30 gennaio 2021
Un'ipotesi di utopia concreta. Pratiche d’arte tra la città e la vita
Paola Boscaini
«Questo non è più lo spazio in cui si svolgono le vite delle persone e dentro cui esse si muovono: è lo spazio tra le persone l’unico ad essere ammesso» «per vedere se [sia] possibile contenere la vita dentro le porte, senza che invada e confonda ogni cosa».
Queste le parole che Franco la Cecla usa per descrivere la guerra furiosa alla quale hanno dato il via, dalla metà del diciannovesimo secolo, le grandi città europee contro la vita di strada. Parole che risultano oggi quanto mai familiari, poiché simili a quelle che sono riecheggiate nell’aria milioni di volte nel tentativo di contenere la pandemia di SARS-CoV2. Parole che rispecchiano una condizione forse agli occhi di alcuni totalmente nuova ma che, al contrario, si è spesso celata dietro le operazioni di “securitizzazione” e “zonizzazione” spaziale della città moderna. Frammentazione fisica e sociale sono, già da tempo, caratteristiche strutturali dello spazio contemporaneo. Le barriere che la città ha eretto sono diventate recinti che impediscono la comunicazione; recinti architettonici, ma anche e soprattutto culturali. Così facendo, distruggendo l’ambiente dove la vita ha la possibilità di esprimersi liberamente, si finisce per distruggere anche il cittadino, andando a creare uno spazio «che non può essere interpretato e vissuto ma solo subito e consumato» (A. Daolio, 1997).
L’identificazione con il luogo è alla base del processo umano di ambientazione, esso ha a che fare con la sopravvivenza, sociale e culturale, nonché fisica. Un luogo, quando viene abitato, finisce per incarnare le forme rituali proprie di ogni persona e di ogni cultura, poiché l’abitare assimila il “rituale quotidiano” traducendolo in distanze, sequenze, immagini, forme. «I nostri stessi concetti sono collocati spazialmente e le azioni assumono un senso, sono, solo in quanto si svolgono in punti, luoghi, lungo percorsi carichi di precisi significati» (B. Fiore, 1985).
Se dietro ogni città, dietro ogni paese, dietro ogni agglomerato di case, si celano intrecci sociali, nascosti oltre le soglie dell’abitare, «[o]gni soluzione che preveda la completa demolizione delle abitazioni esistenti […] dev’essere respinta. Anche se inadeguata, ogni baracca è la casa di qualcuno […]. Il vecchio deve essere assorbito all’interno del nuovo, con il minore detrimento del primo e il più grande vantaggio del secondo» (C. Ward, 2017). L’ambiente può, anzi deve, essere modellato e rimodellato da chi lo utilizza. Il costruire è da vedersi come impresa comunitaria, che porti un conseguente, e necessario, recupero dei ragionamenti sulla territorialità come pratica e politica spaziale. Nella storia, ci racconta Colin Ward, si sono susseguiti diversi esempi di “mondi improvvisati”, il quale elemento chiave per definirne la posizione è stato quello di marginalità. Il margine, come dice bell hooks, diventa spazio di resistenza e luogo radicale di possibilità.
L’arte e la cultura, in questo contesto, assumono un ruolo di fondamentale importanza; ponendosi tra la città e la vita, possono diventare il mezzo per liberare l’espressività, i bisogni e i desideri individuali. L’arte, dalla sua posizione che le permette di agire libera di muoversi in quel sottile spazio tra utopia e realtà, interpreta le istanze identitarie delle comunità con le quali viene in contatto, espresse attraverso gli usi spontanei dello spazio e dei materiali. Il valore dell’esperienza quotidiana viene recuperato e l’immaginario diventa strumento di condivisione e coesione, al fine di creare spazi democratici, fisici e discorsivi.
“Osservare”, “Ricordare”, “Comunità e partecipazione” si presentano come parole chiave da affrontare per intervenire in un contesto sociale, culturale e territoriale. “Osservare” si configura come la prima azione che dobbiamo compiere per riappropriarci dello spazio che ci circonda. Stalker/Osservatorio Nomade, collettivo di artisti e architetti, fondato a Roma nel 1995, ha condotto una lettura della città attuale, osservandola dal punto di vista dell’erranza, delle “transurbanze” condotte dagli stessi artisti in alcune città europee. L’atto di camminare diviene quindi strumento critico per osservare il paesaggio, al fine di decostruire lo spazio tradizionale pezzo per pezzo, alla ricerca di un rapporto diretto e sensibile con i luoghi.
Dopo aver osservato il territorio dobbiamo, però, avere la capacità di “Ricordare”, poiché storia e memoria si configurano come elementi fondamentali per il recupero di un senso di comunità che acquisisca significato. È da questa idea che nasce il MemoryPROJECT, creato dagli austriaci Eva Brunner-Szabo e Gert Tschögl. Progetto che si presenta come un museo delle memorie, privo di una collocazione permanente, ma situato in modo temporaneo in determinati spazi pubblici. Esso si pone come intervento artificiale che prende possesso dei ricordi e della memoria dei destinatari creando un lavoro in continuo divenire.
Infine, se concepiamo la “Comunità” come un insieme di individui caratterizzati da una mancanza, un’incompiutezza che, nel definirli in quanto tali, li porta ad aprirsi alla relazione con l’altro, la “partecipazione” emerge come elemento fondamentale all’interno della stessa. Per parlare di partecipazione pubblica è però necessario parlare anche di uguaglianza, di giustizia sociale e di libertà. Campement Urbain, collettivo fondato nel 1997 in Francia, nel 2002, ha realizzato il progetto Je & Nous, pensato per un quartiere della città di Severan, Beaudottes, che ha conosciuto pesanti problemi sociali. Tale progetto ha voluto indagare le relazioni, i collegamenti, tra i singoli individui e le comunità, al fine di esaminare e ripensare il concetto di spazio pubblico attraverso un lavoro collettivo.
Quello che viene messo in questione, in queste pratiche, è il senso stesso di un atto artistico attraverso una condivisione delle responsabilità, che instauri una nuova relazione tra arte e attivismo.