Wim Wenders e l’atto trasformativo
Chiara Simonigh
18.06.2022


Prefazione
Guardare, vedere, forse osservare.
Wim Wenders e l’atto trasformativo



Non importa ciò che stai guardando,
ma ciò che riesci a vedere.
Henry David Thoreau


Noi, a ogni film,
vediamo anche per gli altri.
È vero.
È un atto di grande responsabilità.
Wim Wenders


Se puoi guardare, vedi.
Se puoi vedere, osserva.
José Saramago


Il 9 e 10 novembre 1989, mentre tutto il mondo guarda la caduta del muro di Berlino nelle immagini televisive o stampate sui giornali e alcuni ne rivedono il poetico presagio ne Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987), l’autore di questo cult movie ne riceve notizia frammentaria via telefono e fax nel deserto australiano, dove sta realizzando le riprese di Fino alla fine del mondo (Bis ans Ende der Welt, 1991). Nelle pagine di questo libro, Wim Wenders scrive che, nonostante abbia disperatamente tentato di vedere in diretta almeno alcune di quelle immagini, sicuramente l’assistere a quei fatti epocali tramite la televisione o le fotografie giornalistiche avrebbe comportato una partecipazione meno intensa di quella che di fatto ha vissuto1.

Un paradosso solo apparente per un cineasta e un fotografo, ossia per un artista visivo che fa delle immagini il proprio sentire, pensare e agire in rapporto al mondo.

Da allora, in un arco temporale piuttosto breve se paragonato ad altri grandi mutamenti culturali della storia umana, la mediazione operata dalle immagini nel rapporto col mondo è divenuta, come sappiamo, un bisogno imprescindibile ma non necessariamente un processo radicato nella sensibilità e nel pensiero.

Ogni porzione di spazio e di tempo dell’universo, accessibile ai nostri dispositivi tecnici, è stata ormai scansionata e mostrata in una moltitudine di immagini. Con la moltiplicazione delle tecnologie, dei codici e dei contenuti iconici, nonché dei produttori e dei consumatori di immagini, abbiamo raggiunto una rappresentazione mai così chiara, istantanea ed esaustiva.

L’aumento della quantità di immagini ha determinato, tuttavia, la loro irrilevanza qualitativa e la loro perdita di senso: abbiamo già guardato tutto, non c’è più nulla da guardare. L’estenuazione percettiva ha comportato, come aveva avvertito Marshall McLuhan, l’atrofia, l’anestesia: non c’è più nulla da guardare, perché non riusciamo a vedere qualcosa e perché siamo incapaci di osservare veramente ciò che guardiamo.

In preda a un’ostinata sopravvalutazione della nostra sensibilità e intelligenza percettive e a una sorta di hybris visuale e iconica, cerchiamo dunque ancora immagini, tentando forse di vedere e talora anche di osservare.

La nostra società delle immagini non è ancora divenuta una società del vedere e dell’osservare.

È questa una delle sfide del nostro tempo, dall’avvento della riproducibilità tecnica delle immagini sino alla loro digitalizzazione e circolazione nella rete mondiale.

Wim Wenders è stato tra gli artisti visivi che, con una coscienza rara di cosa possano essere la visione e l’osservazione, ha raccolto questa sfida, invitandoci a superare il semplice guardare attraverso i suoi film, le sue fotografie e anche i suoi libri di saggistica.

L’intera sua opera può essere definita come una disciplina riflessiva e autoriflessiva sul potenziale e sul limite della percezione e dell’immagine e sulle loro complesse e concrete implicazioni per la vita individuale e sociale.

L’atto di vedere, edito nel 1992, è forse destinato a rimanere tra i suoi più espliciti e forti incitamenti (verbali) a muovere il nostro sguardo oltre quell’incoscienza percettiva, le cui conseguenze sociali, culturali e politiche sono state nel frattempo amplificate dall’aumento esponenziale delle pratiche iconiche nel mondo.

