09.02.2021
Una restaurazione chiamata recovery
Marcello Marino
La pandemia, in Europa, colpisce milioni di persone, sconvolge famiglie, in alcuni territori annienta un’intera generazione e rivela la debolezza del sistema sanitario. Ne abbiamo pagato le conseguenze in termini umani: morte, sofferenza, limitazioni e deterioramento delle relazioni sociali, isolamento. Ne consegue che tutto questo ha avuto l’effetto di produrre anche un crollo dell’economia. Ora proviamo a spingerci oltre, alla ricerca delle motivazioni che invece sviluppano risposte assai singolari sulle conseguenze del problema, al punto di invertirne la priorità quando si prospettano scenari futuri.
Dopo trattative e contrapposizioni nei modi assai poco congeniali a una situazione di allarme umanitario, l’Europa decide di soccorrere i paesi membri con l’elargizione di 1800 miliardi di euro. L’Italia, con i suoi 209 miliardi, di cui 65,5 a fondo perduto, ne esce a suo modo vincente, ottenendo più o meno quello che chiedeva. Il progetto complessivo di aiuto ai paesi membri (il Next Generation Eu) prevede il grosso della ripartizione dei fondi nell’area della digitalizzazione e della transizione ecologica.
Al punto 1 del quadro finanziario del piano, compare la voce “Mercato unico, innovazione e agenda digitale”. Il punto 2 meriterebbe un’attenzione a parte, perché il più fumoso, il più ricco (721,9 miliardi) e quello che più di ogni altro esprime obiettivi ambigui: “Coesione, resilienza e valori”. Una prima voce potente e definitiva e una seconda vacua e indefinibile.
Durante la pandemia mancavano medici e infermieri, mascherine e posti letto nelle terapie intensive, medicina del territorio, aule adeguate nelle scuole. Chiunque guardi ai problemi affrontati nell’emergenza, non pensa in prima istanza alla digitalizzazione o all’innovazione. Anche la scuola ha risposto prontamente, e con gli strumenti digitali, mentre le sue strutture e il sistema dei trasporti ne impedivano il normale funzionamento. Il lavoro di molti è diventato telelavoro e smart working, da cui le grandi multinazionali hanno ottenuto un beneficio e il piccolo commercio un danno senza precedenti; contemporaneamente il commercio online ha avuto un balzo di fatturato inverosimile (c’è qualcosa di più digitalizzato?).
Il Recovery Fund, (“fondo di recupero”), si inserisce in un quadro rappresentato da una piccola e media impresa in ginocchio, chiusura di attività, aumento della disoccupazione, sistema sanitario stremato.
La risposta è: tecnologia, nuove figure professionali, atomizzazione del lavoro. La grande impresa, le banche e le multinazionali saranno i massimi beneficiari dei fondi, non foss’altro perché sono gli unici soggetti che possono obiettivamente aspirare, grazie ai loro mezzi, a concretizzare alcuni di quegli obiettivi.
Il capitalismo contemporaneo ha rivelato le sue storture e le sue fragilità ma i suoi soggetti rimangono in prima fila a decidere quale forma dovrà avere la transizione. Il tanto evocato post-pandemico “mondo nuovo” che nell’immaginario collettivo doveva essere un mondo diverso (nei suoi aspetti sociali fondamentali), sembra orientato ad essere un mondo rinnovato (nell’essenza delle sue forme strutturali precedenti).
Abbiamo imparato che economia e finanza non vanno di pari passo con le istanze sociali, anzi abbiamo la certezza vissuta della sperequazione che l’aumento della ricchezza mondiale ha prodotto.
Come si coniuga, dunque, il balzo tecnologico con una stagnazione socio-economica strutturale? Cosa porta la digitalizzazione al 50% di popolazione con un titolo scolastico di terza media? In che modo incide nella vita di quelle comunità rurali, decentrate, ancora prive dei servizi essenziali? Dov’è il patrimonio professionale e umano che dovrebbe garantire un passaggio così pieno di responsabilità in un paese che non riesce a trattenere nemmeno i suoi laureati?
L’errore si annida nel primato dell’effetto, secondo cui introducendo tecnologia digitale si produce innalzamento culturale e cognitivo. Si invertono i termini valoriali del rapporto causale, per cui non è l’uomo a produrre tecnologia finalizzata alla vita ma la tecnologia a produrre un uomo finalizzato al suo utilizzo. Ma è soprattutto l’esistenza di potenti soggetti economici pronti ad accogliere il finanziamento a spiegare l’enormità degli investimenti. Agli altri rimane la domanda di sempre: assecondare il progresso tecnologico o indirizzarlo? L’innovazione non è neutra, segue sempre criteri economicistici.
