Zona critica
Marco Pacini
09.06.2024
Il testo che presentiamo è tratto dall'introduzione al volume Zona critica . Esercizi di futuro tra ecologia e tecnologia di Marco Pacini edito da Meltemi.


Un difficile inizio



Ci conosciamo tanto poco che parecchi credono di stare per morire quando stanno bene; e parecchi credono di stare bene quando sono vicini a morire, perché non sentono la febbre vicina o l’ascesso pronto a formarsi.
Pascal, Pensieri

Quando Fontanelle aveva novantanove anni e il medico gli chiese che disturbi avesse, l’anzianissimo decrepito rispose: “Nessuno, nessuno; solo… una certa difficoltà di essere”. È forse la migliore definizione della realtà radicale, di ciò che veramente c’è, della Vita: essere come difficoltà.
Ortega y Gasset, Il tema del nostro tempo


A chi importa dell’uomo, in fondo, se non ai suoi “detrattori”? A tutti quelli che hanno in antipatia il suo autocompiacimento di specie? A chi si concentra sul dark side del suo straordinario progresso e dominio?

Non sono forse le sparute ma agguerrite pattuglie di antiumanisti, antispecisti, ecologisti più o meno “profondi”, critici severi dell’homo deus tecnologico, nemici giurati del principio antropico…, le sole a prendere sul serio la salvezza?

Un compito non facile, beninteso, nel deserto culturale, immaginativo, cognitivo, di una tarda modernità impregnata di una “normalità” scaduta in cui sudditi e sovrani, alla fine connessi, si attardano a celebrare i riti dello sviluppo. Senza curarsi dei rifiuti alla fine della festa, né delle trappole disseminate lungo i percorsi del determinismo tecnologico. E men che meno di tutti i conspecifici che non possono nemmeno definirsi sudditi, essendo esclusi anche dal raschiamento del fondo del barile e dalle promesse salvifiche del neuro-tecno-capitalismo.

Non sono forse gli esemplari più “normali” della specie H.S. gli autentici “umanisti”? I soli a perseguire-proseguire un progetto umano che sembra via via rivelarsi come un paradossale rovesciamento dello scientismo-illuminismo in un desiderio inconfessato di collasso?

Chi cerca esseri umani troverà acrobati”, per dirla con Sloterdijk1. E ci vorrà un’acrobazia anche per obbedire all’imperativo di reinventarsi “diversamente umanisti”.

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Salvezza. Ma la salvezza di chi? O di che cosa? Ecco un primo ostacolo nel nostro incespicare lungo i reticoli della Zona critica: le parole. Così come accade a transizione, sostenibilità, intelligenza artificiale…, anche la parola salvezza non sfugge alle regole di un marketing semantico che ne oscura il senso, la pertinenza, per assicurare a noi Moderni2 l’illusione di una permanenza.

Non c’è un “pianeta da salvare” dalla nostra ingordigia, né un’anima dal castigo divino. L’oggetto della salvezza è in primo luogo una specie, la nostra. Anche, e soprattutto, per chi sembra avere più a cuore le altre. Anche, e soprattutto, per chi invocherebbe un castigo almeno mondano da infliggere ai Moderni, alla loro hybris, all’“umanismo” che ha scambiato la “civiltà” per l’umanità (c’è un prodotto più genuinamente occidentale dell’umanismo?).

Ma per quanto lo si detronizzi, lo si decentri, o lo si metamorfizzi con il resto del vivente, accogliendo quei saperi “altri” che l’etnologia indaga da oltre un secolo, per l’uomo (occidentale, ma non solo) la domanda delle domande riguarda sé stesso, la propria natura, il proprio posto nel mondo che ha scoperto non essere più suo; il proprio destino. Un destino su cui ci si può interrogare in termini di civiltà o di specie, a seconda che ci si collochi all’interno delle vecchie dinamiche e classi sociali, o di una nuova “classe ecologica” auspicata da Bruno Latour nel suo ultimo manifesto-testamento3; a seconda che si professi la fede tecno-soluzionista o che si osservino in controluce i progressi e i benefici delle tecnologie per coglierne anche i rischi che un numero crescente dei loro designer chiama da tempo “esistenziali”.

In definitiva: dobbiamo sbarazzarci dell’umanismo per muoverci nella Zona critica? Forse sì, se ne interpretiamo gli esiti sotto il segno del dominio, dello sfruttamento, di quell’“oblio dell’essere” heideggeriano che oggi potremmo attualizzare come “dimenticanza della Terra”. Tuttavia, anche dopo aver decretato che non siamo i “padroni dell’ente” – come ha fatto Martin Heidegger in quello che probabilmente è il più importante manifesto antiumanista del Novecento4 – non ci ritroviamo forse nei panni di “pastori dell’essere”, secondo una delle espressioni più note del filosofo della Foresta Nera?

