Alessandro Pessoli (La Pittura 4)
Carmen Lorenzetti

21.05.2021

Parlare di pittura è anche parlare degli artisti, di coloro che mettono le mani in pasta, di coloro che la pittura la fanno e con essa si confrontano giorno per giorno. Noi critici non facciamo che girarci intorno come dei segugi, cercando di individuare l’odore della vita del quadro mentre si fa, quindi veniamo sempre dopo e cerchiamo di ricostruire tentativamente la storia di una vita. Con Alessandro Pessoli (Cervia, 1963) si parla già di un bel percorso, lungo tre decenni. Nasce nelle terre di Romagna dove probabilmente la luce dei mosaici ravennati e il gusto per la finzione, il paradosso, il surrealismo lieve o greve della narrazione felliniana costituiscono l’imprinting iniziale e indelebile. Poi arrivano Bologna e l’Accademia, il maestro Pozzati e gli amici artisti, il clima della Transavanguardia trionfante, quasi già maniera, e la predilezione per Cucchi e Clemente e oltralpe per Baselitz e Kiefer. E poi molte altre suggestioni. Ogni volta che leggo di lui o ascolto qualche sua intervista saltano fuori dei nuovi nomi come Picasso o la nuova scuola di Lipsia e Neo Rauch e “soprattutto Philip Guston: pittura carica di pathos in uno scheletro sintetico da cartoon” (intervista di Simone Menegoi a Pessoli in Ennesima, 2015).

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All’inizio lui insiste su Joseph Beuys, ma allora in Accademia faceva anche installazioni, qualche performance. Pierpaolo Campanini mi ricorda che in Accademia disegnava sempre. E in effetti per oltre un decennio alla fine ha fatto soprattutto disegni. Lo immagino fare degli schizzi veloci su tutto, scrivere degli appunti, usare anche diverse tecniche su fogli quadrettati come quelli mostrati per la prima volta ad Ennesima a Milano nel 2015: 1560 disegni fatti durante il servizio militare, tutti datati e catalogati, dove ciò che accadeva dentro e fuori di lui viene rapidamente tradotto in disegno: il problema degli immigrati, Pasolini, il sistema dell’arte e il suo opportunismo…

Questa è un’opera seminale, da cui deriverà tutto: l’immagine e la narrazione, il racconto del mondo, che deve essere fatto con freschezza e sincerità. L’artista si considera un “canale”, che metabolizza e restituisce storie ed emozioni nello spazio del quadro. L’immagine è la protagonista e deve contenere energia, questo è il segreto del linguaggio dell’artista, che si oppone pervicacemente all’immagine monotona e omologata dell’industria e della pubblicità. Ma questa è la funzione della pittura, una resistenza all’immagine convenzionale, l’utilizzo di un codice differente, che cresce nello scarto rispetto al regime del linguaggio imperante. E oggi più che mai ce n’è bisogno, oggi che viviamo nella perdita di una connessione con il reale, con la sua evidenza pulsante, della sua vita.

L’immagine oggi viene creata dal codice binario, non ha più nulla a che fare con la realtà, è pura simulazione, è il linguaggio della macchina. Rispetto a questo, sin dall’inizio in maniera spasmodica, sincera, appassionata Pessoli crea, per trovare una differenza che trae origine dal confronto con la tradizione pittorica, anche religiosa, spesso trae spunto dalla Crocefissione (è un elemento chiave, perché “potente” e che struttura il quadro) ma non solo. Ma sin dall’inizio come in un grande tritacarne è tutto il mondo delle immagini a passare attraverso la sua pittura: dai fumetti degli anni Trenta alle illustrazioni e narrazioni degli orrori della guerra, dal Simbolismo al graffitismo, dalla pubblicità alla segnaletica.

E’ il mondo insomma, che però viene trasfigurato dalla sua cifra stilistica, immediatamente riconoscibile, identica a se stessa, nonostante la sua crescita e il suo passaggio dai colori bruni e scuri dell’inizio degli anni ’90 fino all’inizio del 2000 a quelli lucenti, acidi e brillanti dopo il 2010, anno in cui va a vivere a Los Angeles. Dai grigi della contaminata Milano agli azzurri intensi di Los Angeles, dalla tradizione della pittura europea alla Pop Art americana e da tutto quel mondo che dalla moda passa per l’arte di strada e il kitsch. Fino alle depravazioni malinconiche e noir di James Kelly e Paul McCarthy, evidenti soprattutto nelle sue sculture, dei pupazzi sovraccarichi di segni e materiali diversi, sorta di maschere e di marionette in pausa dopo il racconto della commedia dell’arte che è la vita e come questa portano dei segni veri con tutti i suoi stracci multicolori.

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I quadri di Pessoli sono popolati da una sorta di animismo delle figure e degli oggetti: la figura principale, che domina lo spazio e lo struttura, allungandosi con arti sproporzionati spesso fino ai margini, infatti è riempita da app-endici, attraversata da segni, ravvivata da oggetti umanizzati, dove è forte il retaggio dell’infanzia, dei cartoon, dei disegni primitivi. L’immagine si deve muovere, portare ad un dinamismo visivo che affonda le sue radici nell’idea di narrazione temporale del Medioevo del Rinascimento per arrivare a noi, ciò lo porta a costruire animazioni con le sue opere a partire da Caligola (1999-2002). Infine si arriva ad una visione inaspettata e coinvolgente: infatti “la pittura proietta lo spettatore dentro lo spazio del dipinto, la scultura invece si proietta nello spazio intorno” (conversazione all’Accademia di Belle Arti di Bologna, 2021).

Si tratta di uno spazio quindi che dal punto di vista strutturale richiama il turbinio del Barocco, dal punto di vista degli elementi inaspettati, accostamenti che attivano “frizioni”, si riconnettono alle stranezze di Jeronimus Bosch, ma anche al flusso ininterrotto di immagini di cui siamo circondati. I colori acidi e squillanti richiamano quelli dei nostri schermi, dove un melting pot privo di qualsiasi barriera ci inonda costantemente. E così l’artista usa diversi codici e registri: l’espressionismo, l’iperrealismo, il fotografico, con inserzioni sempre più frequenti di “pezzi di realtà dell’immagine”. I quadri di Pessoli assomigliano sempre di più a ciò che ci circonda, rispecchiano la stessa atmosfera, sono lo specchio deformato e dirompente delle nostre immaginazioni dai sogni più zuccherosi agli incubi più oscuri della morte e della solitudine.

Ci deve essere infatti – a dispetto di tutto – una somiglianza tra lui e Francis Bacon di cui legge voracemente le interviste. Ma in fin dei conti lui si considera un “artista classico” (intervista alla Fondazione Maramotti del 2012) e le sue figure richiamano la storia dell’immagine tutta, sono come un Atlante della Memoria del “pathos umano”. Ed è così che i disegni di figure di Palazzo Vizzani a Bologna (personale: City of God, 2021) anticipano le ancor più classiche figure in mostra alla Anton Kern di Los Angeles (personale, 2021) e nella figura femminile del Destino ad esempio viene evocata la Sorgente di Ingres e ancora indietro la Venere Anadiomene. Ma questa è solo una parte della storia di quelle immagini.