12.02.2021
Sulle tracce di Blu
Enrico Camprini
Blu, La Pandemia, Campobasso, 2020, particolare, courtesy l’artista

Tracce di Blu (Postmedia books, 84 pp.) di Fabiola Naldi è un libro tanto breve quanto utile. Sgombriamo subito il campo da eventuali fraintendimenti: la parola utile potrebbe far storcere il naso a chi rivendica, non a priori a torto, la vocazione disinteressata delle cosiddette discipline umanistiche e potrebbe scorgere in tale termine una qualche superficialità. Si tratterebbe però di mera retorica, perché nel caso di questo testo non è per nulla difficile riconoscere il fatto che problemi legati alla sfera artistica, critica e curatoriale, nel loro dispiegarsi, siano funzionali e si rivelino fondamentali per comprendere qualche cosa in più, affinare la nostra consapevolezza, su una questione molto più generale e oggi cruciale come quella legata allo spazio pubblico in sé. L’autrice stessa afferma di non avere scritto un libro su Blu: dunque non una semplice breve monografia ma una raccolta di scritti, alcuni già pubblicati, in cui certo l’artista occupa una posizione di primo piano ma che, nel ripercorrere tappe specifiche della sua vicenda, mira a costruire una sorta di vademecum estetico e culturale attraverso cui non solo tracciare le coordinate essenziali di un percorso creativo, ma soprattutto mettere in campo alcune problematiche estremamente attuali che l’arte urbana riesce a far affiorare.

I cortocircuiti che alcune operazioni sullo spazio pubblico possono generare sono la vera questione che emerge dal testo e – in merito alla figura di Blu – trovano un’espressione concreta e simbolica negli ormai celebri fatti del marzo 2016 a Bologna, nel grigio che ricopre le opere dell’artista in città, da lui cancellate per protesta contro una mostra di street art che avrebbe a breve inaugurato anche con la presenza opere “staccate” senza permesso. A questo gesto Naldi riserva un’analisi per la conclusione del libro, come è certo giusto che sia, perché in quell’evento tutto sommato recente si può senz’altro individuare proprio un caso specifico di esplosione, quasi una sintesi, di quei cortocircuiti interni alla street art – termine non così corretto, vedremo – e al rapporto di una comunità con gli spazi che abita. Ma tutto questo è ben chiaro sin dall’inizio del testo, in cui sono poste premesse fondamentali attraverso due voci – quelle di Gustav Metzger e Pierre Bourdieu – che rappresentano poli concettuali specifici: il primo relativo al nesso tra arte e autodistruzione, che contribuisce a definire una peculiarità intrinseca alle pratiche artistiche nello spazio pubblico non ancora, almeno secondo una vulgata mainstream e poco attenta, del tutto riconosciuta. Il secondo invece ci permette di concentrarci su tali pratiche avendo bene in mente che una loro contestualizzazione al di fuori di una più ampia prospettiva sociologica condurrebbe ben lontano dal centrare il punto.

Blu e JR, Brothers, Kreuzberg (Berlin), 2007, courtesy l’artista

Concetti come quello di habitus, e le sue articolazioni in capitale culturale, simbolico ed economico, sono essenziali e la città nel suo complesso è lo sfondo trasformativo e la chiave di volta di tutte le operazioni e le vicende – anche quelle legate a occasioni più istituzionali – trattate nel testo. Il problema, che l’autrice, seguendo Bourdieu, individua nel conflitto sempre più serrato tra le diverse forme di capitale, non è inedito nella storia dell’arte dell’ultimo secolo, ma è innegabile che in tempi piuttosto recenti il progressivo mutare del rapporto tra interventi nello spazio pubblico e sfera estetica, sociale e politica abbia posto in essere il conflitto in maniera paradigmatica: «Di questo parlo nel libro e, indipendentemente dal gesto radicale di Blu a Bologna, il divario insormontabile tra queste due tipologie di capitale è sempre più evidente, anche per colpa di contesti che si credono simbolici e sono, al contrario, totalmente economici» (p. 6).

E per parlare di questo – cioè di come le operazioni artistiche di Blu e altri costituiscano un capitale culturale, una visione della società e una posizione non negoziabile – Naldi non può non dedicare spazio anche a un inquadramento generale dello sviluppo della cosiddetta street art. Restiamo fedeli anche qui al nostro pragmatismo iniziale: l’utilità del testo si conferma non solo in merito alle riflessioni intorno allo spazio pubblico, ma anche per i sacrosanti chiarimenti terminologici sulla complessità e la molteplicità delle pratiche artistiche che, troppo spesso, vengono erroneamente accomunate con l’etichetta di street art. Writing, lettering, stencil art, drawing art, poster art hanno una loro specificità culturale e stilistica che non può ridursi alla semplice dimensione estetica; dimensione che pare caratterizzare, seppur non nella totalità dei casi, il recente successo mediatico dell’arte urbana, cavalcato e rinfocolato anche da istituzioni e sistema dell’arte. In questo senso la posizione di Naldi è chiara nel rilevare, pur senza ripiegare in un dannoso «oltranzismo estetico», una preoccupante tendenza speculativa che vede «un impoverimento culturale a favore di un arricchimento quantitativo atto a cavalcare “l’onda anomala” del compiacimento visivo» (p. 64).

Il punto allora non è certamente osteggiare per principio la forte diffusione di operazioni di arte urbana, né negare il valore della collaborazione tra artisti e istituzioni in progetti ben strutturati in relazione col territorio, quanto piuttosto di comprendere come alcune dinamiche possano o meno inficiare l’efficacia delle operazioni stesse, non solo in senso stilistico ma soprattutto in senso sociale e politico. Torniamo allora all’inizio, e alla fine, all’idea di un’arte autodistruttiva di cui le cancellazioni di Blu sono un esempio forse non voluto, ma quanto mai evidente: un gesto radicale che ha messo bene in risalto il tentativo di trasformare un capitale culturale in capitale economico e, forse ancora peggio, di trattare un lavoro di drawing art come un affresco, dimenticando il suo profondo legame con i muri bolognesi – quello dell’ex XM24 in particolare – e con chi percorre le strade della città. Tracce di Blu fa dell’analisi di una multiforme esperienza creativa un’occasione per ragionare sul significato dello spazio pubblico oggi; dall’onnipresente, e sempre meno comprensibile, termine “decoro” come leit motiv dell’amministrazione delle nostre città-vetrina, ai processi di gentrificazione in atto. La figura dello street artist, che sia Blu o qualcun altro, è quella di un operatore culturale in grado di far emergere le criticità del presente e, per suo conto e collettivamente, votato al tentativo di cambiare un paradigma estetico. Le cancellature grigie, per quanto non opere in se stesse, fanno parte della prospettiva di una modifica delle consuetudini percettive di chi guarda: non un pubblico, ma la cittadinanza.