Come si legge nelle pagine successive, il vedere è un atto di portata estetica, cognitiva e politica:

Il vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare in modo latente con la verità. Molto più del pensiero, nel quale invece ci smarriamo più facilmente allontanandoci dal reale. Per me, vedere significa sempre immergersi nel mondo; pensare, invece, prenderne le distanze.2

A partire da questa definizione, che sintetizza il suo manifesto artistico, la sua tesi filosofica e la sua morale civile, l’autore condivide con il lettore/spettatore dubbi, domande, tentativi, ricerche, incertezze, stupori sulla visione e sull’immagine nella cultura e nella società contemporanee.

L’invito all’atto del vedere si realizza così in questo volume, attraversando di continuo l’intreccio di flussi percettivi, riflessivi, creativi e di vita di Wenders, nonché percorrendo insieme all’artista il mondo, fra Germania, Francia, Stati Uniti, Giappone, Australia, grosso modo dal 1982 al 1992.

Un decennio cruciale, questo, per la visione nel mondo e del mondo, e per la comparsa e la diffusione di immagini nuove, di grande impatto politico, sociale e culturale: le immagini trasmesse dalle videocamere con mirino installate sui missili durante la Guerra in Kuwait (1990-1991), sconcertantemente simili a quelle dei videogiochi; le immagini delle videocamere di sorveglianza, sempre più diffuse e colme di implicazioni sociali e politiche; le immagini legate alle nanotecnologie, alle ecografie tridimensionali, al neuroimaging e ai loro vasti effetti scientifici e culturali; le immagini delle prime fotocamere e videocamere digitali portatili, legate alla corsa all’hd e all’affermarsi definitivo del personal computer, come pure all’istituzione formale, nel 1991, del world wide web.

Nello scenario plurale e fluido dell’iconosfera globale dell’ultimo scorcio del xx secolo, mentre si rinnovano, specie fra artisti e intellettuali, le reazioni estreme di apocalittici e integrati, Wenders si impegna, in particolare con questo volume, a cogliere le dialettiche culturali di evoluzione e involuzione, continuità e discontinuità nei processi estetici, culturali e politici.

Inizia con l’esaminare il decorso di quella “malattia delle immagini” che poco dopo, nel 1995, José Saramago avrebbe definito in Cecità tramite dialoghi assai prossimi a quelli di Fino alla fine del mondo: “Penso che siamo già morti, siamo ciechi perché siamo morti, oppure, se preferisci che te lo dica diversamente, siamo morti perché siamo ciechi. […] Ciechi che vedono, Ciechi che, pur guardando, non vedono. […] Siamo talmente lontani dal mondo che fra poco cominceremo a non saper più chi siamo”.

Nel film di Wenders, utopico tanto quanto il romanzo di Saramago, la cecità, intesa come malattia dell’anima, è sanata dalla tecnica e dalla parola. A dire di una fiducia metastorica nella possibilità di autodeterminazione di cui l’essere umano dispone anche in virtù degli strumenti espressivi e cognitivi, come l’autore spiega nelle pagine successive: “In principio c’era la parola. E non ritengo che un giorno si dirà: ‘E alla fine ci fu l’immagine’”.

L’immagine non avrà l’ultima parola. Si tratta di una posizione in controtendenza rispetto alla retorica che è prevalsa con l’avvento della digitalizzazione e che tuttora domina come ulteriore sintomo dell’epidemica patologia percettiva.

Non è in ogni caso l’immagine la causa immanente di questa patologia visiva quanto il suo improprio uso a opera dei nostri inconsapevoli occhi.

Come la lingua di Esopo, come ogni tecnica e conoscenza, le immagini tecnologiche possono offrirci il meglio o il peggio.

Un eccesso del guardare può e deve essere compensato tanto dall’impiego equilibrato delle altre facoltà percettive – e leggiamo anche in questo libro dell’importanza culturale, sociale e politica che secondo Wenders pure la musica può assumere nell’epoca contemporanea –, quanto da una ricerca che sviluppi una maggiore consapevolezza sulle funzioni delle immagini e trasformi il guardare in autentico atto del vedere e sperabilmente dell’osservare.

