la processione ciarliera degli indifferenti, necessariamente tali, con i ritorni ripetuti di quel nulla di effettivamente singolare a cui ci si aggrappa in mille modi per integrarci, per rivestire la variabile dell'esistere – e le sue disattenzioni determinate – con degli apparentemente imprescindibili stati di fatto.

A proposito di questi ultimi. Ultimamente ho sostenuto che sia urgente delineare una sorta di ecologia del quotidiano all'altezza dello stravolgimento di segno complessivamente sociale che quest'ultimo sta evidenziando, in particolare oggi, nella crisi pandemica: appunto sempre e comunque all'altezza, in questa contingenza che stiamo vivendo, in quanto unica possibilità concreta (l'ecologia “politica”... del quotidiano) per ritrovare noi stessi in ciò che viene osservato e distinto al suo interno con fatica e approssimazione, distinto anche da chi sta osservando e che prova in ciò un brivido di rassicurante e inatteso protagonismo.

In tutto questo si delinea dunque una strategia minima di sopravvivenza, forse un po' pavida ma che garantisce qualche sprazzo di lucidità, ritagli di comprensione di ciò che sta accadendo – in definitiva: una possibilità di posizionamento. E' senz'altro certo che non sia sufficiente. Non è mai abbastanza, perché le domande sono sempre quelle che riguardano il “cosa c'è, cosa c'è stato?”, per dirla con A. Delfini, e le risposte non possono che rinviare in prima battuta alla “voglia pazza di scappare e prendere il treno”.

Se si tenta di vivere, scontrandosi con quel rigore delle organizzazioni che ci vuole morti-viventi (fino ad arrivare inevitabilmente al fondo del “processo” kafkiano: “ 'Come un cane'; e gli parve che la vergogna gli dovesse sopravvivere”), è importante ritornare, imparare di nuovo, a sentire, anche soltanto per scontrarci con qualcuno, con qualcosa. Il sentire è premessa pure indispensabile di un “delirio” intollerabile per i “rigoristi” di qualsiasi collocazione, di un “delirio” a un certo momento diretto (di diritto, per così dire...) verso la creazione di problemi “autentici”, verso quel pro-porre complicato, difficile da apprendere, nel quale consiste il nostro pensare e il nostro esistere.

Alla larga quindi... e ad esempio dai mezzi di comunicazione di “massa” che oggettivano con la consueta volgarità gli sconti da fine stagione dei bei tempi andati, con la loro “compiacenza inquietante” nei confronti dei tanti testimoni più o meno diretti del passato che fu ma comodamente assestati in prossimità del luogo comune imperante, che evidenziano da par loro gli smarcamenti opinabili dalla “destra” (figuriamoci....) e anche da certa “sinistra” (quella perennemente attardata e non si capisce però bene da che cosa), con il seguito delle osservazioni sibilanti e velenose provenienti a cascata ininterrotta dagli uffici del servizio devoto ai poteri dati e “diversi”.

Le incrinature e le crepe sugli assetti e sulle configurazioni delle soggettività “minori”, minoritarie, che ne derivano, da questo stare alla larga, si moltiplicano ma a me questa sembra essere in ogni caso l'unica condizione accettabile per tentare di ripartire dal confronto con ciò che dall'esterno può costringere a sentire e pensare differentemente. Ci sono alcune righe di R. Carver che voglio riproporre qui, a questo punto: “Sono ridotto a zero. E devo andare avanti così. Senza destino. Solo la prossima cosa che mi capita, e che significa qualsiasi cosa pensi che significhi. Mi tocca andare avanti per impulsi ed errori, come tutti del resto”. “Così succede alla gente quando comincia ad essere irrequieta: si infilano in una storia, fiduciosi che quella cambierà finalmente le cose. Mi viene voglia di uscire fuori e mettermi a gridare: 'Niente di tutto questo vale la pena!';. Ecco cosa vorrei che la gente sentisse”.

E allora più storie, sapendo ovviamente della destinazione finale, l'unica certa, ma niente destino, nessuna accettazione incondizionata del suo tracciato unidirezionale, di ciò che pretende di far valere una storia come l'unica. Soltanto così non si fa valere la “pena”, non le si dà il valore affermato e tradotto nel “rigore” delle organizzazioni. E poi, se si desidera ancora andare via dall'univoco imposto, da quei suoi costrutti che sembra non presentino screpolature, un buon supporto teorico può essere quel razionalismo “empirico e pluralista” che G. Deleuze ha visto in F. Chatelet, in grado di restituire l'apertura propria, il respiro ampio, della delineazione di una specie di geografia esistenziale degli incontri, delle relazioni, essenziale per lo stesso sviluppo cronologico delle storie, con le loro vicende, i loro casi, dai quali fa capolino il potenziale, meglio ancora: i potenziali di variazione che sono propri di qualsiasi materia trattabile o intrattabile, in effetti incontenibile.

A proposito di Deleuze e della “destra” e della “sinistra”, quindi ancora delle questioni del sentire, del percepire: “Se si comincia dal limite, ecco si è di sinistra... e in un certo modo si aspira... si capisce che sono quelli i problemi da risolvere”. Iniziamo dal limite, percepiamo, sentiamolo, per non rischiare di finire lì e ar/restarci.