Anche gli animali non umani possiedono una cultura, come la scienza va scoprendo da tempo e come il biologo Carl Safina racconta in un bellissimo viaggio tra capodogli, scimpanzé e are macao5. Ma a quale antispecista verrebbe in mente di chiedere a questi con-viventi di dedicarsi alla “pastorizia” dell’essere, alla cura delle specie e della loro casa comune, all’ascolto e alla custodia della physis? Quell’essere che nel percorso teoretico dello stesso “antiumanista” Heidegger (secondo un’interpretazione forse non prevalente, ma che qui faccio mia) non è altro che la physis, appunto: la natura prima del suo camuffamento interessato in res extensa, prima che il pensiero occidentale la riducesse a ente manipolabile, dominabile, a “fondo” a disposizione del soggetto umano.

La contrapposizione umanismo-antiumanismo può essere equivoca, fuorviante, deresponsabilizzante, per cercare nuovi e inauditi modi di abitare la Zona critica che costituisce lo spazio e il tempo della tarda modernità per la nostra e molte altre specie. L’antiumanismo di Heidegger, per dire, non si rivela in realtà un “iper-umanismo” figlio di una concezione che colloca l’uomo in un rapporto di differenza ontologica, e non di specie o di genere, rispetto agli altri animali?

In un dialogo a distanza con Clive Hamilton, Bruno Latour si pone il problema dell’abbandono di ogni forma di umanismo, ammettendo che la tentazione è forte, ora che tutte le forme di vita sembrano aver imboccato la stessa direzione, la stessa china, al seguito di quell’unica forma di vita che si è autoproclamata sapiens e che una volta raggiunta la terra promessa della modernità sembra in preda a una freudiana pulsione di morte.

Ma sarebbe una vigliaccata – osserva l’antropologo-filosofo francese scomparso nel 2022 – abbandonare l’antropocentrismo proprio nel momento in cui gli umani modernizzati, per numero, per le loro ingiustizie, per la loro espansione universale cominciano a gravare sulle altre forme di vita al punto da valere, secondo certi calcoli, come agenti di una sesta estinzione. Come osserva sdegnato Clive Hamilton, non è certo questo il momento per gli umani di rifiutare il fardello che la loro presenza multiforme fa pesare su tutti gli altri viventi. Forse ha ragione chi critica il termine di “antropocene”, fatto sta che segna esattamente l’obiettivo da raggiungere nel momento in cui si comprende che abbracciare l’antiumanismo sarebbe una fuga in avanti, un altro modo, per Atlante, di abbandonare la missione di cui si è fatto carico per incoscienza. Non può disfarsi di questo schiacciante fardello con una semplice scrollata di spalle – Atlas shrugged all over again? Se il mito di Atlante ha ancora un senso è piuttosto quello di togliere il peso che alcuni popoli fanno gravare su altri.6

Nel percorso, non sempre agevole, attraverso il pensiero di Latour, queste semplici parole fanno piazza pulita di molte altre più “sofisticate” radicalizzazioni antiumaniste e antispeciste. Si tratta di una filosofia morale basata sul “principio responsabilità”, su “un’etica per la civiltà tecnologica”7. E dovrebbe essere del tutto ovvio che questa nuova centralità attribuita ad anthropos non mette affatto in discussione la filosofia col martello che ha abbattuto quella “vecchia”. Non ricolloca l’uomo sul sedile del cocchiere. Si tratta al contrario di un “umanismo di servizio”, utilitarista se si vuole, in nome di un “vita tua, vita mea” che è il solo modo per abitare nella Zona critica: in con-dominio.

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Siamo immersi in nuvole tecno-sociali, nuotiamo liberi nei saperi orizzontali e condivisi, ma inciampiamo in detriti culturali e cognitivi che pensavamo di aver seppellito per sempre grazie al “progresso”. Ci immaginiamo protesi verso spazi di vita green e smart, ma viviamo ancora nel tempo e nello spazio della grande accelerazione estrattiva, della crescente complessità, dell’accumulo e dello spreco, del neocolonialismo-discarica grazie al quale ci approvvigioniamo di materia prima per le nostre futuribili economie “immateriali”. Ma noi Moderni siamo fatti, anzi siamo nati così: protesi verso un altrove immaginato come un’infinita dispensa. Un altrove che siamo anche capaci di amare in modo disinteressato, tuttavia; finché non bussa o preme.

La Zona critica è lo spazio-tempo delle vite altrui (umane e non umane) che assediano la dimora dei Moderni, ma anche della vita propria, a cui la tecnologia garantirà un upgrade in termini di qualità ed estensione, a patto che non si vada troppo per il sottile – alzando paletti bioetici – sul limite oltre il quale il beneficio sconfina nello “spaesamento”, in uno sfratto del senso in nome dell’inevitabilità del progresso.