L’estenuazione del guardare determinata dalla digitalizzazione impone dunque un mutamento di paradigma che per l’artista tedesco si traduce in una ricerca a tutto campo volta a coniugare la pratica artistica con la riflessione teorica al fine di porre in relazione le dimensioni fondamentali dell’atto del vedere, ossia “l’immergersi nel mondo”, il rapporto con la “verità” e la “responsabilità”, rispettivamente con le funzioni estetiche, cognitive e politiche dell’immagine.

Non è un caso se, a partire dal decennio in cui viene pubblicato questo libro, lo sviluppo dell’immagine digitale e di internet si correla alla nascita di studi transdisciplinari, come i visual culture studies in area angloamericana e la Bildwissenschaft in Germania, che indagano la complessità dei processi di produzione e di ricezione nel flusso globale della cultura visiva, introducendo concetti inediti, tra i quali la visione come fenomeno culturalmente, tecnicamente, socialmente e storicamente situato, l’idea di immagine come atto – non come cosa – e conseguentemente le teorie dell’atto iconico.

Non è difficile rintracciare legami fra le istanze di questo iconic turn o ikonische Wende e l’interrogazione pratica e teorica che Wenders compie attorno alla nozione di atto del vedere, cui rimanda il titolo di questo libro. Un titolo che costituisce una sorta di sintesi ante litteram delle nuove concezioni di visione e di immagine, in quanto assume quest’ultima come agente della relazione fra l’esperienza estetica dell’autore e quella dello spettatore. Lo esplicita nel brano citato qui in esergo: “Noi [registi], a ogni film, vediamo anche per gli altri”.

Insistendo sul vedere come azione, Wenders si riferisce dunque implicitamente alla forza intrinseca che l’immagine possiede di attivare nuove dinamiche visive; una qualità che uno degli esponenti più noti della Bildwissenschaft come Horst Bredekamp, nel formulare la propria teoria dell’atto iconico (Bildakt), rintraccia nelle antiche concezioni sorte a proposito dell’immagine ed espresse con i termini greci enargeia o dynamis o latini di vis, virtus e facultas.

L’immagine attiva infatti un’esperienza estetica che instaura una relazione sensibile e cognitiva originaria con il mondo, la quale precede e insieme presiede i rapporti astratti di tipo predicativo e concettuale, poiché si affida interamente al fenomeno (“L’atto del vedere è percezione e verifica del reale, ovvero un fenomeno che ha a che fare con la verità molto più del pensiero, nel quale ci smarriamo più facilmente, allontanandoci dal reale”). Esiti principali di questa concezione sono film pluripremiati e diventati di culto come: Lo stato delle cose (Der Stand der Dinge, 1982), Paris, Texas (1984) e Il cielo sopra Berlino.

Si tratta di una concezione fenomenologica che Wenders coltiva sin dai suoi esordi nell’ambito del Sensibilismo e del Neuer Deutscher Film, e che persegue lungo l’intero arco della sua ricerca teorica, artistica ed esistenziale, specie attraverso l’esperienza sensibile, sia essa diretta o mediata dall’immagine, di due fenomeni fondamentali: il movimento e il presente.

Da qui la necessità del viaggio (come si legge in questo volume: “Passo la maggior parte del mio tempo in viaggio in tutto il mondo”), che nell’opera di Wenders parte dal Bildungsroman goethiano per giungere al road movie hollywoodiano e al reportage cinematografico e fotografico, e che compone la rappresentazione cinetica attraverso immagini successive, le quali nel loro insieme mutano lo spazio e il tempo della visione, così promuovendo un cambiamento della prospettiva dell’autore e dello spettatore sul mondo. Ciò accade a partire dalla “trilogia della strada” – Alice nelle città (Alice in den Städten, 1974), Falso movimento (Falsche Bewegung, 1975) e Nel corso del tempo (Im Lauf der Zeit, 1976) –, conosce il suo punto estremo in Fino alla fine del mondo e continua sino almeno a Il sale della terra. In viaggio con Sebastião Salgado (The Salt of Earth, 2014). In tutti questi casi, il viaggiare, Fahren, diviene sempre esperire, Erfahren, così attuando la transizione dal mero guardare all’atto del vedere.

