Sul piano obliquo. Tra Deleuze e Simondon
Rosella Corda

12.03.2022

INTRODUZIONE


Obiettivo di questa ricerca è tendere un piano di costituzione possibile dei processi di soggettivazione, per indagarne le fasi e le caratteristiche attraverso un metodo genetico e un approccio interdisciplinare: tra H. Bergson e G. Simondon, con G. Deleuze, mettendo a fuoco sia i grandi mutamenti nell’impianto epistemologico delle scienze contemporanee, dall’affermarsi delle geometrie non-euclidee fino al dibattito sui fondamenti della fisica quantistica della prima parte del XX secolo, sia l’avver-timento che tali stravolgimenti comportano in termini di riflessione filosofica: estetica e politica.

Si tratta di rinvenire, rilanciando la critica, quelle condizioni tali per cui una serie di processi di soggettivazione, intesa questa come dinamica di costituzione della soggettività e del soggetto, possa darsi.

Il discorso trova il suo inizio e poi il suo sviluppo in una estetica primordiale dell’immagine, quale indice problematico della visibilità possibile di questo processo soggettivante, secondo l’obliquità di una vertigine tra il preindividuale e l’individuale. Si è ritenuto opportuno, allora, punteggiare il testo attraverso queste immagini per momenti-privilegiati, in modo da rendere il senso di una narrazione composta su più livelli: dipinti, schemi, fotogrammi che potessero fungere da porta-segno, ritornello, mappa, tavola.

Si è partiti, dunque, dal cominciamento per immagini del bergsoniano Materia e memoria, allo scopo di avviare una riflessione che non fosse solo descrittiva ma pro-duttiva. La scena è dunque quella di un non-ancora della figura, per capire come e se possano temporalizzarsi una figurazione, una defigurazione o una trasfigurazione per una soggettivazione possibile.

Le immagini bergsoniane non sono né εἶδος, idea, oggetto del conoscere, né εἴδωλον, immagine-simulacro intesa come oggetto della visione; e non si tratta soprattutto della radice che, platonicamente, presiede a questa distinzione, ovvero il fondamento di un λόγος dell’ίδεῖν, essendo, la fenomenologia iniziale di Materia e memoria, un tentativo sostanziale di sfuggire antefatti egologici e prospettare, così, un piano dove sia realizzabile il superamento di ogni dualismo e dove siano pensabili sia il concetto di relazione, sia i termini, materia e memoria, da porre in relazione.

Le immagini con cui abbiamo aperto sono perciò puramente affermative, non sono dunque oggetto di una immaginazione che deve negare il reale per riprodurre il pensiero, ma la scintilla che accende il piano del reale producendo immaginabilità nel pensiero riflettente che ne è riverbero. Bergson, partendo dalla pura percezione intesa come azione di un corpo (centro biologico interessato) e non come contemplazione di un soggetto conoscente (distaccato e disinteressato), inaugura un luogo dove di diritto il contatto è una relazione di immagini: quelle percettive e quelle della materia. Il cominciamento per immagini assume quindi una valenza strategica, al fine di superare sia il cominciamento realista che quello idealista e scongiurare derive dualistiche o monistiche che, in un caso come nell’al-tro, misconoscono il tema fondamentale della relazione fra materia e memoria, cervello e spirito.

La serie di immagini che abbiamo montato a partire dalla pura percezione mostra come di fatto essa sia esposta a una durata e, dunque, a una rifrazione temporale. Dalla percezione si passa, così, prima a dei calchi, delle immagini duplicate, poi a delle immagini accumulate che si stratificano nella virtualità di un passato immemoriale, quindi a delle immagini-tempo pure. Affinché la percezione sia possibile, ovvero passi, occorre che il flusso delle immagini resti. Il cono bergsoniano della memoria è la mappa di questo funzionamento e una prima figura della soggettivazione. Il piano della temporalizzazione di questo corso, allora, non può essere né cartesiano, né newtoniano, né kantiano.

