Alcune riflessioni sul ruolo politico delle pratiche memetiche
Chiara Spaggiari

24.06.2021

Le immagini provenienti dal carcere di Abu Ghraib hanno reso evidenti alcune delle caratteristiche fondamentali del rapporto che come soggettività si è sviluppato in relazione ai media e alle rappresentazioni digitali. Ciò che più inquieta di queste immagini, come è spesso stato messo in luce, è la quotidianità e la familiarità con cui si sono approcciate alla registrazione fotografica, come modalità, gesto operativo del riconoscimento e della produzione, che ripropone certi schemi di azione e visione in relazione al dispositivo e al medium utilizzato. Cioè, citando Richard Grusin, queste immagini «ci rivelano il modo in cui le pratiche di coloro che ad Abu Ghraib facevano fotografie digitali, le caricavano su siti web e le mandavano per e-mail ad amici e parenti sono tutt’uno con le nostre pratiche quotidiane» (“Affetto”, medialità e Abu Ghraib, 2006). L’atto di riprendere la violenza ai danni degli altri si svela così come compresa entro la comune dinamica dell’intrattenimento.

Questo concetto appare ancor più chiaro se si pensa alla vicenda che ha reso Lynndie England al centro di una pratica memetica diffusasi nel 2004 a partire dal sito web inglese Bad Gas, che nella sezione “Doing a Lynndie” invitava gli utenti a riprodurre lo schema corporeo che la soldatessa metteva in mostra in una delle fotografie di Abu Ghraib. Riproducendo la sua posa fisica, di oppressione nei confronti dei detenuti, gli utenti erano sollecitati a “lynndiezzare” qualcuno, ponendolo, secondo l’idea dello scherzo goliardico, in una posizione umiliante, per poi scattare una fotografia della situazione e condividerla.

In questo modo, le fotografie di Abu Ghraib, scattate a partire da opere di messa in scena, vengono performate in un diverso contesto dagli utenti del sito, con lo scopo di ricavarne un’ulteriore e altra immagine: la trasformazione è quella di un’immagine che si fa gesto. In questo rovesciamento, l’attività̀ del gesto, che perde il senso del contesto in cui era posto, sembra far mutare l’orrore in humor.

Questa apparenza, tuttavia, si dimostra nella sua fallacia se ci si sofferma sul significato di tale gesto: riprodurre la posa di Lynddie da parte degli utenti del sito Bad Gas significa riproporre la stessa dinamica di potere messa in atto dalla soldatessa, e, tuttavia, non solo sui soggetti specifici dello scherno ma anche di Lynddie stessa. Stefka Hristova mette in luce con chiarezza i discorsi proposti dai media che danno ulteriormente credito a questa lettura (“Doing a Lynndie”: Iconography of a Gesture, 2013). Non solo la vicenda di Abu Ghraib veniva rappresentata come ad opera di qualche “mela marcia del sistema”, quando in realtà la connivenza della catena di comando è stata essenziale nella perpetrazione delle violenze e delle torture, ma il comportamento di Lynddie appare criticato come quello di “madre single, divorziata e promiscua”, vinta dalla propria sfrenatezza.

Eppur tuttavia occorre cercare di inquadrare l’azione degli utenti del sito Bad Gas: si osserva allora l’emergere di una ritualità gestuale che coinvolge su più piani il dispositivo fotografico e il suo medium, che nella ripetizione fisica e nella trasformazione umoristica cerca di esorcizzare l’inquietudine e il perturbante. Il cerchio, tuttavia, si chiude poiché le pratiche messe in atto da Lynndie ad Abu Ghraib, sono transitate da una quotidianità civile entro cui si esprimono le forme mediologiche dell’intrattenimento, al campo militare; e ancora, con la pratica degli utenti di Bad Gas, la ritualità gestuale militare è stata re-integrata nella dimensione civile. L’appartenenza ad un gruppo sociale e politico passa anche per il riconoscimento e l’adozione di schemi corporei, nonché di forme espressive e comunicative.

La vicenda del “Doing a Lynndie” rivela come la capacità di allontanare il contenuto violento attraverso i dispositivi mediali sembri passare per una sorta di costruzione romanzata dell’evento cui le fotografie ineriscono, producendo una continua ri-mediazione. La ripetizione di una tale gestualità e ritualità, tuttavia, se predisposta e confermata dalla relazione e dalle dinamiche mediologiche del potere non si risolve nella rielaborazione di un perturbante contenuto di violenza, quanto piuttosto si pone come una rimozione.

