Un nota su Logica e tumulti di Marco Mazzeo
Andrea Di Gesu

23.04.2022

Marco Mazzeo è, senza dubbio, il più significativo interprete di Wittgenstein all’interno del dibattito filosofico italiano. In seguito alla pubblicazione di una puntuale introduzione generale alle Ricerche Filosofiche (Le onde del linguaggio, Carocci 2013), ne Il bambino e l’operaio. Wittgenstein filosofo dell’uso (Quodlibet, 2016) ha inaugurato un cantiere di lavoro estremamente originale sul pensiero del filosofo austriaco, in cui coniuga virtuosamente una originale ricerca sulla filosofia del linguaggio wittgensteiniana ad una sistematica attenzione per le sue implicazioni etico-politiche.

Difficile, per chi scrive, non menzionare poi anche il suo lavoro didattico in senso stretto, e in particolare un suo seminario sulle Ricerche Filosofiche tenuto con Paolo Virno all’Università di Roma-Tre ormai più di cinque anni fa e che ha costituito, per tanti tra cui il sottoscritto, una vera fonte di ispirazione per il loro lavoro di ricerca.

Logica e tumulti. Wittgenstein filosofo della storia (Quodlibet, 2021) aggiunge un ulteriore, importante tassello alla ricerca di Mazzeo sull’opera wittgensteiniana. Il libro raccoglie tre suoi saggi pubblicati negli ultimi anni, profondamente rielaborati e legati assieme da un filo logico-argomentativo coerente, ed è completato da due appendici dedicate a temi affini a quelli trattati nel corpo principale del testo.

Punto di partenza di Mazzeo è che Wittgenstein costituisca un riferimento imprescindibile per l’elaborazione di un “materialismo all’altezza dei tempi” (p. 7). Tale nuovo materialismo coincide, per l’autore, con una teoria del carattere indissociabilmente storico e naturale dell’animale umano, ossia, col fatto che esso sia storico in quanto naturale – poiché privo di un corredo istintuale che lo faccia coincidere con il suo ambiente, il che fa sì che la sua prassi sia una costruzione infinita e innovativa di istituzioni in grado di mediare lo iato che lo separa da esso – e naturale in quanto storico – poiché la sua prassi storica è in tal senso l’espressione naturale della specie umana. In quanto il linguaggio è naturalmente l’istituzione per eccellenza, il materialismo di cui Mazzeo rivendica la necessità coincide allora con la delineazione di un’ “antropologia linguistica” (p. 9), ossia con l’elaborazione di una teoria dell’animale umano come animale linguistico, dove la natura linguistica di quest’ultimo rende appunto ragione della sua naturale storicità.

Secondo Mazzeo, il secondo Wittgenstein avrebbe più di ogni altro contribuito, all’interno della filosofia del Novecento, alla delineazione di una tale antropologia. Essa conterrebbe, tuttavia, delle oscillazioni notevoli, e necessiterebbe per questo motivo di un paziente lavoro di cernita, distinzione e sviluppo, talvolta in aperta polemica con alcune conclusioni di Wittgenstein stesso.

Si tratta dello stesso quadro teorico di riferimento che stava alla base del precedente testo sull’uso: e, come in quest’ultimo Mazzeo aveva mostrato la presenza in Wittgenstein di una teoria virtuosa dell’uso come innovazione e prassi trasformativa da distinguere tuttavia nettamente da alcune tendenze pericolosamente conservatrici della sua analisi, in Logica e tumulti egli procede ad un lavoro analogo rispetto alla nozione di storia naturale.

Da un lato, infatti, quest’ultima sembra prefigurare quell’antropologia linguistica in grado di fornirci le basi teoriche di un nuovo materialismo; dall’altro, essa sembra sovente refrattaria alla dimensione storica propriamente detta – intesa nell’accezione sopra riportata.

La diagnosi di Mazzeo, anticipiamo, è piuttosto perentoria: Wittgenstein resterebbe sostanzialmente “miope” rispetto alla dimensione della storia. Per questo motivo, egli conclude, “una nuova storia naturale può assumere la sua filosofia come punto di partenza e non di arrivo” (p. 9). Ciò non toglie tuttavia la possibilità di ricavare, attraverso un paziente lavoro di lettura, alcune promettenti aperture di Wittgenstein in tal senso, nella forma di deviazioni improvvise rispetto ad un quadro teorico antistorico e intessuto di affinità teoriche politicamente sinistre. I tre saggi principali del testo affrontano, da punti di vista diversi, precisamente questo lavoro di setaccio.

Nei primi due capitoli, Mazzeo propone uno studio innovativo dei rapporti teorici che legano la speculazione di Wittgenstein all’opera di Sraffa e Spengler, e che risultano particolarmente significativi per indagare il posto e lo statuto della dimensione storica nel pensiero wittgensteiniano.