L’Europa rimane reclinata sui modelli di sviluppo pre-pandemia, quelli che hanno portato a un mondo caratterizzato dal più alto tasso di ingiustizie sociali e squilibrio delle ricchezze, e che ora tenta di recuperare il controllo. L’istituzione europea, prima della pandemia, era oggettivamente in crisi; gli attacchi al sistema erano continui e la Gran Bretagna si apprestava a uscire dalla comunità. Nella prima fase della pandemia sono emersi egoismi e indifferenza, nessuna unità. E con l’attribuzione dei fondi abbiamo assistito a prese di posizioni politiche tronfie e ispirate a luoghi comuni sull’Italia.
A guardare il mondo davanti ai nostri occhi servono ricercatori, docenti, medici e infermieri negli ospedali, medicina territoriale, scuole, università potenziate, politiche di supporto alla scolarizzazione, revisione dei rapporti di forza nel mondo del lavoro. E questo se ci si limita a cercare risposte immediatamente evidenti. Ma se ci si spinge nella visione di un mondo ipotetico, capace di rielaborare quanto accaduto e immaginare un percorso di costruzione (più che di ri-costruzione), ecco che si sente il bisogno di energie, intelligenze, menti capaci di deragliare, di pensare alle alternative e di essere messe in condizione di diventare “vita activa” e che invece saranno certamente esclusi, in nome della managerialità e del mercato, di un razionalismo economicistico che non concepisce alcun pensiero divergente.
Mentre il mondo reclama discontinuità emerge invece, in tutta la sua potenza, quella “ontologia dell’attualità” di cui parlava Foucault e quel next suona solo come uno slogan.
C’è un mondo altro che non accede ad alcun piano, malgrado l’occasione: l’evento dirompente mette in crisi l’esistente. Ogni cultura altra è, di fatto, debole o marginalizzata. Si riesce finanche a parlare di “prossima generazione” senza che i diretti interessati siano minimamente rappresentati. Ai giovani viene da suggerire di replicare, e reagire come i coloni inglesi di fronte alle iniziative della corona, così che il loro appello “No taxation without representation” potrebbe essere convertito in un legittimo “No debt without representation”.
Nessuna generazione adulta ha mai avuto veramente a cuore il destino di quelle a venire. Ai giovani, di ogni tempo, è toccato andare in guerra, combattere per le ragioni dei potenti, sottostare alle loro leggi e ai loro abusi. Ora, in loro nome, si procede a dotare di un patrimonio immenso i soliti noti: la grande industria, le multinazionali; perché questo sarà, e lo si farà immaginando quel famoso benessere a pioggia che è già stato ampiamente smentito da molte iniziative passate.
Del patrimonio rimarrà il debito che la comunità dovrà saldare, malgrado sia innegabile che, in linea di principio, alcuni aspetti, come la “transizione ecologica”, costituiscano un ambito di intervento urgente.
A posteriori cogliamo, di ogni epoca storica, la frammentarietà, le aporie che il rapporto tra politica ed economia hanno prodotto. Rapporto necessario che però sta pericolosamente volgendo all’identificazione. L’economia che conosciamo è quella che si è affermata con le teorie economiche vere e proprie, centrate sull’idea dell’autonomia del mercato e capaci di ridurre lo stato a sistema di amministrazione e controllo. Ma prima della loro comparsa l’imperativo era l’hobbesiana conservatio vitae, che non si esaurisce nella salvaguardia della vita biologica ma si estende alla vita nella sua totalità, a quel benessere vitale che è prima fondamentale richiesta di ogni comunità.
L’occasione, dunque, risiede proprio nel cogliere i controversi aspetti dell’evento che stiamo ancora vivendo, nel quale la vita biologica, la vita di comunità e quella di relazione convergono e subiscono ognuna un danno ma rinviano a un tutto che, a prima vista, difficilmente fa pensare a digitalizzazione, innovazione o competitività.
Rimane la speranza che, in forza di quella linearità impossibile, che è il prodotto di un riduzionismo politico alle pure strategie aritmetiche, si generi invece una discontinuità necessaria, vitale, capace di aprire a nuovi ambiti di senso.