È messo in questione, nella definizione di questo “progresso”, per usare il termine bergsoniano riferito al divenire, non solo il tempo, ma lo spazio come categoria fondamentale. Bergson, per riferirsi alla sua durata, parla di molteplicità qualitativa, in opposizione a una molteplicità numerica. In realtà, il suo gesto problematizzante e sostanzialmente critico trova un corrispettivo nella contestuale crisi del piano delle nascenti geometrie non-euclidee. Pertanto, si è ritenuto necessario approfondire il riferimento alla molteplicità riemanniana, che ricorre a partire dalle pagine del Saggio sui dati immediati, per contestualizzare l’approccio bergsoniano, alle categorie di spazio e a tempo e alla questione del movimento e della durata reale, nella fase di ripensamento generale delle matematiche e delle geometrie di fine Ottocento.

La nascita delle geometrie non-euclidee rivela come una insufficienza dell’assetto epistemologico orientato al piano cartesiano, alla fisica newtoniana e al trascendentalismo kantiano, fosse avvertita e condivisa a più livelli. Si è ripercorsa, quindi, la genesi di queste nuove geometrie a partire dalla problematizzazione dei postulati della geometria classica elaborata da Lobačevskij.

Con Riemann, in modo particolare, abbiamo messo in evidenza la generalizzazione di questo nuovo assetto. Contro quello che potremmo immaginare un essenzialismo metafisico degli assiomi, egli sostiene si debba risalire alla natura delle relazioni tra i concetti elementari della geometria. L’introduzione della nozione di grandezza molteplicemente estesa, ovvero della nozione di molteplicità (Mannigfaltigkeit) in riferimento ai modi di determinazione di un concetto generale qualsiasi, risponde a questa esigenza. A una critica radicale dei fondamenti della geometria, fa seguito la realizzazione di un metodo di valutazione immanente, da cui scaturisce una prospettiva pluralista circa le metriche possibili e gli spazi ipotizzabili.

La generalizzazione di Riemann offre l’opportunità di reinquadrare il piano cartesiano come una regione di un piano e di uno spazio più vasto e complesso, dotato di diverse curvature possibili.

Si è voluto riposizionare su questo piano – “obliquo”, perché complesso e a geometrie variabili – il cono della memoria bergsoniana, quale espressione di una nuova critica per una soggettivazione possibile tra filosofia ed epistemologia, adottando l’immagine dell’otre di Klein come porta-segno di questa figurazione.

La relazione-distinzione tra corpo e spirito, resa mediante una rifrazione temporale delle immagini, si spiega alla luce di una proto-teoria della materia cui Bergson fa accenno in sintonia con le nuove ricerche in fisica e chimica. La materia stessa, infine, dura, poiché la molteplicità della durata si rivela quale piano unico e plurale in cui diverse tensioni, intensità, densità, velocità sono possibili. La grana del reale restituisce un’esten-sione concreta fatta di cambiamenti di tensione ed energia. Ed è su questo punto che convergono la serie di immagini della memoria e quella della percezione, la pura percezione e la pura memoria:

Nessuna teoria della materia sfugge a questa necessità. Riducete la materia a degli atomi in movimento: questi atomi, anche se sprovvisti di qualità fisiche, tuttavia si determinano soltanto rispetto ad una visione e ad un contatto possibili, quella senza illuminazione e questo senza materialità. Condensate l’atomo in centri di forza, dissolvetelo in vortici che si evolvono in un fluido continuo: questo fluido, questi movimenti, questi centri, si determinano, anch’essi, soltanto rispetto ad un tatto impotente, ad un impulso inefficace, ad una luce scolorita; sono ancora delle immagini 1.

L’immagine per un inizio, allora, si è rivelata essere un lucore differenziale: più che un limite dell’immagine, sul limite dell’immagine per una soggettivazione possibile, dove il possibile non è il contrario di reale, ma una sua virtualità. Si tratta di quella differenza reale, di natura, che può essere colta solo attraverso il metodo dell’intuizione filosofica, che con il Deleuze del bergsonismo, si è definito come “godimento della differenza”.

Il problema del soggetto, su questo piano, si è posto come ripensamento della nozione stessa di problematico non più articolabile secondo i termini di una metafisica nichilistica. Esso va riformulato, nell’ottica di una soggettivazione intesa come processo aperto, vertigine su piano di immanenza, non come cominciamento egologico ma come produzione del nuovo. Il problematico è infatti il campo stesso, vitale, delle soluzioni dove si profila la differenziazione possibile. Più che un inizio, la soggettivazione è un processo di integrazione e differenziazione sempre nel mezzo.