La costruzione di una realtà in cui si attuano senza impeti di resistenza atteggiamenti disciplinati, concorre a sancire e confermare una determinata partizione del sensibile, atteggiamenti di esclusione, confinamento ed oppressione. Oppure, laddove, come nella crisi odierna permanga una sensazione collettiva di inganno, la risposta irrazionale ad una necessità espressiva formale e gestuale frustrata si estremizza nella creazione di teorie del complotto e realtà alternative. Allora, l’affetto conturbante ed inquietante del contenuto di violenza trova sfogo del complottismo contemporaneo, nella necessità di credere alle fake news e nel ritenere le proprie opinioni scientifiche come valide.

Attraverso la spontanea creazione di reti sociali digitali, in cui gli utenti si scambiano informazioni, corroborano e riconoscono le vicendevoli visioni del mondo e dei sistemi di rappresentazione, si svolge ad oggi quello che Franciscu Sedda e Paolo Demuru chiamano “gioco simulacrale tra politica e popolo” (Social-ismo. Forme dell’espressione politica nell’era del populismo digitale, 2018). A partire dall’emergere del linguaggio televisivo è avvenuta, seguendo la trattazione dei due ricercatori, una riqualificazione del linguaggio politico che si è andato sempre più a imperniare su una sua semplificazione e “quotidianizzazione”, in modo da promuovere una valorizzazione politica “dell’expertise non-politico”.

Si è affermata una tendenza che cancella la distanza tra rappresentati e rappresentanti, in virtù di una condivisione di vizi, virtù, atteggiamenti quotidiani, utilizzo e reazioni ai media e alle immagini digitali. Il social-ismo, cui gli autori si riferiscono per denominare il populismo contemporaneo (vengono considerate soprattutto le pratiche comunicative di alcuni leaders come Salvini, Putin, Bolsonaro, da cui possono rintracciarsi tendenze sempre più diffuse nei discorsi della classe politica), porterebbe questa tendenza alle sue estreme conseguenze – così «i simulacri di contatto e con-fusione tra leaders e followers» fondano il proprio mimetismo reciproco sull’anonimizzazione. La politica assume allora le forme espressive dei social network, provocando una disintermediazione delle forme interattive in cui «la figurativizzazione del corpo e della quotidianità giocano un ruolo di primo piano».

Si configura chiaramente il lato oscuro dell’autenticità percepita in relazione alla “povertà” dell’immagine digitale e virale, per cui più bassa è la qualità del file, maggiormente sembra essere percepita come “vera”. Le rappresentazioni dei corpi in queste immagini, in questo contesto, vengono infatti considerate maggiormente “naturali” e “reali”, a seconda di quanto si diffondono e sono viste dagli utenti. L’immagine digitale, virale e memetica, in virtù della sua imperfezione, è il medium per antonomasia in grado di esibire l’ordinarietà e la banalità che i leader social-isti vogliono incarnare, affinchè gli elettori sul web possano identificarsi per una riconosciuta normalità. «I loro corpi contagiano: per il fatto di essere “non politici”», legittimati per la spreadability delle immagini che di quei corpi si fanno.

W. J. T. Mitchell nel 2011 pubblica Cloning Terror un testo che analizza attraverso l’approccio della cultura visuale, il flusso di immagini al centro della “guerra del terrore”, spiegando come le rappresentazioni visive ad opera dei media promuovessero l’idea stessa del contagio di una “malattia autoimmune” (tr. it., Filosofia del terrore. Dialoghi con J.Habermas e J. Derrida, 2002), invisibile – “il terrorismo” – che penetrava in sordina nella vita quotidiana del “popolo”, portando morte e sofferenza.

Il senso profondamente ambiguo del termine “popolo” si costituisce sul web, anche attraverso le più recenti pratiche social-iste e populiste, come «una totalità internamente differenziata, protezionisticamente separata da tutto il resto e la collezione di individualità sclerotizzate nel proprio io, monadi costrette a compiersi in sé senza mai poterlo veramente fare, si toccano e si alimentano a vicenda» (Sedda Demuru, cit., 2018).

La costruzione di immagini, pratiche e rituali entro cui le soggettività si possano riconoscere appartenenti ad una tale collettività indistinta, in cui tuttavia si riconosce la propria “normalità”, polarizza, schiera e definisce amici e nemici. Per questo «Sovrano è colui che dispone di shitstorm in rete» afferma Byung-Chul Han, citato dagli autori Sedda e Demuru. E allora, le shitstorms ripercorrono e mettono in campo le stesse dinamiche mediologiche che nel 2004 dipingevano immorali e dissolute le soldatesse americane, nonostante le pratiche affettive messe in atto in reazione all’utilizzo dei dispositivi visivi e tecnologici riproponesse null’altro che condivise e quotidiane modalità di relazione con l’alterità, le relative rappresentazioni e i meccanismi di registrazione e diffusione delle immagini.