Al di là di ogni astrazione, tanto simbolica, mitologica, logica o razionale, è soprattutto l’esperienza sensibile raccolta dentro il tempo presente dell’immagine a instaurare per Wenders una relazione fenomenologica intensa con il mondo in virtù della quale si possa tentare un rapporto con la verità:

Un regista, un attore, ma anche uno spettatore possono recepire o creare un film solo all’interno di un eterno presente. Ogni scena infatti può essere concepita solo partendo da un tempo che è quello presente. Bisogna essere il più possibile presenti, essere interamente coinvolti nel presente…3

Tale “senso di presenza nel presente” è quanto “può essere solo vissuto” e rende “tutto evidente”, costituendosi come la condizione preliminare necessaria per passare dal guardare al vedere e infine all’osservare; un atto quest’ultimo che si radica a fondo, al di là della superficie della distrazione, così come Rainer Maria Rilke, autore da sempre caro a Wenders, aveva già poeticamente espresso:

Io imparo a osservare. Non so perché tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là.4

Il mutamento di paradigma auspicato dall’autore di questo libro si nasconde dunque molto oltre il guardare inconsapevole e si muove sin dove può spingersi l’atto di vedere.

È l’esperienza profonda dell’osservare, infatti, che Wenders insegue e condivide con il pubblico attraverso una sperimentazione continua e radicale di regimi scopici estremi e in fondo coincidenti, come lo sguardo del bambino e quello dell’artista – tra gli altri, Samuel Fuller, Nicholas Ray, Yasujirō Ozu, Michelangelo Antonioni, Pina Bausch, Sebastião Salgado –, indagati in opere quali Alice nelle città, L’amico americano (Der Amerikanische Freund, 1977), Nick’s Movie – Lampi sull’acqua (Nick’s Movie – Lightning over Water, 1980), Tokio-Ga (1984), Al di là delle nuvole (1995), Lisbon Story (1994), Pina (2011), Il sale della terra.

L’osservazione condivisa si rivela, in questa indagine, come un processo trasformativo di riorganizzazione sensibile, cognitiva ed etica, pregno di conseguenze individuali e sociali.

Specialmente l’atto del vedere compiuto dall’artista appare come perenne tensione all’osservare che mira a realizzarne un potenziale trasformativo. È quanto accede nelle immagini di Wenders, dove non troviamo mai la traduzione esteriore di un sapere interiore precostituito quanto piuttosto un’azione condivisa di riorganizzazione dell’esperienza e perciò della relazione originaria con il mondo.

Proprio perché le immagini, per questo artista visuale, non sono un riflesso della realtà, ma una sua condizione necessaria, costitutiva, esse non possono collocarsi davanti o dietro la realtà, quanto dentro di essa.

Nel riferirsi alle implicazioni etiche e politiche che si correlano all’atto del vedere e all’atto iconico egli infatti utilizza, nelle pagine successive, un unico termine tedesco, Einstellung, che significa al contempo “inquadratura cinematografica”, “posizione” e “atteggiamento verso qualsiasi fenomeno”:

Dietro ogni inquadratura c’è sempre una persona che la realizza e che prende posizione rispetto a ciò che viene inquadrato. Direi che l’atto morale insito in ogni inquadratura consiste nel rispetto sia nei confronti di ciò che la cinepresa riprende che verso il significato veicolato e poi proiettato sullo schermo. Questo atto di fissare e conservare un senso in un’immagine possiamo considerarlo morale, credo, solo come rispetto. […] La cinepresa funziona in due direzioni…5

Questa nozione di Einstellung potrebbe assumere, per la cultura e la società globali nel xx e xxi secolo, il medesimo valore che ebbe quella di Weltanschauung per la Germania del xviii e xix secolo.