Il secondo capitolo prende le mosse proprio da questo piano percorso da forze e tensioni, per ricostruire le trasformazioni attraverso cui il concetto di forza passa fino a diventare un principio empirico-trascendentale di funzionamento relazionale-energetico del piano di immanenza.

L’analisi riprende il tradizionale significato del concetto di forza presente nella scienza e nella filosofia moderne, per arrivare alla nozione di campo. Parallelamente, è ripreso il passaggio per cui, da una meccanica delle forze e del campo di forze, si passa al vitale campo di forze che si realizza come lotta per la sopravvivenza nelle teorie biologico-evolutive della seconda metà dell’Ottocento. Il paradigma di una fisica della forza trova eco in Bergson da un lato, inteso come pseudo-energetismo, e come principio della volontà di potenza in Nietzsche.

Un avvicinamento Bergson-Nietzsche è qui prospettato allo scopo di porre in evidenza come il principio del funzionamento del piano di immanenza sia una “forza dissonante”, per cui, ancora una volta, l’imma-gine per un inter-mezzo in vista di una soggettivazione possibile si presenta come “lucore differenziale”.

Il funzionamento della soggettivazione in Nietzsche è messo a fuoco nel confronto fra le due impostazioni esegetiche: heideggeriana da un lato e deleuzeana dall’altro.

A questa prima parte del secondo capitolo fa seguito una seconda parte, dedicata al salto quantico dell’individuazione in G. Simondon. Se il gesto critico-filosofico bergsoniano si fa largo in linea con la crisi delle geometrie euclidee del XIX secolo, la prospettiva simondoniana, a maggior ragione per via della chiara impostazione epistemologica, si comprende alla luce dei fondamenti della meccanica relativista ma, soprattutto, della fisica dei quanti per come questa si andava assestando nella prima metà del XX secolo.

Il tema della “dissonanza” nel funzionamento della soggettivazione in Nietzsche e il modello bergsoniano di una metafisica empirica ricadono nel paradigma dell’individuazione simondoniano, imperniato sul concetto di realtà della relazione.

Per entrare, dunque, in quella che abbiamo definito l’officina dell’allagmatica di Simondon, ovvero la sua epistemologia operazionale, abbiamo ripreso i termini del dibattito circa i fondamenti della nuova fisica, che ha imperversato durante la prima metà del XX secolo, coinvolgendo figure di spicco quali A. Einstein e N. Bohr. La questione riguardava l’accettabilità o meno del carattere non localistico e indeterministico della teoria. Per Einstein, che confidava nella possibilità di pervenire a una sintesi tra meccanica relativista e nuova fisica ipotizzando una descrizione realista dei fenomeni fisici, le caratteristiche di indeterminazione della teoria dei quanti andavano imputate alla sua incompletezza e dunque alla presenza di “variabili nascoste” che, a seguito di progressi nella ricerca scientifica, sarebbero state scoperte.

Per Bohr e la sua scuola, invece, l’indeterminazione presente nella teoria non era da ascrivere ad alcuna “variabile nascosta”, essendo strutturale. Simondon interviene in questo dibattito sposando il realismo di Einstein, colto attraverso la lettura di L. de Broglie, e connotando, come soggettivistica e relativistica, l’indetermina-zione di Bohr, Heisenberg e Schrödinger.

Al di là di come poi sia andata consolidandosi la teoria dei quanti, per cui, attualmente, la descrizione fisica del mondo sarebbe affidata a più modelli, essendo la realtà dei quanti qualcosa di diverso dalla realtà ipotizzata da Einstein – si considerino ad esempio il fenomeno dell’entanglement e del non-localismo –, il punto per noi decisivo è stato cogliere l’epistemologia storica di Simondon, ovvero il significato particolare del termine “quantico” che egli utilizza per tutti i livelli di individuazione messi in campo: fisico, vitale, psichico, sociale. In tal senso, si è esposto come il simondoniano paradigma della realtà della relazione funzioni nonostante la sua posizione contro – il presunto – “soggettivismo relativista” di Heisenberg denunciato dal de Broglie.

