Non starò certo a ricostruire tutto quello che dall’opera di Gramsci – dai Quaderni e non solo – si può ricavare a proposito dei debiti dell’autore verso Croce; una volta accertato che la sua reinterpretazione del marxismo è legata in modo essenziale ad alcuni aspetti del pensiero del filosofo napoletano, e in particolare al suo storicismo, rimarrebbe infatti il problema di capire cosa oggi sia attuale di tale operazione gramsciana, Preferisco piuttosto limitarmi a alcuni aspetti del rapporto di Gramsci con Croce come emergono da uno dei testi apparentemente più negativi nei suoi confronti, e cioè da quella Questione Meridionale in cui il filosofo napoletano e Giustino Fortunato sono definiti come “le due più grandi figure della reazione italiana” (A. Gramsci, La questione meridionale, Editori Riuniti, Roma, 1966, p. 150). La scelta di questo testo come riferimento sarà utile anche per chiarire un altro aspetto importante della rivitalizzazione del pensiero di Croce da mettere in opera oggi: essa non può essere realizzata prescindendo dalla presa in carico del carattere borghese della sua posizione, della messa a fuoco degli aspetti conservatori della sua posizione, come se il mutare di alcune prospettive politiche del Novecento potessero abolire la necessità della presa in carico di questi aspetti.
Come è noto, nella Questione Meridionale, Gramsci, con un’operazione filosofico-politica tanto teoricamente potente quanto stilisticamente efficace, prende in esame non solo e non tanto l’idealismo, ma il complesso della cultura italiana fra fine secolo e primi vent’anni del ‘900 dal punto di vista del suo rapporto con la questione meridionale, che diventa una chiave di lettura generale che va oltre anche alle questioni specifiche della storia italiana. Il carattere spiccatamente originale della sua posizione, anche all’interno del marxismo, è dato dalla piena valorizzazione del mondo e della questione contadina: in nessun momento, in questo specifico testo, troviamo in Gramsci l’idea che la terra e i contadini debbano essere subordinati all’industria e agli operai: il problema del Sud (e più in generale il problema delle campagna, che non è solo meridionale) non si risolve “elevando” la sua “inferiorità” al “progresso” industriale dell’Italia settentrionale, subordinando il millenario passato delle plebi del Sud al “futuro” rappresentato dallo sviluppo dell’industria settentrionale. Piuttosto, si tratta di aiutare la società meridionale a costituirsi come soggetto autonomo di storia, mantenendo i tratti fondamentali della sua identità culturale, permettendole (con la collaborazione delle capacità tecniche e economiche settentrionali) di far, come si direbbe oggi, “crescere liberamente la sua differenza”.
In questo quadro si dispiega l’originalissima rilettura gramsciana della storia degli intellettuali italiani nel periodo postunitario: già l’interpretazione sia della figura di Salvemini che del sindacalismo rivoluzionario viene fatta a partire dalla centralità della questione contadina e meridionale. Il sindacalismo rivoluzionario, come movimento alternativo al blocco giolittiano che cementava industriali del Nord e socialismo riformista delle classi popolari settentrionali, dà voce e cerca di dare spazio e forza politica alla questione della terra e a una fetta di proletariato che porta sulle spalle l’eredità dell’ oppressione e dello sfruttamento più antichi. Qui non può interessarci il lampo di luce vivissima che su Sorel e sul sorellismo non solo italiano getta lo sguardo tagliente, insieme storico e teorico, di Gramsci, connettendo quei fenomeni politici e intellettuali alla questione della terra; concentriamoci sul ruolo che egli assegna a Croce e Fortunato come collaboratori e complici di Giolitti, come traditori di fatto della società meridionale e, soprattutto, delle sue classi popolari.
Il perno di tutto il discorso di Gramsci, come è noto, è il ruolo degli intellettuali: egli ne distingue due tipi profondamente differenti: quello tipico della società avanzata e industrializzata settentrionale è un intellettuale la cui cultura è essenzialmente tecnico-scientifica; l’intellettuale meridionale è invece ancora legato al mondo preindustriale e a una società prevalentemente agricola e ha nello Stato, nella professione ecclesiastica, negli insegnanti e nelle professioni liberali i suoi rappresentanti fondamentali. Da questa classe di intellettuali Gramsci distingue il gruppo dei grandi intellettuali, che ne costituiscono l’élite dirigente. Ora, conformemente al complesso della sua posizione, non è pensabile che Gramsci ritenga che il tipo dell’intellettuale meridionale – che rappresenta uno strato di passato, che è tipico di una società “arretrata” dal punto di vista dello sviluppo capitalistico – possa essere sostituito dall’intellettuale tecnico nel nome del progresso: al “vecchio” tipo di intellettuale è infatti affidata, fra l’altro, la custodia dell’identità culturale, delle tradizioni popolari, della continuità storica di una comunità; in una parola, all’intellettuale tipico della società preindustriale è affidato il compito di coltivare e sviluppare la storia e il senso storico – e tutti questi valori per Gramsci sono imprescindibili.
