A proposito del libro di Claudia Melli sul movimento antimanicomiale
Manlio Iofrida

08.10.2023

Claudia Melli che, alcuni anni fa, aveva pubblicato un volume di notevole interesse e di grande originalità (Corpi in gioco. Esperienze di gruppo fra vissuti e immagini in movimento, ETS, Pisa, 2015), sospeso fra antropologia, psichiatria e filosofia, fa ora uscire un asciutto libretto, Memorie sparpagliate a proposito del movimento antimanicomiale in Italia 1965-1978 (ETS, Pisa, 2023), che è in primo luogo dedicato ai temi enunciati nel titolo, ma, sotto traccia, è legato da fili solidi e molteplici al lavoro precedente. Scritto in uno stile sobrio e altamente sintetico, costruito come una serie di frammenti (“un collage in forma di quaderno”, p. 59), ma anche come un coro di voci eterogenee, eppure profondamente concordanti, il testo tratteggia (e il tratto è spesso punteggiato) una serie assai ricca di temi politici, antropologici, filosofici in un modo che, come diceva un autore di cui più sotto si parlerà, richiede “lettori intelligenti”.

In primo luogo, si tratta di memorie di una persona che ha partecipato attivamente al movimento antimanicomiale e che ci dà testimonianza diretta di come esso si è sviluppato, in diversi momenti e diverse aree geografiche, negli anni ’60-’70, da Cividale del Friuli al Sud. Un leitmotiv è la critica (più che giustificata) della mitizzazione del personaggio di Basaglia e dell’identificazione dell’intero movimento con la sua azione e, addirittura, la sua persona: la messa in discussione dei manicomi e della psichiatria tradizionale fu invece, come documenta bene l’autrice, il frutto del convergere di persone e movimenti fra loro diversi, che coinvolsero l’intero territorio nazionale e che spesso si mossero indipendentemente l’uno rispetto all’altro. Se caratteristiche comuni e elementi di raccordo ci furono, essi (e qui cominciamo ad accostarci all’aspetto storico-politico del testo) sono da individuare, più che nei vertici del movimento, alla base di esso: il troppo nominato Basaglia, e Maccagnani, Antonucci, Tommasini, Piro e tanti altri, spesso caduti nell’oblio, che questo libro ha il merito di riportare alla luce, poterono compiere un’azione di trasformazione profonda delle istituzioni psichiatriche perché seppero dar voce ad istanze di democrazia partecipativa di cui i mondi sociali (e geograficamente e storicamente plurali) che li circondavano erano saturi: di continuo, nella narrazione dell’autrice, vediamo comparire le assemblee, la voglia che c’era, in ampi strati della popolazione, prima ancora che in medici e politici, di partecipare, di andare a vedere con i propri occhi cosa succedeva nei manicomi; ovunque compare l’idea che il manicomio e i malati di mente non sono una cerchia specifica e, per così dire, specialistica, della società, ma che essi investono e in essi si investe, l’intero mondo sociale: nella questione della malattia mentale vengono a visibilità aspetti e caratteristiche della vita sociale che riguardano ognuno di noi. Non si trattava di ridurre semplicisticamente e dogmaticamente tale questione a un problema politico, di negare in tutto e per tutto la malattia mentale, di pensare di poterla risolvere abolendo lo sfruttamento del capitalismo: piuttosto ci si rendeva conto che la condizione del malato di mente e il manicomio investono problemi che riguardano tutta l’esistenza umana e che da diverse soluzioni di quei problemi possono sorgere nuovi modi di vita, nuovi modi di stare insieme.

