Un pensiero lasciato
Ubaldo Fadini

11.02.2022

E' vero, come affermano i filosofi: non facciamo altro che perdere dei pensieri. Ma uno di questi lo vorrei trattenere un po', per poi lasciarlo andare via, quasi in “fuga”. Si tratta in effetti di raccogliere alcune impressioni di lettura, poco composte a dire il vero ed è bene che sia così, suscitate dal recente libro di Marco Rovelli, Siamo noi a far ricca la terra. Romanzo di Claudio Lolli e dei suoi mondi (Edizioni minimum fax, Roma 2021).

C'è un appunto di Elias Canetti, tratto da La provincia dell'uomo, che dà sostanza alla sua idea, che faccio mia, che sia importante misurare un uomo “vero”, cioè “vivo”, a partire dalle sue oscillazioni e non sulla base di ciò che mira realmente a trattenerlo il più a lungo possibile, a de/terminarlo-de/finirlo.

Scrive Canetti: “Mi è molto difficile capire come si possa giocare la posta più alta, la vita. Forse sono troppo curioso e avido di prodigi: io aspetto incessantemente l'inaspettato. Ciò che io so o voglio mi è prezioso soprattutto quando viene superato o confutato. Al traguardo, in ogni direzione, sta nascosto l'altro, del quale sento soltanto che sarà sorprendente. Io so, affinché esso si sappia improvvisamente diverso. Io voglio, affinché mi venga deviata la volontà. In tutto c'è una tale ricchezza di attesa che una conclusione di qualsiasi specie è per me inimmaginabile. Non c'è mai fine, perché tutto diventa sempre di più. L'uomo vero è per me quello che non riconosce mai una fine: non ci deve essere ed è pericoloso inventarne una” (E. C., La provincia dell'uomo. Quaderni di appunti 1942-1972, tr. di Furio Jesi, Adelphi, Milano 1978, pp.187-188).

L' “uomo vero” è colui che non riconosce mai una fine ma quello che vale è il lavorare sempre su qualcosa che è finito, che si presenta come determinato con relativa precisione. E allora si tratta di individuare ed esprimere sempre parzialmente/provvisoriamente, cioè di attualizzare in parte, i potenziali di trasformazione che comunque si avvertono in un qualche modo in ciò che è definito e che avrebbero potuto e potrebbero ancora portarlo a manifestarsi diversamente.

E' proprio questa diversità (che attraversa le figure del musicista, dello scrittore, dell'insegnante) a palesarsi in mille forme nel romanzo di Marco Rovelli, un testo che è però anche “di” Claudio Lolli. Nelle sue pagine parlano infatti “im/mediatamente” gli amici e gli amori di Lolli, i suoi scritti e le sue canzoni e anche quegli “oggetti” che li hanno supportati, a partire dalla chitarra, dalla “giacca” e così via.

Soprattutto mi colpisce, accanto alla “chitarra dell'Upim”, il ruolo della “finestra sbagliata”, nella “prigione di casa”, attraverso la quale si prende coscienza del limite, di una condizione difficile di esistenza e si può arrivare anche a desiderare il suo risolversi diversamente. E' attraverso la finestra che ci si può sentire/immaginare altrove, proiettarsi fuori, e però nello stesso tempo ci si ritrova consegnati ad un rimanere al di qua, separato/distinto in una condizione effettivamente liminare, che traduce infine un essere né di qua (o forse sì?) né di là. Appunto: “Né poeta, né studente. / Ho fatto un muro / delle mie finestre. /Ma in quel muro / sto facendo un buco. / Farò una scala, verso il mio cortile, / e scenderò, / è quello che oggi voglio”.

Così in “Vent'anni” e Rovelli aggiunge: “Quando si traversa la finestra si chiude un mondo, si compie un miracolo. Anche se dicono che è una finestra sbagliata. Allora, solo allora, si diventa poeti: quando si apre la finestra, un mattino improvviso, quando entra una luce strana, e sotto è sparito il cortile, e c'è un'isola verde che tinge gli occhi di festa. E allora si guarda il cortile aperto e vasto, le luci quadrate del collegio di fronte, e si respira finalmente l'aria fresca della notte” (p.40).

L'aria della notte, dell' “unica figlia del giorno”, come scrisse Renzo Gherardini, e tutto ciò attraverso la finestra del desiderio, senza dimenticare l'altra finestra, quella che ha segnato una generazione, che è poi la “mia”, quella del quarto piano della questura milanese, del 16 dicembre: vera e propria “finestra del potere”.

Ma in tempi dove si rincorrono le infelicità e si fanno spavaldi i suoi cultori travestiti da fini analitici, ciò che appare ancora più degno di attenzione e cura è la ricerca imprescindibile della felicità. Ed è appunto questo desiderio di felicità, il saperla pure intimamente “politica”, a segnare i percorsi di Lolli, la sua presenza nella Bologna degli anni '70 e poi in quella successiva, dove non si può andare eppure si cerca di andare (Samuel Beckett). E' la Bologna dei “molti”, finalmente..., anche degli artisti, sempre ovviamente, meglio: da più tempo..., Francesco Guccini e poi Andrea Pazienza, dei tanti amici musicisti, dei “movimenti”, di “Anna di Francia” e degli “zingari felici”.

A me, allora “bolognese” stagionale..., colpiscono pure i rimandi a Claudio Piersanti, all'indimenticabile Pier Vittorio Tondelli, all'incontro con Romano Bilenchi, scrittore magnifico, a Firenze, un altro luogo dove era possibile viaggiare restando, anche per poco tempo, sul posto. E allora certamente anche Leopardi, per Lolli, ma poi pure Peter Handke, Wim Wenders e tutti coloro che hanno segnato la formazione di singolarità stravaganti, costitutivamente alla macchia tra suoni e appunto parole.

Costitutivamente alla macchia. Una condizione strana, bizzarra, ben restituita da Rovelli allorquando riporta una nota di Lolli, del 2015, a un suo disco, che suona così: “Marco Rovelli o della 'rêverie gauchiste'... già, perché non mi viene da definire questo ultimo bel lavoro di Marco che come una rêverie. Ma nulla di crepuscolare o di separato (e non sto nemmeno a citare) bensì di alternativo ed alternato alla vita comune.

Così Marco pesca nella storia e nella fantasia dei personaggi che incarnano questo sognare, questa rêverie che però gauchiste, disegnato in un altrove spazio temporale e proiettata in un divenire futuro o divenire del futuro tragicamente necessario per riuscire a considerare il presente nella sua pochezza disperata. Come a dire che questo mondo non ci basta. Questo mondo NON basta” (p.327).

Credere al divenire del mondo, al divenire del futuro, mi verrebbe da aggiungere – dicendo certo diversamente – alle parole di Lolli, ricordando, sempre con Rovelli, “la sua storia (…) di un ragazzino inadeguato al mondo, che ha sofferto la sua famiglia come una prigione e che poi è riuscito a crearsi una famiglia di persone libere, unite da legami spontanei e non da obblighi o da ipocrisie” (p.328).