05.05.2024
Tra le democrazie occidentali, gli USA si distinguono ancora oggi per applicare la pena di morte, o, come la definiscono, l’istituzione peculiare, agli autori di reati gravi. La sub-cultura puritana che permea la società statunitense, combinandosi con la competizione come regolatore dei rapporti sociali e con le esigenze elettorali di bassa cucina, resiste ad ogni sollecitazione. Circa 20 persone, ogni anno, terminano la loro vita in un carcere americano per mezzo di un’esecuzione giudiziaria.
Alla sedia elettrica, dagli anni Ottanta in poi, ha fatto seguito l’iniezione letale, giudicata più “umana”, che si accompagna a metodi come la camera a gas, tuttora usata in California. Recentemente, l’Alabama, ha sperimentato sulla pelle del condannato Kenneth Smith l’ipossia di azoto, per aggirare le critiche relative all’inumanità dell’iniezione letale. Il risultato è stato quello di 22 minuti di agonia prima che il condannato morisse.
L’istituzione peculiare sopravvive alla prova dei fatti. È un metodo disumano, non è un deterrente per la criminalità, si caratterizza per essere applicata da giurie bianche ai danni di afroamericani e latinos, i condannati spesso sono innocenti e scontano la mancanza di risorse adeguate ad assicurarsi un solido sostegno legale per le loro ragioni. Eppure, da qualche anno, nei contesti letterari, cominciano a spuntare lavori che si cimentano nell’elaborazione del significato della pena di morte, sia dal punto di vista delle vittime che da quello del reo.
Al primo tipo appartiene il libro di Danya Kukafka, Appunti da un’esecuzione (Bompiani, Milano, 2023). Si tratta di un’opera incentrata a decostruire il mito del serial killer, da un punto di vista di genere. L’autrice crea il personaggio Ansel Packer, un giovane omicida seriale, che vive le sue ultime 12 ore in attesa di essere giustiziato ad Huntsville (la prigione texana sede par excellence delle esecuzioni). Attorno a Packer si dipana la vicenda di sua madre, che abbandonò lui e il fratellino per fuggire dalla violenza del marito, di Jenny, la moglie che Packer ha ucciso, di Saffy, sua compagna di orfanotrofio diventata in seguito poliziotta, che riuscirà ad incastrarlo, di Shawna, la guarda penitenziaria che promette falsamente di aiutarlo.
Ne scaturisce un lavoro improntato ad una logica binaria, dove la violenza è sempre e comunque il prodotto del comportamento maschile, da cui le donne debbono districarsi a fatica, non sempre riuscendoci. Da un lato Kukafka riesce nel decostruire il mito del serial killer, che, da Hannibal Lecter in poi, è diventato una figura egemone dell’occidente post-industriale, introflessosi per far fronte alla crisi di progettualità esterne. Packer è un disadattato, una figura meschina, che non riesce ad affrancarsi dalla violenza primordiale, incapace di cogliere le sponde che, dall’orfanotrofio al braccio della morte, gli vengono offerte da figure femminili. Dall’altro lato, l’intento di decostruire il mito, e di mostrare l’inutilità della pena di morte, si arena contro la centralità delle vittime di femminicidio. Vero, l’autrice, descrivendo pedissequamente il rituale dell’esecuzione, ce ne mostra l’insensatezza e la crudeltà, che colpisce non soltanto il condannato ma anche i suoi familiari e quelli delle sue vittime. Tuttavia, quando, nelle pagine conclusive, ricorda tutte le donne vittime di femminicidio, anche attraverso numeri, se ha sicuramente ragione nel fatto che la loro storia non venga ricordata, sembra alludere alla necessità di legge e ordine per questo tipo di reati. Inoltre, Kukafka, trascura il fatto che ogni società, nel vivisezionare la vita di un criminale, compie un’azione catartica, esorcizzatrice, che da un lato la autoassolve (la coscienza collettiva durkheimiana), dall’altro espone le sue proiezioni trasgressive.
Il secondo libro di cui trattiamo, Settanta volte sette di Alex Mar (Il Pellergrino, Roma, 2024), ci sembra più incisivo e convincente del primo. Anche questo è un lavoro scritto da una donna, che parla di un’omicida donna, afroamericana, realmente esistita. Si tratta di Paula Cooper, che nel 1985, a Gary, nell’Indiana, rapinò e uccise l’anziana insegnante di religione Ruth Pelke insieme ad alcune sue amiche. La sentenza di morte, che Paula ebbe irrogata quando aveva 16 anni, venne in seguito tramutata in 60 anni di carcere, per essere condonata dopo 28 anni di detenzione, fino al suicidio della protagonista, avvenuto nel 2015.
Una faccenda che vide l’attivismo italiano, attraverso il Partito Radicale, la comunità di Sant’Egidio, e trasmissioni popolari come Domenica In, tutti citati in dettaglio dall’autrice. Mar dedica spazio all’evento che ha cambiato la vicenda di Paula, ovvero la scelta compiuta da Bill Pelke, nipote della vittima, operaio in un’acciaieria di Gary, di perdonare Paula, e di rendere pubblica la sua scelta, innescando così le mobilitazioni a sostegno della ragazza.
Attorno a Bill e a Cooper, si muovono una serie di personaggi, paradigmatici di un’America in declino economico e sociale dagli anni Ottanta in poi. I genitori, alcoolizzati e violenti, sono il contro canto di Jack Crawford, il procuratore di origine irlandese che abbandona le sue simpatie kennediane in nome della carriera politica, coinvolgendo il giudice afroamericano Kimbrough nella scelta della condanna a morte. Vite di corsa, in ascesa, contaminate dall’edonismo reaganiano, che si infrangeranno nelle debolezze personali.
Dall’altra parte della barricata, la sorella di Paula, Rhonda, la deputata afroamericana Earline Rogers, l’avvocata italoamericana Monica Foster, insieme a Bill, lavorano indefesse per salvare la ragazza dal patibolo, mosse dal solo principio di giustizia. A fiano a loro, il giurista Victor Seidt, che si batte per dimostrare l’iniquità delle sentenze capitali, in particolare quelle irrogate contro i minorenni. Una battaglia che sembra imboccare la strada giusta, quando la pena di morte viene commutata, e, soprattutto, quando Paula viene liberata dopo 28 anni. Ma che riceve la sua battuta di arresto finale nel 2015, quando la ex-ragazza condannata a morte decide di suicidarsi. In un’America che si accinge a votare Trump, la morte di Paula Cooper fuoriesce dalla cronaca per assumere un significato simbolico. La ex-prima potenza mondiale, che ha scelto di smantellare il suo apparato produttivo disgregando la società, innescando competizione, inacidendo i rapporti interpersonali in nome dell’ambizione individuale, non riesce ad introiettare il perdono di Bill Pelke, né è capace di riaccogliere Paula Cooper, che muoiono entrambi. Una società che riprende nelle sue pieghe un ex-detenuto, si diceva, è una società che ha fiducia in sé, che crede nel suo futuro. Fiducia. Convinzione. Risorse che negli USA e nei paesi occidentali mancano del tutto da almeno trent’anni. E che sembrano avere prodotto una crisi irreversibile. Per questo non ha senso concentrarsi sulla vittima, o sul tipo di vittima. Bisogna provare a riattivare la fiducia.