4. Auerbach e Croce
Manlio Iofrida

07.01.2024

Per quanto riguarda Auerbach, dobbiamo innanzitutto ricordare – cosa che nelle discussioni sempre vive che si fanno oggi della sua opera viene un po’ sottaciuta – che la posizione di Croce fu per lui un punto di riferimento fondamentale: col filosofo napoletano egli intrattenne un dialogo significativo e fecondo di sviluppi, sebbene un po’ unilaterale e, complessivamente, non adeguatamente ricambiato e apprezzato dal suo interlocutore e maestro. Che in realtà egli andasse verso una rielaborazione personale delle categorie crociane che andavano molto oltre i loro limiti occidentali, dato il collegamento che egli compiva con filoni assai diversi della tradizione tedesca, non c’è dubbio: ma non è questo, come del resto nel caso di De Martino e di Gramsci, il punto che mi interessa sottolineare: piuttosto voglio documentare come da aspetti fondamentali della filosofia di Croce Auerbach abbia potuto ricavare dei tasselli di una concezione che è pienamente attuale oggi.

Per ricostruire la vicenda Auerbach – Croce, dobbiamo prendere le mosse da Dante: è dalla recensione di Croce di Dante poeta del mondo terreno che Auerbach pubblica nel 1929 e dalle non poco burbere critiche che il maestro rivolge al suo discepolo che dobbiamo partire. In effetti, Croce vide in alcune posizioni di Auerbach un attacco radicale alla sua estetica. Il filologo tedesco, infatti, affermava: “Per Dante […] lo scopo dell'arte è la più alta bellezza visibile e l'ordine dell'essere; la via ad esso passa per il sapere, che descrive e dimostra l'unità dell'ordine, ed è esso stesso il più alto sapere; perciò per lui la bellezza non si distingue dalla verità, e noi non abbiamo nessun motivo di sentirci superiori a tale concezione, che è molto più sicura e unitariamente concreta delle teorie moderne di filosofia dell'arte, e sarebbe quanto mai deplorevole che un'unità cosi perfetta per intelletto e intuizione non avesse più per noi alcuna validità.” (Dante poeta del mondo terreno, tr. it. in E. Auerbach, Studi su Dantei, tr. it. Feltrinelli, Milano, 1979, p. 69). In proposito, Croce fu assai severo: quella che Auerbach proponeva era una posizione erronea e arretrata, che poneva in discussione l’acquisizione fondamentale dell’estetica novecentesca (leggi: crociana), cioè l’autonomia dell’arte dalla teologia come dalla filosofia (La critica, XXVII, 1929, pp. 213-5).

Auerbach fu ben lungi dal sottovalutare questa critica, poiché egli sentiva la propria visione legata all’ aspetto sensibile e terrestre e ne coglieva l’importanza, la novità e la centralità: l’accusa di intellettualismo fu certamente per lui un colpo severo. È per questo che la risposta non venne immediata, ma fu attentamente meditata e comportò non un rinnegamento da parte del filologo tedesco delle sue posizioni, ma un loro decisivo approfondimento. Esso si sostanziò nella stesura del saggio Figura del 1939. Come si sviluppa la risposta di Auerbach a Croce? Egli rimaneva sul terreno del carattere sensibile dell’estetica, non poneva in dubbio l’autonomia del primo momento crociano della conoscenza, ma articolava in modo assai più fruttuoso il rapporto col momento intellettuale. La sostanza della mossa auerbachiana era questa: ha ben ragione Croce a insistere sul primo momento dell’autonomia della conoscenza, ma può questo essere ridotto all’intuizione, alla mera conoscenza del singolare? Questa riduzione comportava difficoltà decisive nel configurare il rapporto fra momento sensibile e momento espressivo e linguistico, di modo che Croce non riusciva a superare il dualismo di sensibile e logos, di intuizione e concetto o momento linguistico, il secondo essendo visto come l’altra faccia del primo, il suo immediato e unico sbocco. Introducendo il concetto di figura, Auerbach, invece, faceva un passo avanti decisivo proprio nell’ovviare a questa difficoltà: non si trattava con la poesia, di Dante e in generale, e con l’estetica in generale, di avere a che fare con un primo grado di sensibile assoluto e individuale che subito trovava la sua espressione nel logico linguistico, poiché il sensibile, in quanto figurale, non è mera puntualità, mero qui e ora, ma ha già un suo grado di idealizzazione e organizzazione , un suo peculiare logos: le figure sono l’autoorganizzarsi del sensibile fuori dalla sussunzione sotto il concetto, una sua universalizzazione orizzontale che apre il suoi qui e ora alla ripetizione e, insieme, al passato e al futuro.