Per quanto concerne il primo, Mazzeo attacca la tesi tradizionale che vede nel dissidio tra i due motivi di ordine personale, sostenendo come al contrario esso sia di natura squisitamente teorico-filosofica e sia anzi dovuto precisamente alla refrattarietà ostinata di Wittgenstein verso la dimensione della storia (pp. 29-32).

Riguardo al secondo, l’autore mostra come, se è vero che Spengler e più ingenerale la tradizione morfologica inaugurata da Goethe contribuiscano all’apertura del secondo Wittgenstein verso “la molteplicità delle forme culturali” (p. 64) e il carattere antropologico del linguaggio, essa lo influenza al contempo in una visione tipologica della storia che non solo ne neutralizza la materialità concreta riconducendola a forme fisse e idealtipiche di evoluzione, sviluppo e declino, ma è connotata da un conservatorismo politico dai tratti decisamente reazionari.

Nessuno spazio, dunque, per la storia nel pensiero di Wittgenstein? Il terzo saggio affronta finalmente di petto la questione, proponendo una disamina attenta del concetto wittgensteiniano in tal senso più promettente: quello di storia naturale. Mazzeo si immerge nel Nachlass per un esame filologico delle varie occorrenze del termine, individuandone tre accezioni distinte.

Se le prime due – una storia naturale di tipo tradizionale, che applica alla descrizione del linguaggio lo stesso metodo di elenco di faits divers inaugurato da Plinio il Vecchio nella Naturalis Historia, e una storia naturale in senso morfologico, che corrisponde appunto ad una descrizione delle forme di vita linguistiche in linea con il metodo di Goethe e Spengler – sono per Mazzeo evidentemente aliene alla dimensione storica, una terza accezione, seppur appena accennata, sembra fare infine segno verso un’ “antropologia filosofica che fa della tecnica parte intrinseca della nostra natura […] e che segna un discrimine tra vita genericamente animale […] e vita umana” (p. 91): ossia, verso quell’antropologia linguistica che, secondo Mazzeo, costituisce fondamento necessario di un nuovo materialismo storico. In uno strappo improvviso, Mazzeo ne propone alcuni tratti definitori, che si dipartono dalla disamina filologica in senso stretto e concludono il testo con una prima esplorazione delle implicazioni e dei possibili sviluppi del concetto wittgensteiniano in oggetto (pp. 94 ss.).

Sottolineiamo i più importanti. Innanzitutto, “la storia naturale umana ha un carattere performativo”, in quanto la nostra natura specifica coincide (necessariamente) con un agire storico, paradigmaticamente rappresentato dalla prassi linguistica che istituisce costantemente il nostro mondo storico; questo carattere storico e dunque performativo della nostra natura determina poi uno scarto “tra fatti e regole della storia naturale umana”, poiché la normatività che pure esibiscono le nostre pratiche non può mai coincidere con una applicazione meccanica o con un istinto animale, configurandosi piuttosto come sedimentazione storica suscettibile di trasformazione; lo stesso carattere storico-naturale dell’animale umano, infine, tradisce sia la natura “poco pratica”, neotenica della nostra prassi, sia il suo essere radicalmente pubblica poiché necessariamente linguistica.

Logica e tumulti è un contributo di rilievo per diversi ordini di motivi. Lo studio arricchisce un cantiere di ricerca coerente, originale e stimolante, ma soprattutto individua la questione decisiva che è necessario porre oggi all’opera di Wittgenstein, poiché da essa dipende la sua attualità, nonché la sua utilità teorica e pratico-politica: ossia, quella del materialismo e della sua natura storica.

E, tuttavia, la risposta di Mazzeo non è immune da obiezioni. Quest’ultime riguardano la diagnosi in sé, riconducendone tuttavia le criticità ad alcuni nodi problematici nel paradigma interpretativo di partenza da cui la ricerca di Mazzeo, inaugurata nel testo sull’uso, prende le mosse. Non potendo diffonderci, in questa sede, in una trattazione approfondita, ci limitiamo ad alcuni accenni che dovrebbero però tracciare almeno il quadro generale dei nostri rilievi critici.

La lettura di Mazzeo procede, come abbiamo visto, trattando il secondo Wittgenstein come espressione di una ricerca di natura antropologica sul linguaggio. Tale presupposto interpretativo – d’altronde molto diffuso – presenta un problema piuttosto evidente, e che risalta bene anche nel testo di Mazzeo: esso non sembra poter dare ragione della “tesi” wittgensteiniana, ripetuta in continuazione fin dal Tractatus, secondo cui la filosofia non è affatto una dottrina – essa non avanza alcuna tesi – , ma è piuttosto un’attività terapeutica. Per converso, se si prende alla lettera tale assunto, diventa molto difficile pensare che l’ultimo Wittgenstein volesse davvero descrivere un’antropologia linguistica (che, in quanto tale, sarebbe per l’appunto una dottrina, e ben sostanziale, sulla natura del linguaggio).