Si sa che, nello schema sociologico che l’autore elabora, in una società come quella meridionale, il ceto degli intellettuali si trova a mediare fra il mondo contadino e quello dei grandi proprietari. In un mondo in cui la realtà fondamentale – in senso reale e in senso ideale – è ancora la terra e l’agricoltura il modo di produzione dominante, gli intellettuali hanno la scelta fra farsi voce delle classi subalterne contadine, sottraendole alla subordinazione e allo sfruttamento, o di vendersi alla classe dei latifondisti, in cambio di posti politici e di prebende varie; nello stesso senso, hanno la scelta fra il favorire un’alleanza fra operai del Nord e contadini del Sud oppure fra industriali del Nord e grandi proprietari del Sud: è nota l’opzione che ha prevalso, sotto la direzione decisiva di grandi intellettuali come Croce e Fortunato.
Eppure, la spietata analisi di Gramsci, la sua presa di distanza netta sul piano politico, denuncia un legame e una valorizzazione della filosofia di Croce che rimangono profondi: cerchiamo di capire perché.
Se è vero che è solo in una società come quella meridionale si può radicare un intellettuale che prenda in carico la questione, così vitale e costitutiva per ogni comunità, della memoria, della tradizione e della storia; se è vero, più in generale, che fra il rapporto con la terra e il rapporto con la storia c’è un legame essenziale; allora, è chiaro che lo storicismo crociano stesso, sotto la crosta del suo idealismo, ha un rapporto col materiale e col terrestre molto profondo. Croce, certo, ha tradito le masse contadine del Sud e, con loro, il complesso della società meridionale, condannandole a una subordinazione e a un’omologazione alle prospettive del Nord; ma tutto il suo rapporto con la terra e con le masse contadine si riduce a questo? La sua formazione giovanile sui teatri napoletani – espressione di una delle più vive culture popolari, subalterne che si siano date – non va letta alla luce di un cordone ombelicale che con quel mondo non può essere tagliato? E la centralità del momento estetico, con gli aspetti del primato del percettivo e del corporeo che abbiamo messo in evidenza, non va vista anch’essa in questo quadro? E tutto il lavoro di rilancio di Vico, filosofo dei bestioni e della loro immane corporeità, degli inizi materiali e feroci; di Vico la cui idea di diritto è profondamente legata al profondo rapporto con la terra che ebbe la società romana; di Vico rivalutatore della plebe romana e primo esponente, nell’ambito del regno di Napoli, della grande rilettura settecentesca del fenomeno della feudalità – tutti questi aspetti dell’opera di Vico non risuonano ancora all’interno dell’opera di Croce?
Si capisce, allora, che Auerbach (grande ammiratore, fra l’altro, della “teatralità” tipica della cultura mediterranea e italiana – cfr. Il fattore personale nell’ascendente di san Francesco d’Assisi, tr. it. in E. Auerbach, San Francesco Dante Vico e altri saggi di filologia romanza, Editori Riuniti, Roma, 1987, spec. p. 19 e sgg.) potesse sviluppare il crocianesimo nel senso di un realismo della vita quotidiana e della valorizzazione del sensibile, del creaturale, del più vitale più elementare; si capisce che De Martino – via Gramsci – potesse ritrovare in Croce i fili per sviluppare la sua filosofia/antropologia del “materialismo dell’utilizzabile” come chiave generale per dar voce alle classi subalterne. Alcune scelte di Croce, in senso filosofico e politico, erano andate in tutt’altra direzione, ma le radici più profonde del suo pensiero, i semi più fecondi della sua opera non sono quelli che sarebbero stati fatti sbocciare da Auerbach, da De Martino, dallo stesso Antonio Gramsci?