All’hybris del guardare immagini subentrerebbe allora la consapevolezza di cosa possa implicare la condivisione di una profonda esperienza estetica del mondo.

Inutile dire che, al di là di ogni esplicito discorso politico, l’atto del vedere e l’atto iconico, così concepiti, costituiscono una presa di posizione sul mondo che concorre in maniera consapevole e in senso evolutivo alla sua metamorfosi.

Se gli esseri umani riuscissero a convincersi che la creatività artistica è una conoscenza anticipata delle conseguenze psicologiche, sociali, culturali e politiche insite nell’impiego degli strumenti tecnici ed espressivi di cui dispongono, non diventerebbero forse tutti artisti?

Nella risposta a questa domanda sta, tra le altre cose, anche il valore di questo libro nel tempo.


Bibliografia essenziale delle pubblicazioni di Wim Wenders

Wenders W., L’idea di partenza. Scritti di cinema e musica, a cura di T. Verità, Liberoscambio, Firenze 1983.

Id., Nel corso del tempo, Feltrinelli, Milano 1979.

Id., Nick’s Movie (Lampi sull’acqua), Ubulibri, Milano 1982.

Id., Emotion pictures, a cura di M. Töteberg, Verlag der Autoren, Francoforte 1986.

Id., Stanotte vorrei parlare con l’angelo, Ubulibri, Milano 1987.

Id., Scritto nel West, Jaca Book, Milano 1988 e 2018.

Id., The Logic of Images, Faber & Faber, Londra 1991.

Id., Una volta (1993), Contrasto, Milano 2015.

Id., Electronic Paintings, Socrates, Roma 1993.

Id., Fotografias, Ediciones Alfons El Magnanim-IVEI, Valencia 1994.

Id., Il tempo con Antonioni. Cronaca di un film, Socrates, Milano 1995.

Id., Lo stato delle cose, Ubulibri, Milano 1995.

Id., Photos, Braus, Heidelberg 1995.

Id., Lisbon Story, a cura di M. Sesti, Ubulibri, Milano 1995.

Id., H. Nakamura, Photographs in the 90s from the Travelogues of Wim Wenders, Tokio Metropolitan Museum of Photography, Tokio 1998.

Id., D. Wenders, Buena Vista Social Club, Mondadori, Milano 2000.

Id., The Heart is a Sleeping Beauty. The Million Dollar Hotel, Schirmer-Mosel Verlag, Berlino 2001.

Id., On film, Faber & Faber, Londra 2001.

Id., D. Wenders, Off scene, Polistampa, Firenze 2004.

Id., A Sense of Place, a cura di D. Bickermann, Verlag der Autoren, Francoforte 2005.

Id., Immagini dal pianeta Terra, Contrasto, Milano 2005.

Id., C. Weber-Hof, C. Hellman, Location. Le città del mondo nei film, Touring, Milano 2006.

Id., Pictures from the Surface of Earth, Haus, New York 2007.

Id., Places, Strange and Quiet, Hatje Cantz Verlag, Francoforte 2012.

Id., M. Zournazi, Inventare la pace. Dialogo sulla percezione, Bompiani, Milano 2014.

Id., Polaroid Stories, Jaca Book, Milano 2017.

Id., I pixel di Cézanne e altri sguardi su artisti, Contrasto, Milano 2017.

Id., E. Viganò, Francesco. Un uomo di parola, Vaticana, Roma 2020.

1  Cfr. infra, p. 196.

2  Cfr. infra, pp. 71-72.

3  Cfr. infra, p. 85.

4 R.M. Rilke, I quaderni di Malte Laurids Brigge, a cura di F. Jesi, Garzanti, Milano 2002, p. 89.

5  Cfr. infra, p. 96.

©Wim Wenders, L'atto di vedere, Meltemi 2022