Il realismo della relazione di Simondon, nato in assonanza al realismo propugnato in fisica da Einstein, è in realtà “quantistico” e differenziale proprio come quel mondo aleatorio e bizzarro intravisto da Bohr. Infatti, perché possa presupporsi una realtà della relazione bisogna escludere il sostanzialismo soggettivista della fisica e della metafisica moderne. Ma è proprio questo a impedire ad Einstein di accettare la nuova realtà quantistica ed è proprio questo assunto a determinare il soggettivismo relativista e nichilista del pensiero moderno.

La realtà della relazione in Simondon, attraverso il suo metodo della trasduzione, superamento surlineare sia del sostanzialismo dell’induzione che di quello della deduzione, viene proposto qui come propedeutica per una soggettivazione possibile, tra epistemologia e filosofia. Il richiamo a G. Bachelard mette in luce il senso del costruttivismo della razionalità scientifica che non può non basarsi su di una epistemologia storica e una filosofia del non, alludendo a quelle necessarie coupures épistémologiques presenti nella narrazione del mondo che, perciò, non può che essere plurale.

Il “lucore differenziale” dell’immagine per un inizio e dell’immagine per un inter-mezzo torna qui come effettivo salto quantico nell’individua-zione simondoniana. Per “quantico” egli fa riferimento al fenomeno così definito da Planck, Einstein e de Broglie – e non, dunque, dalla scuola di Copenaghen. Si tratta, in Simondon, della correlazione tra energia e struttura, che diventa ontogenetica.

La relazione, in Simondon, è il cominciamento. Egli propone un retournement dal principio dell’individuazione all’individuazione come principio, intendendo questa come operazionale, relazionale, allagmatica, trasduttiva. Attraverso una critica serrata al paradigma ilomorfico, egli elabora il modello dell’individuazione secondo un superamento della forma attraverso l’in-formazione quale elemento in grado di portare con sé la singolarità che innesca la trasformazione. Scrivendo “in-formazione” si vuole alludere al processo differenziale e operazionale della comunicazione inteso da Simondon, per cui si tratta di captazione e trasduzione di soglie intensive. È la metastabilità dei sistemi a produrre in-formazione e a renderla ricevibile.

Nel terzo e conclusivo capitolo, l’individuazione simondoniana, elaborata al livello di una fisica, è prospettata come allagmatica per una soggettivazione possibile, sia a livello psichico che sociale, tenendo insieme, obliquamente, epistemologia, estetica e politica.

Le immagini per una soggettivazione possibile sono allora i “lucori differenziali” e le immagini-cristallo deleuzeani. Deleuze, muovendo un duro attacco all’immagine-dogmatica-del-pensiero e riproponendo, per contro, nell’estetica dell’Immagine-tempo, l’immagine-cristallo, in realtà rilancia l’opportunità di una diversa immagine del pensiero, che appunto non sia quella dogmatica della tradizione sostanzialista, soggettivista, metafisica moderna.

Sull’obliquità del piano di immanenza può darsi quel po’ di possibile, all’indeterminativo, per il divenire di una soggettivazione cui non sia soffocato il respiro – e la prospettiva simondoniana ne mostra tutte le risorse relazionali di pre-figurazione e figurazione.

Ancora sul piano delle immagini, si sono richiamate quelle delineate dall’antropologia-filosofica contemporanea, che tenta, attraverso un grande sforzo di visione, di richiamare il tema dell’umano per porlo radicalmente in questione, nonostante quei limiti così ben evidenziati da Heidegger; per infine ri-posizionare la visione sui generis di Simondon nell’ambito dell’immaginario di una antropologia post-umana.

Lungo tutto il discorso, a parte gli schemi e le mappe, le immagini porta-segno sono state riproposte, a tratti, come ritornelli. L’otre di Klein, la trottola del film Inception, i dadi, richiamano l’aspetto decisivo del piano per una soggettivazione possibile: esso è uno spazio ripiegato sulla quarta dimensione, senza “interno”, in cui il “fuori” in cui ci svita il suo interno fittizio coincide, forse, proprio con la sua chance di futuro.


1 H. Bergson, Materia e memoria, a cura di A. Pessina, Roma-Bari, Laterza 2018, p. 27.



©Rosella Corda, Sul piano obliquo. Tra Deleuze e Simondon, Clinamen 2022