Qualche (del tutto provvisoria) conclusione
È chiaro, innanzitutto, che tutto quel che precede non rappresenta che un insieme di ipotesi di lavoro che ben altrimenti dovranno essere documentate, articolate e approfondite. Riassumendo in breve il percorso che abbiamo compiuto, ricorderei innanzitutto quei “caratteri originali” della civiltà italiana dei secoli XIII-XVI che, per ora, ne costituiscono il culmine: scoperta e invenzione insieme della natura, rapporto col sensibile, col percettivo col corporeo; rapporto profondissimo con la storia, per il peso determinante della civiltà romana che permane in quella italiana, ma anche per le capacità di sintetizzare quest’ultima con la tradizione romanza, cristiana e medioevale. Entrambi questi aspetti sono legati a una posizione geografica che fa dell’Italia, fin dai tempi della latinità, un luogo di crogiolo delle diversità. In una parola, rapporto con la natura, rapporto con la storia, rapporto con l’alterità e la differenza costituiscono i caratteri più essenziali dell’identità italiana.
Non possiamo allora dire che aspetti fondamentali della filosofia di Croce si radicano e danno voce a queste caratteristiche? Almeno in parte, tarpato e nascosto sotto la crosta della concettualità idealistica, il rapporto col sensibile, col terrestre, col naturale riemerge in quella filosofia crociana dei distinti uno dei cui caratteri più importanti è quello di essere profondamente antinichilistica: la filosofia di Croce nel suo complesso è un grande sì alla vita. Anche per quanto riguarda la storia, mi sembra che sia ovvio che si possa dir lo stesso. Quanto alla differenza, le letture innovative che Auerbach e De Martino hanno fatto della filosofia di Croce ci hanno permesso di vedere che ricchezza contenesse la sua tematica di una filosofia che si radica nel concreto e nell’assolutamente individuale (che è poi di nuovo un significato del suo storicismo). Su queste basi, l’esigenza di riannodare i fili della riflessione contemporanea con quella di Croce, la necessità di riaprire un dialogo con la sua filosofia mi sembra ben motivata.
Ora, prima di concludere, sulla scia di quanto ho detto più sopra, vorrei fare ancora qualche breve considerazione sul nesso fra terra, mondo contadino, vita e storia che è emerso dalle straordinarie pagine della Questione meridionale di Gramsci. Se è vero che è in una società che è legata alla terra e al mondo contadino che si radica l’attitudine storica ( e qui, in frotta e disordinatamente, si presentano alla mente, sulla scia di Vico, i nomi di Muratori e di Michelet, di di Marc Bloch e di Lucien Febvre, di Bergson e del Péguy) e che è da quel serbatoio, su quel “fondamento non fondante” che gli intellettuali attingono per costruire il “continente” storia, ne derivano due questioni che pongo qui solo per lasciarle aperte a ulteriori approfondimenti:
Oggi,
con la questione ecologica, con la crisi radicale del modello
industrialista, la Terra è tornata ad essere centrale, non più
mero oggetto di sfruttamento e “fondamento” passivo, ma soggetto
paritario, rispetto all’uomo, nella costruzione di una civiltà e
di un modo di produzione che permetta la sopravvivenza di entrambi.
È chiaro che questa nuova centralità della Terra e anche del mondo
contadino (che trova espressioni politiche e culturali esplicite e
consapevoli, ad esempio nel movimento di Terra
Madre di Carlo Petrini)
ripropone l’attualità di quella prima forma di modernizzazione
che abbiamo visto culminare nella nostra cultura rinascimentale,
molto meno “artificialista” e nemica della Terra di quelle
successive.
Se è vero, come dice Gramsci, che nel mondo industriale viene privilegiato l’intellettuale di tipo tecnico-scientifico, che tende ad elidere la storia (e mi pare che il tempo gli abbia dato ragione), ne deriva che il concetto di storia è da legare meno unilateralmente al momento del divenire, della libertà assoluta, del facere umano prometeico; il rapporto fra storia e natura è meno negativo di come è stato configurato nel XIX secolo, sulla base di una interpretazione semplificante della filosofia idealistica, in cui il tema della natura è in realtà – in varie forme, a seconda che si prenda Fichte o Hegel o Schelling – assai più presente di quanto sembri a prima vista. Ne consegue che il compito, che abbiamo oggi, di riformulare il concetto di storia a partire dalla nuova centralità che ha il concetto di natura, può ricavare dalla tradizione moderna molto più di quanto si possa essere pensato: esiste una linea “coperta”, nascosta, ma profonda della modernità in cui “storia” non significa solo teleologia, progresso, gerarchizzazione dei tempi, dei popoli e delle culture, unificazione omogeneizzante nello schema occidentale, ma coesistenza, pluralità di linee, ricorso e ripetizione, spazio, rapporto essenziale con la natura. Se le ipotesi che abbiamo prospettato hanno una qualche validità, anche il ritornare sul pensiero di Croce ci fornisce, di questo fatto, un buon esempio.