In questo modo, esce quasi subito allo scoperto uno degli aspetti fondamentali, anche se non esplicitati, del libro: questo è un libro sugli anni ’60, sul grande sommovimento che attraversò la società italiana e quelle occidentali in quegli anni, sull’istanza di democrazia, non come astratta rappresentanza, ma come reale partecipazione, che era così sentita nelle nostre società in quel periodo; non sorprende di trovare documentato come queste istanze si riallacciassero alla Costituzione e alla Resistenza – a cominciare dal fatto che molti dei protagonisti del movimento erano stati partigiani. Melli più volte fa rimarcare come questo rifiorire dell’utopia della Liberazione e della Resistenza non coincidesse con la realtà dei partiti politici, ma li attraversasse: a seconda dei luoghi e dei contesti, un democristiano poteva essere più aperto e sensibile di un comunista a queste istanze di rinnovamento; e, per parlare di quella che comunque era la forza di sinistra largamente egemone, il PCI, esso era spesso diviso fra favorevoli e contrari. Questo conferma che il complesso del movimento andava molto al di là degli schemi politici tradizionali presenti in campo, marxismo compreso: per un lato, non può non cessare di sorprendere, oggi, vedere come, ad esempio, Sergio Piro, nel Sud, trovasse fondamentale inserire le sue ricerche di antropologia dell’espressione nel contesto dell’eredità di Marx (cfr. p. 46), per l’altro, quel che emerge dal libro nel suo complesso è che quella stagione, politicamente e culturalmente, andava molto oltre la ripetizione del pensiero marxista e dei suoi aspetti ottocenteschi.

Sugli eventi minuti, talvolta tragici, talvolta sorprendentemente felici e positivi che la Melli riporta alla luce non mi soffermerò, anche perché le mie competenze nel campo specifico sono scarse; voglio invece ora dedicarmi a esplicitare alcuni dei fili filosofici, storici e antropologici del suo lavoro, a cui accennavo in apertura. Innanzitutto, in che senso questo libro che l’autrice presenta, con molta modestia, come “memorie sparpagliate”, è invece un libro di storia nel suo senso più pieno? Il seguente esergo del capitolo finale, ripreso da Chandra Candiani, che è quasi in chiusura, fornisce subito una risposta:

Da piccola, facevo un gioco: vedere quante più cose insignificanti ci fossero in una stanza o in una via o sul tram, proprio le più non viste, le più niente di speciale, e accoglierle tutte nello sguardo. (p. 55)

Un nome viene in mente in modo prepotente leggendo queste righe: è quello di Siegfried Kracauer, che conclude il suo capolavoro sulla storia sottolineando come fare vera storia è dar voce ai senza nome (S. Kracauer, Prima delle cose ultime, tr. it. Marietti, Genova, 1985, pp. 170-1 e passim). In fondo, il libro di Claudia Melli è un collage di citazioni in cui la soggettività dell’autrice quasi scompare e, un po’, ovunque, risorgono storie di chi è stato rimosso nell’oblio: come è il caso tragico del paziente morto nel 1965, legato al letto di contenzione nell’ospedale psichiatrico di Perugia; era “un evento come tanti, all’interno dell’istituzione manicomiale, passati di solito inosservati”, ma questa volta, grazie al direttore Francesco Sediari e al Consiglio Provinciale esso diventa la matrice di una storia nuova, di nuove soggettività e consapevolezze (pp.32-3).

L’idea di Kracauer, come è noto, è che la storia è realismo perché, come la fotografia e il film, ci restituisce gli aspetti nascosti e rimossi del reale e ci mette in contatto col magma incandescente della vita, ma soprattutto coi suoi aspetti più elementari, semplici, banali, quotidiani (un’idea che egli riprendeva fra l’altro da Auerbach). Ma anche il tema dello “sparpagliamento”, se seguiamo il filo della lezione di questo filosofo ( e più in generale francofortese), acquista un senso assai preciso: non è con un ordine logico e sistematico, non è attraverso categorie astratte che sussumono violentemente le singolarità sotto il concetto, che si può dar voce a ciò costituisce la sostanza della vita; l’esposizione frammentaria è la veste espressiva necessaria per un’operazione che si vuole di salvezza di ciò che è più umile e più fragile.