Auerbach, come tanta filosofia tedesca, batteva la strada del giudizio teleologico della III critica kantiana e della nuova articolazione antiastratta e anticoncettuale che essa proponeva fra sensibilità e universalità. Ma, prima di tale lezione, Auerbach aveva trovato negli universali fantastici di Vico il battistrada per quest’operazione: in questo modo, la sua eresia rispetto a Croce non riguardava solo Dante, ma anche Vico, poiché proprio gli universali fantastici erano stati uno dei punti in cui, nel suo capolavoro sul filosofo della Scienza Nuova, si erano appuntate le critiche di Croce (cfr. B. Croce, La filosofia di Giambattista Vico, Laterza, Bari, 1922, cap. IV). D’altra parte, non era solo guardando al passato che Auerbach compiva la sua operazione di correzione sostanziale delle categorie crociane: questo terreno di una conoscenza fenomenica prima da cui scaturiva un logos pretetico era quello della fenomenologia, che nei suoi anni marburghesi Auerbach aveva per così dire respirato (di recente, non a caso, è stato anche fatto un convincente parallelo fra la sua posizione e quella di Merleau-Ponty: cfr. E. Fabietti, Dentro l’Europa. Husserl, Benjamin, Merleau-Ponty, in L. Curreri (a cura di), L’Europa vista da Istanbul.Mimesis” (1946) e la ricostruzione intellettuale di Erich Auerbach, luca sossella edizioni, Novara, 2014, pp. 33 e ss.).

Partendo da un contatto strettissimo con Croce, da un corpo a corpo con le sue categorie e senza rompere con esse in modo distruttivo, agendo per così dire dall’interno del crocianesimo, Auerbach lo apriva decisamente a un contesto europeo, correggendo gli aspetti più idealistici della sua posizione: in particolare, il figurale aveva un rapporto molto più positivo, molto meno contraddittorio col corporeo e con il sensibile – ed è noto che tutta la Commedia viene interpretata dal filologo tedesco sul filo di questa centralità del terrestre e del corporeo.

Altrettanto noto è come il saggio sul figurale fosse stato da Auerbach stesso sentito come una premessa fondamentale per la composizione del suo capolavoro, Mimesis: una volta sciolta secondo il modello criptofenomenologico del figurale la questione di un’articolazione non dualistica fra universale e singolare, una volta collocato l’universale nel terrestre, si apriva la strada per la grande indagine sul “realismo”, che avrebbe conosciuto il suo culmine nel vitale, corporeo e quotidiano di Woolf, Proust e Joyce. Ed è noto quanto Auerbach concepisse quel suo libro come un’ulteriore risposta a Croce e ne attendesse con interesse, se non con ansia, il giudizio (che, esplicitamente, non venne mai).

Ma anche dal punto di vista dell’idea di storia e storicismo possiamo valutare l’operazione condotta da Auerbach: poiché storicista e erede di quella tradizione, e quindi anche di Croce, egli si è sempre dichiarato. Ma dalla correzione sopra illustrata anche queste idee risultavano trasformate. Un sistematico confronto fra la lettura che Auerbach dà di Vico nei non pochi saggi a lui dedicati e l’interpretazione crociana non è stato fatto e non è questo il luogo di farlo. Quel che conta, per il discorso che sto qui perseguendo, è vedere come alla rivalutazione del sensibile che avviene col figurale, in campo estetico, conferendogli lo statuto della percezione e del pretetico fenomenologici, corrisponda, nel campo della storia, una riformulazione dell’universale che, certamente sotto l’influenza del Benjamin del Dramma barocco, lo articola con la visione antisistematica del frammento. Come esplicitamente teorizzerà negli Epilegomena, il frammento sostituisce la trasparenza del concetto presentandosi come un’autorganizzazione del sensibile a partire da se stesso.