In un breve saggio di inizio secolo Peter Sloterdijk avvertiva che dopo le tre umiliazioni freudiane al narcisismo antropologico8

già si annunciano due ospiti ancora più spaesanti, che promettono di gettare fuori definitivamente l’uomo dalla sua casa: da un lato la ferita ecologica dimostra che gli uomini delle culture calde da lungo tempo misconoscono e distruggono i sistemi-ambiente complessi, che non sono capaci né di comprendere né tanto meno di preservare Infine, va considerata una ferita neurobiologica, che proviene dall’alleanza tra genetica, bionica e robotica, che fa sì che le manifestazioni più intime dell’esistenza umana, come la creatività, l’amore e la libertà di scegliere, sprofondino in una palude satura di fuochi fatui, fatta cioè di tecnologie riflessive, terapie e giochi di potere.9

In questo passo già si prefigurano l’alfa e l’omega di un’indagine sulla Zona critica della modernità matura. In termini di “ferite”. Ma anche di “trend impersonali” – come l’autore specifica poco più avanti – che si impongono come qualcosa di irresistibile, “al di là di ogni rifiuto o adesione”, come qualcosa che in tempi più antichi veniva descritto nei termini del destinale. E qui ci imbattiamo in una seconda domanda cruciale nel nostro procedere a tentoni: è inevitabile? O più precisamente: sono inevitabili come un destino il benessere eco-incompatibile e l’“ultima” tecnologia10 la cui essenza è l’imprevedibile?

La domanda viene aggirata dai Moderni con la sostenibilità sul fronte ecologico e con il soluzionismo su quello tecnologico. Fino quando sarà possibile, posto che lo “sviluppo sostenibile” si rivela sempre di più (come vedremo) una favola ambientalista e il soluzionismo una favola tecnologica confezionata da Big-tech?

E se, forse, non siamo in grado di guidare la mano del nostro destino, non dovremmo rinunciare a sorvegliarlo”11.

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Questa dovrebbe essere un’introduzione. Ma a che cosa? Come posso mostrarvi la mia casa se all’interno delle sue mura mi sento smarrito? Se sono le stesse mura a incombere come possibile minaccia, piuttosto che a garantire protezione. È un difficile inizio. Non mi resta che procedere a tentoni nella Zona critica, passo dopo passo, provando a “tracciare la rotta”, per dirla ancora con Latour, al di fuori di un’infosfera che contiene per lo più merce deteriorata, usurata dal Novecento, anche se il contenitore quasi di giorno in giorno si aggiorna, ci incanta con le meraviglie delle sue innovazioni, del suo design.

Non ci resta che provare ad attuare piccoli, quotidiani, sabotaggi culturali. Per dare un senso allo smarrimento e da quel senso ritrovare il bandolo della matassa, compito necessario e urgente, a patto che si sappia dove cercare. Lo sappiamo? No. O non ancora. Annaspiamo di crisi in crisi, di emergenza in emergenza, affidandoci ai rispettivi “specialisti”, confidando nei loro saperi cunicolari, nell’invisibilità dell’unica autentica crisi, quella del pensiero, “che dipende [anche] dalla separazione e dalla frammentazione delle conoscenze, la cui riunificazione è considerata impossibile, rendendo quindi unilaterale, incompleta e di parte ogni considerazione relativa alla società, alla storia e alle crisi medesime”12.

Non molto tempo prima che mettessi mano a questo libro, uno storico e i curatori di un dizionario inglese hanno proposto di incorporare i prefissi “poli” e “perma” alla parola crisi. Il trasferimento sul piano lessicale del senso comune rispetto alla pluralità dei fronti di crisi del nostro tempo e alla loro permanenza non sembra tuttavia fornire gli strumenti più adeguati a elaborare un’“ontologia del presente” che ci aiuti a individuare con più precisione e consapevolezza la linea di faglia sulla quale siamo affacciati. La parte di umanità che si è autoproclamata il tutto (l’Occidente globale neuro-tecno-capitalista) non può che pensare in termini di problema-soluzione, attingendo agli strumenti del progresso tecnologico-economico. Ma la crisi si rivela un habitat, piuttosto che un problema, o una somma di problemi: una Zona critica che non è più (o non solo) il biofilm che accoglie e perimetra i viventi, ma anche il tempo in cui viviamo. Un tempo in cui le soluzioni – politiche, economiche, hi-tech – possono far parte del problema.

Sarà allora indispensabile procedere verso un’ecologia della mente13 sulla via tracciata da Gregory Bateson, la cui grande lezione trans-disciplinare mi sembra – a più di mezzo secolo di distanza – una delle più lucide per reimparare a pensare nella Zona critica, abbandonando le logiche strumentali, lineari, ormai patetiche e antiche, del problem solving. Per guardare in faccia la complessità, le interrelazioni, e agire coerentemente con la natura sistemica del mondo.