A questo punto ci stiamo avvicinando al centro più pulsante del libro, che è anche quello che lo connette al libro precedente, Corpi in gioco; lo facciamo riportando un’ulteriore citazione, che è di un brano di un fotoromanzo scritto da una comunità di pazienti e di cittadini “sani”, da una di quelle “matte” assemblee che la Melli rievoca; si tratta della formula della guarigione scritta dal paziente-artista Kocis:

La guarigione è semplice e misteriosa ...

esattamente quanto è semplice e misteriosa la malattia .. con la malattia si manifesta l’essenza nascosta della vita ... e quindi anche quell’essenza che è il principio della guarigione ...

convincersi di questo è già cominciare a manifestare ... l’essenza della propria vita e quindi ...

è già l'inizio della guarigione. (p. 48).

È nel processo espressivo di questo paziente e del suo gruppo, e non nell’astratto teorizzare di uno psichiatra o di un filosofo, che emerge l’alta verità secondo cui i confini fra salute e malattia sono labili, e nella malattia si manifesta l’essenza della vita; il carattere della vita è quella di avere come titolari delle singolarità irriducibili che pure sono in un rapporto reciproco: a livello espressivo come a livello istituzionale si tratta di costruire una comunità che sia rispettosa di questa pluralità e che dia loro la possibilità non di esser soppresse o alienate, ma di svilupparsi e potenziarsi reciprocamente. È qui che si innesta il rapporto del discorso della Melli con l’antropologia dell’espressione (esisteva fin dal 1959, e fu fondata a Verona, una Società internazionale di psicopatologia dell’espressione) che si è concentrata sui modi espressivi vari, e soprattutto non linguistici e non logici, con cui si riesce a dar voce a questi aspetti vitali, ai momenti tragici “anormali” della vita: per essi l’espressione sregolata (p. 49) diventa necessaria, bisogna forzare gli schemi dei linguaggi precostituiti.

Questo progetto va ben oltre la questione dell’espressione: quel che è in gioco è la possibilità di inventare dei nuovi modi di stare insieme, delle nuove forme di vita. Di nuovo tocchiamo con mano come attraverso la questione psichiatrica si tocchino temi ben più fondamentali: quello di poter creare collettività nuove, di poter trasformare profondamente i soggetti. E di passaggio noteremo che, attraverso questa convergenza fra tematiche francofortesi e tematiche fenomenologiche e esistenziali, le istanze marxiste venivano inserite in una dimensione più ampia, che era quella della grande cultura del ‘900.

E infatti, dietro tutto questo, c’è anche un discorso ontologico, filosofico e anche scientifico molto preciso; nel caso di Piro, compare molto per tempo quel riferimento alla teoria dei sistemi, a una teoria della complessità del vivente che negli anni ‘80 e ‘90 costituirà un orizzonte fondamentale anche per la ricerca filosofica, soprattutto fenomenologica. Citerò ancora un passaggio:

[…] la questione necessaria perché ogni essere vivente si muova nello spazio che gli è dato, si alimenti e si riproduca. è [che] si percepisca come singolarità. Singolarità compatta eppure in osmosi intensa e modulabile con l'ambiente. Ma questo è ancor più vero sul piano psicologico: nel momento che io mi rendessi conto, semmai fosse possibile, della non appartenenza di tutto ciò che mi appartiene, della provenienza dal campo sociale di tutto quello che mi attraversa, di ciò che io ho in comune con gli altri senza nemmeno rendermi conto, la mia interiorità risulterebbe totalmente spappolata e non sarebbe possibile più un'azione o un sentimento. Perché ci sia azione o sentimento devo illudermi di essere una singolarità anche sul piano psicologico: un soggetto. (p. 53).

Subito dopo, l’autrice ricorda come sulla base della fisica quantistica o anche delle società polifasiche si possa pensare a “modalità di coscienza diverse” (laddove le nostre società occidentali riconoscono come legittima solo la razionalità, ibidem); e che la caratteristica di esse non sia un banale misticismo, un’idea totalitaria dell’assorbimento dell’individuo nel tutto sociale, ma la capacità di combinare fusione e separazione.

