Una nota su Architettura Forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee
di Eyal Weizman
Chiara Spaggiari

30.04.2022

Nel 2017 viene pubblicato negli Stati Uniti Forensic Architecture: Violence at the Treshold of Detecability, testo cardine che illustra le ricerche di Eyal Weizman e del team interdisciplinare di ricercatori coinvolti nell’esperienza dell'agenzia Forensic Architecture, fondata dall’autore nel 2010. Tradotto in Italiano e pubblicato da Meltemi nel 2022 con il titolo Architettura Forense. La manipolazione delle immagini nelle guerre contemporanee, il libro disvela la sua autentica contemporaneità, analizzando il ruolo delle immagini nei conflitti bellici, inerenti sopratutto a quelle zone geografiche in cui si apre il vuoto normativo di una extraterritorializzazione: territori il cui dominio è riconosciuto entro confini nazionali e che tuttavia rimangono effettivamente al di fuori delle giurisdizioni degli stati cui pertengono.

Le controinvestigazioni – termine coniato insieme a Thomas Keenan a partire dalle riflessioni di Allan Sekula – di cui si occupa l’agenzia riguardano perciò regioni di frontiera come la FATA (lungo il confine tra Pakistan ed Afganistan), zone al nord dello Yemen, in Somalia, a Gaza. Qui le immagini prodotte nei conflitti bellici rimangano in una zona d’ombra, veicolate in sordina dai media d’informazione.

In questi territori infatti è stato proibito l’accesso ai giornalisti e agli investigatori, per cui le immagini riguardanti le vicende belliche non possono che essere sopratutto fotografie digitali satelittari. Tuttavia, la loro analisi dimostra che, in virtù di una circolazione pubblica delle stesse, il livello di risoluzione dei pixel è ridotto, in accordo a normative legali legate a logiche politiche e geopolitiche. L’autore parla di “soglia di percepibilità”, cioè di quella caratteristica liminale propria della materia dell’immagine per la quale alcuni oggetti “aleggiano tra l’essere e il non essere identificabili” (p. 32), nonostante lascino una traccia nella rappresentazione, che, tuttavia, non rimane mai del tutto attendibile. In estrema sintesi, nelle immagini satelittari le figure umane permangono entro tale soglia di percepibilità, in quanto sono concepite “per rimuovere la figura umana dalla sua rappresentazione” (p. 43). La risoluzione di un singolo pixel non può che registrare una traccia indefinibile della presenza di un corpo umano, che occupa uno spazio di mezzo metro quadrato di lato sulla superficie terrestre.

Per cercare di studiare gli accadimenti in queste vicende Eyal Weizman e Forensic Archtecture si sono dunque concentrati su ciò che invece le immagini satellitari mostrano con evidenza: l’architettura, lo spazio urbano, l’ambiente, i fabbricati e le macerie, che corrispondono ad una scala ben diversa rispetto a quella della figura umana.

La tecnica controinvestigativa messa in atto dall’agenzia si avvale perciò di una pratica d’analisi complessa, per rivolgere “i metodi dello Stato contro la violenza che esso commette” (p. 95): occorre avvalersi di immagini difficili da reperire; laddove si riesca, nella loro analisi occorre riconoscere delle limitazioni legali che ne rendono difficile la lettura; occorre perciò ammettere che la Verità delle immagini non può darsi come certezza, per cui si rende necessaria un’ulteriore ricerca attraverso altri mezzi e metodologie; la scala architettonica può, in questo senso, essere il fulcro dell’indagine.

Se le immagini sono centrali all’interno delle politiche di visibilità ed invisibilità normate dagli stati, risulta chiaro che certe modalità di occultamento delle immagini e nelle immagini corrispondano a volontà di nascondimento di atti di violenza e delle relative tracce; di pratiche tangenti la legalità in cui si esplicano la violenza e i crimini di uno Stato. Il discorso è quello di Walter Benjamin in “Per una critica della violenza” del 1920-21: per il diritto positivo «la violenza è accettabile (in quanto interna al diritto) nella misura in cui i mezzi sono legittimi, ma tale legittimità è l’esito di rapporti storicamente determinati».

La violenza emerge in questo caso dalla mancanza della legge che si sottrae a sé, nel suo bando – per come ne parla Giorgio Agamben in Homo sacer I, Il potere sovrano e la nuda vita (1995) – se pur in modo certificato e garantito dalla legge stessa. La pratica controinvestigativa pertanto “prova a comprendere e descrivere la logica della sorveglianza – investigare sui metodi di investigazione statale – al fine di interferire con essa, rendersi invisibile oppure distruggerne le funzionalità […] per denunciare pubblicamente misfatti politici” (p. 102).