Non è facile naturalmente, come lo stesso Bateson ci ha ammonito. Noi Moderni tendiamo a vivere per accumulo, per massimizzazioni (economiche, tecnologiche, consumistiche, politiche…) ed è precisamente questo habitus che ha reso la tarda modernità una Zona critica, mentre politici, economisti, tecnocrati, gigacapitalisti (ma in fin dei conti con la complicità di tutti noi persi nelle beatitudini della Rete) pensano ancora in termini di “crisi” da superare di volta in volta – con gli stessi strumenti che le hanno provocate – per rimettersi sulla carreggiata giusta: quella del “progresso”.

Non è facile. La Zona critica è una finis austriae. Ci si può sentire come Franz Ferdinand Trotta, protagonista de La cripta dei cappuccini, ultimo capolavoro di Joseph Roth. Come nella Vienna di Franz gli avvenimenti possono prendere una piega inaspettata. E a me, a noi Moderni coinquilini della Zona critica, non resta che porci la domanda del protagonista che chiude il romanzo: “Dove dovrei andare adesso io, un Trotta?”. Con la differenza che non c’è più un “dove”, se l’Impero di Trotta è diventato il mondo.

Si procede a tentoni. Come farò nelle pagine che seguono, per provare a maturare (o addirittura trasmettere) la consapevolezza di vivere nell’epoca di un’entropia che non è più, o non solo, un fenomeno fisico; nell’epoca delle conseguenze impreviste, delle “esternalità negative”; nell’epoca di nuove alienazioni tecno-indotte; del logos sostituibile; nell’epoca in cui non possiamo nemmeno permetterci di essere antiumanisti. Nella Zona critica.


1 P. Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, Milano 2010, p. 19.

2 In queste pagine l’uso della parola Moderni è debitore, in via prioritaria, al pensiero di Bruno Latour. I “Moderni” sono i figli della grande separazione natura/cultura, quelli che hanno imposto al resto dei viventi una loro ontologia fondata sul dominio, sull’astrazione del “globale”, sulla negazione di ogni ibridazione che costituisce tutto ciò che è terrestre. Ma in senso più ristretto – e per gli scopi che qui perseguo – i Moderni sono quella porzione di umanità strana (weird) che il biologo evolutivo Joseph Henrich ha tradotto in un efficace ancorché riduttivo acronimo: W.E.I.R.D., appunto (Western, Educated, Industrialized, Rich, Democratic).

3 B. Latour, N. Schultz, Facciamoci sentire! Manifesto per una nuova ecologia, Einaudi, Torino 2023.

4 Cfr. M. Heidegger, Lettera sull’“umanismo” [1947], a cura di F. Volpi, Adelphi, Milano 1995.

5 Cfr. C. Safina, Animali non umani, Adelphi, Milano 2022.

6 B. Latour, op. cit., pp. 126-127.

7 Cfr. H. Jonas, Il principio responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica, Einaudi, Torino 2009.

8 La tesi freudiana è nota, ma qui la ricordo brevemente. In un saggio del 1917 apparso sulla rivista viennese “Imago” con il titolo Una difficoltà della psicoanalisi, Freud ritorna sul mito di Narciso. Al narcisismo del genere umano – sostiene il padre della psicoanalisi – la scienza moderna ha inferto tre gravi umiliazioni: 1) a metà del Cinquecento Niccolò Copernico scardina il sistema tolemaico, in virtù del quale l’uomo si credeva il signore dell’universo (umiliazione cosmologica); 2) dopo Copernico, Charles Darwin rovescia la concezione antropocentrica, togliendo all’uomo l’illusione di un’alterità rispetto al regno animale (umiliazione biologica); 3) lo stesso Freud, con la scoperta dell’inconscio, mostra che l’attività psichica non coincide o non si esaurisce nella coscienza. L’io “non è padrone a casa di sé stesso” (umiliazione psicologica).

Cfr. P. Sloterdijk, L’offesa delle macchine, in Id., Non siamo ancora stati salvati, Bompiani, Milano 2004.

9 Ivi, p. 273.

10 Cfr. P. Domingos, L’algoritmo definitivo. La macchina che impara da sola e il futuro del nostro mondo, tr. di A. Migliori, Bollati Boringhieri, Torino 2016.

11 G. Anders, L’uomo è antiquato, vol. I: Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Boringhieri, Torino 2007, p. 17.

12 E. Morin, Svegliamoci!, Mimesis, Milano-Udine 2022, p. 47.

13 Cfr. G. Bateson, Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1977.



© Marco Pacini, Zona critica, Meltemi 2024