Per un lato, ciò implicava di nuovo, anti-idealisticamente, rivendicare la rugosità del sensibile, la sua irriducibilità a concetti unici, politi e trasparenti; per l’altro, sul piano della storia, significava rivendicare una visione in cui discontinuità, parzialità, poliedricità diventavano centrali. La spazialità, che già avevamo visto ben presente nello storicismo crociano, acquistava un rilievo e un valore, rispetto alla temporalità, molto maggiori. Se si pensa ai venti capitoli di Mimesis, si vede bene come in essi la linea “progressiva” sia incrociata da una linea spaziale e della ripetizione (i ricorsi vichiani erano molto più accettati da Auerbach di fatto, anche se a parole criticati) e come si abbiano venti finestre parallele e contemporanee su un corso storico che comunque conserva una sua linearità. La figura, dal punto di vista del decorso temporale, apre il campo al momento della ripetizione: lo struttura come una serie di riprese che non a caso hanno una delle loro conclusioni e uno dei loro culmini nel riferimento al proustiano tempo ritrovato. Per non parlare della peculiare forma “apocalittica” che ha il discorso di Auerbach, che fa riemergere alla fine una vita semplice, quotidiana, elementare che fin dall’inizio era il basamento profondo di tutto il discorso.

Infine, per valutare l’operazione condotta da Auerbach sul crocianesimo, anche in vista di quel che dirò poi su De Martino e Gramsci, è la questione del rapporto intellettuali - masse che deve essere brevemente esaminata. Al di là delle posizioni non sempre coerenti di Croce su questo punto, la immediatezza con cui nel suo sistema si passa dal primo al secondo grado dello spirito lascia poco spazio all’irriducibilità del popolare, esattamente come lo fa col sensibile; fin da Figura, e poi con la sua ultima opera sulla letteratura latina, Auerbach configurava invece la letteratura come l’utopia di una democrazia in cui alto e basso si nutrono vicendevolmente, senza mai esaurirsi reciprocamente. L’intera letteratura occidentale a partire dall’inizio dell’impero romano era spiegata come la delineazione di un rapporto reciproco fra l’autore e il lettore che faceva di essa la matrice di una comunità in cui eguaglianza e diversità si accrescevano reciprocamente e in cui l’élite non era mai fissa, ma si ricreava continuamente a partire dal suo rapporto con il basso: il suo culmine escatologico era dato dalle prospettive egualitarie che si affermavano nel XX secolo e dal farsi massa dell’ élite borghese, per cui Auerbach poteva concludere che l’Europa, che egli vedeva, nel 1958, in dissoluzione, “ha predisposto le forme della vita comune degli uomini sul pianeta” (E. Auerbach, Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità latina e nel Medioevo, tr. it. Feltrinelli, Milano, 2007, p. 305). Evidente, da questo punto di vista, era il convergere del filologo tedesco, da questo punto di vista politico e sociologico, col modello bachtiniano come espresso nel libro su Rabelais.

Anche in base a queste ultime considerazioni, dunque, Auerbach, partendo dalle posizioni di Croce, ne operava uno sviluppo che le apriva a posizioni meno conservatrici e assai più ricollegabili con quegli aspetti della cultura del XX secolo che oggi sentiamo come più vive: al liberalismo borghese di Croce si sostituiva un socialismo cristianeggiante e ereticale, razionalista e romantico al tempo stesso, e fortemente impegnato sul tema della differenza, con chiare riprese di un’apocalittica ebraica laicizzata che da’ sostanza al rapporto breve, ma intenso che Auerbach ebbe con Walter Benjamin.

[continua]