Allora gli edifici, così come, in generale, il territorio e l’ambiente, risultano fondamentali nelle tecniche controinvestigative: non elementi statici, ma in modificazione continua, sismografi degli accadimenti e delle vicende, in quanto tracce ed effetti permangono sulla materia architettonica, fisica, geologica. Le loro deformazioni sono informazioni, e “gli edifici sono tra i migliori strumenti di misura dei cambiamenti nella politica e nella società […] funzionano come dei media, non perché circolino in pubblico fotografie di edifici, ma perché essi sono alla stesso tempo supporti di memoria e strumenti di scrittura che producono cambiamenti nelle tre operazioni basilari che competono ai media: percepiscono o apprendono il loro ambiente circostante, conservano quest’informazione nei loro mutamenti di forma e in seguito diffondono, rivolgono verso l’esterno gli effetti di essa che rimangono latenti nella loro forma” (p. 78).

La “svolta forense”, prospettiva metodologica e critica di cui si avvale l’agenzia, riguarda infatti una “nascente sensibilità culturale e giuridica per il valore probatorio della prova materiale” (p. 125). Essa affonda le radici in una sensibilità estetica, declinata dall’autore sia come “estetica forense” che come “estetica materiale” – in cui il principale riferimento teorico è il filosofo e matematico inglese Alfred North Whitehead. Nella prima definizione – coniata ancora insieme a Thomas Keenan nel testo Mengele’s Skull – viene messo l’accento sul contenuto emotivo di un’immagine, in grado di operare convincimento in sede giuridica; la seconda terminologia indica invece la materia come “sensorio estetico, poiché i mutamenti del suo stato registrano minuscole trasformazioni e differenze nei campi di forza che la circondano. L’estetica materiale è insieme antecedente e fondamentale alla percezione umana, alla comprensione e al giudizio” (p. 140).

Risulta evidente la natura interdisciplinare dell’agenzia e delle metodologie adottate: si avvale delle prassi dell’antropologia forense, di una concezione della Storia e delle storie che risale a Marc Bloch e Carlo Ginzburg, nonché dei movimenti filosofici come le ontologie orientate all’oggetto; in sintesi, tutte quelle concezioni e discipline che portano ad approfondire ed analizzare “le narrazioni condotte da cose, tracce, oggetti e algoritmi” (p. 127). In questo quadro, risulterà oramai chiaro, le immagini vengono restituite alla loro dimensione materiale, fuoriuscendo da una una prospettiva meramente rappresentazionale; così, “l’inverso è altrettanto vero: poiché gli oggetti diventano immagini, queste vanno studiate come oggetti, come parte del mondo materiale” (p. 143).

Citando Platone e la teoria del pharmakon, le prime pagine di Materia e Memoria di Henry Bergson e L’arte della memoria di Yates, Weizman riconduce alle origini della teoria delle immagini e della memoria, la pratica dell’architettura forense. Essa appare affine alla metodologia di un’archeologia del presente che, attraverso le tracce, le mancanze e gli errori stessi della registrazione testimoniale, materiale e visiva, assembla e collega “insiemi di relazioni tra strutture diverse, infrastrutture, oggetti, ambienti, attori ed eventi” (p. 88), per sondare eventi e vicende della Storia e delle storie.

L’architettura indica, quindi, tanto una modalità di strutturazione investigativa e poi narrativa dei nessi che intercorrono tra memoria, racconto e distruzione; quanto le potenzialità di ricostruzione mnemonica di un’evento traumatico, che i testimoni spesso faticano a riportare. Così anche le immagini digitali di modellini architettonici, appropriandosi dei tradizionali metodi delle mnemotecniche, possono aiutare “le persone a ricordare eventi offuscati dall’estrema violenza e dai traumi subiti” (p. 88).

Nelle ricerche di Eyal Weizman e della Forensic Architecture, così chiaramente riportate in questo testo, l’architettura, le immagini e la memoria s’intrecciano ad un livello molto profondo, al servizio di un’indagine etica, epistemica ed estetica, che riguarda alcune delle realtà e dei conflitti più nascosti ed invisibili della nostra contemporaneità. Eyal Weizman è in grado di far emergere in questo modo il valore e l’imprescindibilità delle mancanze, delle imperfezioni e delle incertezze dei discorsi e delle rappresentazioni che significano la nostra quotidianità e che non potranno mai risolversi in banali e parziali definizioni di Verità.