Come si vede, dalle pieghe del libro emergono frammenti di una riflessione filosofica degli anni ‘60-‘70 che si connetteva e si mescolava al movimento dal basso che si sviluppava in quegli anni e che è di piena attualità ancora oggi. Ma voglio concludere ancora sul tema della storia, poiché proprio nel finale c’è un ultimo, denso cenno in questo senso che merita di essere esplicitato. Il libro ha messo a tema – nella sua forma e nei suoi contenuti - lo sparpagliamento, il gomitolo, il ghirigoro (il disegno che è in copertina sotto il titolo è stato vergato in collaborazione con l’autrice), il frammento e il coro plurale delle voci; ci ha fatto vedere in sottotraccia una ontologia della vita che è sottesa fra scuola di Francoforte e fenomenologia novecentesca (Kracauer, Merleau-Ponty, Canguilhem); esso conclude (capitolo 3: Lineare/policentrico) con un’esplicita applicazione di questi temi alla questione della storia. Cosa succede, dice l’autrice, se questo schema di una vita complessa, plurale, legata da insiemi parziali e mobili, capace di generare nuovi intrecci e nuove comunità, lo applichiamo al movimento della storia? Otteniamo un disegno che non è la semplice linearità, ma nemmeno la circolarità, bensì il loro incrocio; una storia dei senza nome, una storia dal basso, delle popolazioni e delle assemblee è una storia di collettività in trasformazione che è insieme lineare e policentrica (p. 58); è qui che lo sparpagliamento si fa anche, con discrezione e cautela, come è tipico di tutto questo libro, filosofia della storia:

Da qualche parte, non so più dove, ho letto queste parole: ciò che si sparpaglia si estende in maniera confusionaria ma non sparisce, resta lì.

O forse si muove nel tempo, e si rimodella in relazione alle circostanze diverse. (ibidem)

Che è come dire che, se sappiamo dare voce in modo adeguato a ciò che è più profondo e vitale e elementare nella storia, possiamo far sì che esso sia ereditato: cioè che abbia un futuro che non sia di semplice ripetizione, ma di rinnovamento e rinascimento.

Proprio a partire da questa riflessione di filosofia della storia, vorrei concludere queste note sparse su un libro profondo e complesso, rispetto al quale esse sono molto insufficienti, con un tentativo di chiarimento politico: poiché ai lettori non sarà sfuggito che, da parte a parte, questo è un libro politico e di testimonianza civile su un’epoca storica che abbiamo alle spalle, gli anni ’60-’70. Nel riportare alla luce i movimenti e i senza nome che segnarono quegli anni, nel dar voce e nel riscoprire le formule anche filosoficamente complesse e sottili che emersero in vasti settori della società, la sobrietà severa, la sintesi asciutta a cui ha voluto attenersi l’autrice ha un significato, anch’esso politico, ben preciso: essa ci dice che qui non si tratta di nostalgia, di compianto del buon tempo andato; la nostra società, il nostro mondo sono profondamente diversi da quegli anni e nessuna conclusione frettolosa è possibile sulla applicabilità immediata, oggi, di certe formule. E tuttavia, tutto quello a cui Claudia Melli ridà voce ci interroga e, per così dire, riesplode nel nostro presente: quegli eventi, quelle persone, quelle lotte, quell’epoca ci sono state e ancora oggi ci dicono di certe possibilità dell’umano; nulla di ciò che è stato muore mai veramente, e la possibilità che esso possa essere matrice di un nuovo futuro non è mai spenta. Concludo perciò richiamando un testo celebre di Merleau-Ponty, uno degli autori che, dal mio, assai limitato, punto di vista, meglio può inquadrare il complesso del lavoro di Claudia Melli:

Husserl ha adoperato la bella parola Stiftung - fondazione - per indicare, in primo luogo, l'illimitata fecondità di ogni presente che, proprio perché è singolare e passa, non potrà mai cessare di esser stato e quindi di essere universalmente - ma soprattutto quella dei prodotti della cultura che continuano a valere dopo la loro apparizione e aprono un campo di ricerche in cui rivivono perpetuamente (Segni, p. 86).