Per tal motivo, si capisce bene perché Mazzeo tenda a glissare su questo aspetto dell’opera di Wittgenstein. Così facendo, tuttavia, l’autore si costringe non solo ad una mossa interpretativa quantomeno sospetta, ma ad ignorare pressoché del tutto un’intera linea di lettura della critica wittgensteiniana recente, quella detta del New Wittgenstein, che negli ultimi decenni ha acquisito un ruolo sempre più inaggirabile negli studi sull’opera del viennese, e che si basa proprio sulla necessità di prendere sul serio la tesi wittgensteiniana sulla natura terapeutica della filosofia. Ed è un peccato, perché tale tradizione interpretativa ha indicato piuttosto chiaramente un’altra strada verso un possibile materialismo wittgensteiniano.

Secondo autori come Cavell, infatti, scopo della terapia filosofica di Wittgenstein è quello di farci recuperare un certo rapporto – concreto, tattile, corporeo – con le nostre parole e più in generale con la trama di prassi e di relazioni con l’altro e con il mondo di cui sono intessute, un rapporto da cui siamo costantemente alienati dalla tendenza metafisica a cercare fondamenti assoluti, sovrumani, per i significati che compongono le nostre forme di vita condivise. 

Tale rapporto è raggiunto attraverso un riconoscimento inedito della nostra finitudine, del fatto che, come scrive Wittgenstein in un passo celebre, le forme di vita siano “il dato, ciò che deve essere accettato (hinzunehmende)”. Solo riconoscendo in tal modo la nostra finitudine è possibile ritrovare i significati che compongono le nostre forme di vita come nostri, ossia come finiti, infondati e dunque, per ciò stesso, in capo alla nostra responsabilità di produrli, rilanciarli, trasformarli. E tale riconoscimento è precisamente l’obiettivo di quel lavoro etico-politico su se stessi in cui consiste, per l’appunto, la filosofia come terapia.

Ora, secondo questa linea interpretativa, il riconoscimento della finitudine delle nostre forme di vita è ciò in cui consiste, propriamente, il peculiarissimo realismo wittgensteiniano (Diamond). È vero, anche di questo realismo è possibile dire che la dimensione storica rimane quantomeno non tematizzata esplicitamente; altrettanto vero, però, è che esso sembra dar conto in maniera più comprensiva dell’itinerario concettuale di Wittgenstein, rispetto all’opzione tratteggiata da Mazzeo.

Esso, infatti, se da un lato risuona con quella performatività, con quell’attività produttiva di creazione del senso che Mazzeo ritrova in una certa accezione del concetto di storia naturale, dall’altro non è espressione di un’antropologia linguistica, quanto l’esito della trasformazione di se stessi che la terapia filosofica permette di ottenere.

Cosi facendo, per altro, questo tipo di letture configura tale realismo come un concetto critico, in quanto indica in un certo rapporto con noi stessi, con la nostra espressione e con il mondo (nell’inestricabilità di queste dimensioni) il fondamento normativo dell’attività terapeutica della filosofia.

Rispetto all’interpretazione proposta da Mazzeo, infine, questa lettura sembra non prestare il fianco ad una obiezione – questa volta non strettamente parlando filologica, ma politica – a cui il materialismo di Mazzeo pare invece decisamente vulnerabile. C’è, in effetti, qualcosa di sinistro in questo animale naturalmente tecnico, il cui rapporto con il mondo è mediato necessariamente da una prassi costruttiva e innovativa.

Sembra infatti lecito chiedersi se un’antropologia del genere non rischi di naturalizzare e di rendere addirittura biologica una certa idea di homo faber, impegnato a colmare tecnicamente quella negatività che ci fa umani – naturalmente storici – attraverso una prassi necessariamente prometeica poiché finalizzata a ridurre lo scarto tra mondo e ambiente. Ma è davvero di un materialismo del genere che abbiamo bisogno nel pieno della crisi ecologica? O non forse di un realismo nuovo, che definisce una certa condizione di finitudine in rapporto al mondo e al senso come fondamento normativo della filosofia come critica?

Una critica del genere, che ci permettiamo di muovere al testo di Mazzeo, non fa in ogni caso che confermare quanto dicevamo poco sopra: il fatto che esso interroghi l’opera wittgensteiniana dall’angolo prospettico giusto, ossia quello in grado di riportarla al centro dei nostri dibattiti più urgenti.