Svincolarsi, oggi. Sul solitario e il vagabondare
Ubaldo Fadini

09.05.2021

C'è una poesia di Nietzsche – Il solitario – che ricordo spesso:
“Mi è odioso tener dietro e anche condurre
Obbedire? Io no! Né – governare!
Chi a sé non fa spavento non spaventa:
conduce gli altri solo chi spaventa.
E condurre me stesso a me è già odioso!
Io amo sperdermi per lunghi tratti
come in mare e nei boschi gli animali,
rannicchiarmi in beate fantasie,
poi attirarmi a casa da lontano,
e sedurre me stesso – a ritrovarmi”.
Sperdersi, rannicchiarsi (la fantasia contrae... e così facendo libera, apre, sempre parzialmente) e poi l'attirarsi a casa (“sempre da lontano”: in un qualche modo) e il sedurre/ritrovarsi senza condurre/condursi. E ancora: la scrittura, con quel suo passo decisamente errante, tipico del vagabondare. Forse con l'illusione di lasciarsi effettivamente qualcosa alle spalle quando diventa sempre più evidente che l'unico lascito è quello del camminare, del “passatore” e delle sue ombre. Modo, tra altri, del divenire “inumano”, sollecitato, per quanto mi ri/guarda, dalle ambiguità delle case e delle città, dal collocarsi provvisorio di quelle forze “non-umane” che fanno turbinare come il vento, per riprendere prima di tutti Renato Fucini.

A me interessa l'essenziale, sobrio, pragmatismo del “passatore” soprattutto nel momento in cui l'infinito, per dire così, si fa “ora”, riprendendo Gilles Deleuze e Félix Guattari, rendendo la “camminata senza fine”. Forse non esistono più le “zone di mezzo” nelle quali la solitudine del viandante dà prova di sé nel confronto con le imposizioni abituali, correnti, di limiti e doveri, così come scriveva Pasolini nei suoi Versi del testamento, quando sviluppa la sua fenomenologia del camminare nei termini seguenti: “Non c'è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani”.

Le zone di mezzo care allo scrittore bolognese (e “friulano”...) si delineano, con tutte le difficoltà della contingenza che si sta vivendo, anche e soprattutto all'interno del territorio urbano (non c'è altro ormai, al di là di tutte gli effetti di spaccio... e proprio a causa di quest'ultimo) e allora vale il tentativo di cogliere ciò che vi transita e che può turbare gli ordini del momento e i loro indefessi porta-voce.

Ho iniziato ad affrontare questo tema in un mio libro di qualche anno fa, Il futuro incerto. Soggetti e istituzioni nella metamorfosi del contemporaneo, nel quale portavo ad espressione il motivo esistenziale (e non il “vissuto”) del mio ciondolare, del mio andare oscillando di portone in portone senza cercare però di “condurre me stesso a me”. Erano già presenti alcuni degli autori per me
imprescindibili, da Robert Walser a Walter Benjamin, da Arthur Rimbaud a Raymond Carver, con sullo sfondo la figura inesauribile di Ferruccio Masini. Ma altri ne dovrei nominare, che stanno al centro del mio tentativo di muovermi con il “vento che cammina”, ma qui vorrei soprattutto insistere su alcune delle osservazioni di Che cos'è la filosofia? nelle quali Deleuze e Guattari rilevano come sia proprio delle città un loro decisivo effetto di “svincolamento”.

E' a tale effetto che mi riferisco, consapevole del fatto che non può che “sfigurare”, mostrificare, la soggettività che se ne lascia attrarre. E' un rischio o un pericolo da correre, dipende dalle capacità di una sua assunzione concreta oppure dal suo impatto ai limiti dell'ingestibile. I due studiosi della “letteratura minore” indicano nella città la possibile realizzazione – ancora oggi: aggiungo – di una deterritorializzazione che “si produce in linea di immanenza” (non in “linea di trascendenza”, in “altezza”, “secondo una componente celeste della terra”).

Certamente il rimando è alla Polis greca e allo Stato imperiale, ma a me interessa pre/levare da tale contesto l'idea dell'“autoctono cittadino”, espressione della “potenza della terra”, che non può che fare appello, a sua volta, a degli stranieri in fuga. Cosa vale insomma dell'esempio classico della Città (e dell'autoctona Atene)? A me sembra che possa essere ripreso il motivo di una deterritorializzazione che forma, procedendo per immanenza, un “ambito” nel quale si ritrovano figure di libertà e di mobilità, stranieri in fuga, artigiani e mercanti, dispositivi di intelligenza pratica e sociale e poi anche “filosofi”.

Sappiamo come tutto ciò abbia vissuto delle vicende storiche che hanno portato oggi a vette impensabili di sovradeterminazione dei suoi contenuti ma di quelle pagine dei due filosofi francesi mi pare opportuno riprendere proprio il motivo dei “filosofi”, che traduco così, dalla parte del rifiuto della servitù oltretutto non più semplicemente “involontaria” bensì accuratamente coltivata: se pensare significa tendere (“un piano di immanenza”: si diceva una volta...), allora si pensa nello “sperdersi”, in ciò che appunto il concetto raccoglie tra la deterritorializzazione e il bisogno relativo – e parziale – del suo riterritorializzarsi, trattenendo quelle relazioni e composizioni che ne costituiscono l'eventuale consistenza interna e assicurano anche la possibilità di collegamenti con altri concetti.

Fuoriuscendo però da tale ordine di ragionamento, per ritrovarmi un po' altrove, con il soffio proprio di un vagante, per riprendere appunto un vagabondo senza riserve, ecco che il pensare si dà come un desiderio di andarsene via, di non fermare semplicemente con le parole l'incanto dell'incognito, del muoversi che si coniuga con l'inatteso, anche quando lo si ritiene prevedibilmente sconfortante (e va bene pure così: per/nel vagabondaggio di tutti i giorni, finché ci sarà sole e aria).