Singin’ in the Rain, buona l’ultima
Caterina Ferro

26.12.2022

Devono essere passati forse quarant’anni dalla prima: la mia prima volta di Cantando sotto la pioggia, quando passavano i musical in tv e l’unica a vederli ero io, insieme a mia madre, mentre i miei fratelli si ribellavano a un genere che li annoiava. Oggi l’ho rivisto in versione restaurata e mi è sembrato molto meglio di come lo ricordavo: per quasi due ore ho sentito il viso disteso e sorridente, con un effetto estatico simile a quello di una flebo di morfina per alleviare il dolore. E ho capito perché, anche se non lo ricordavo, ho amato tanto prodotti recenti come The Artist e La La Land, che al capolavoro di Gene Kelly devono molto.

Singin’ in the Rain è un film strepitoso, totale, assoluto. Ed è un film meta. Ibrido come tutti i musical, attraversa generi ed epoche usando la chiave di una fascinazione virtuosa i cui vezzi non cedono alla leziosità. Pieno carico saturo fino all’inverosimile di luccichii, colori, suoni, costumi, danze, gag, canzoni, scene, smorfie, acrobazie, contiene tutto il cinema - che è pellicola muta e poi sonora, case di produzione, stunt-men, sale di registrazione e microfoni, ciak e colonne sonore, presa diretta e doppiaggio, star system e gossip montato ad arte, fan in delirio e dive capricciose - e il suo presunto contrario, il teatro : che è mimo, varietà, coreografia, quinte e sipari, palcoscenico e orchestra, camerini, pubblico parlante, applausi e fischi. Un’antitesi apparente che si incarna nel personaggio di Kathy (Debbie Reynolds), sedicente aspirante attrice teatrale, la quale maschera dietro un finto disprezzo intellettuale l’ambizione e la passione mortificate dalla necessità di sbarcare il lunario saltando fuori dalle torte e sgambettando in abiti succinti alle feste dei vip. Contiene tutto il cinema, dall’infanzia etimologicamente senza parola alla faticosa quanto rapida conquista della voce, che si fa inaspettatamente prepotente e insidiosa, negando traumaticamente il proprio passato: una biografia spinosa che prende forma nel personaggio di Lina Lamont (Jean Hagen), imbarazzante primadonna dalle corde vocali difettose e dizione incorreggibile, che prova il salto di qualità autoproclamandosi produttrice a suon di minacce legali e giochetti meschini. Contiene tutto il cinema e la sua industria, fabbrica di sogni e luogo di deriva morale, nella figura del protagonista Don Lockwood (Gene Kelly), che si inventa prima controfigura, poi in maniera del tutto naturale diventa attore dalle mille risorse, mentre l’idolatria delle folle lo legittima e quasi lo inchioda al ruolo di sex symbol, quindi molestatore e seduttore, seppur maldestro e subito pentito.

In questo acquario si muovono comprimari che irradiano luce e danno la scossa, elettrici come anguille e pulsanti come meduse, come Cosmo (Donald O’Connor), clown superdotato, supersnodato e rimbalzante, e l’ignota sposa-ballerina del sogno di gloria del protagonista, cameo di una Cyd Charisse in particolare stato di grazia. Oltre che con due gambe da paura. Ed è un film meta: cinema sul cinema. Cinema storico che fa storia del cinema, citando esplicitamente Il cantante di jazz, motore del dinamismo del protagonista, contemporaneità in chiara divergenza da una tradizione di film in costume, di cappa e spada, cespugli finti e parrucche: folgorante la battuta di Lisa (proprio lei), infastidita dal trucco di scena, sulla cretinaggine di chi nel passato portava le parrucche. Cinema storico che fa storia del cinema, denunciando retroscena e magagne, svelando segreti del mestiere, come il playback e il doppiaggio di attori e attrici che alla presenza scenica non accompagnassero gli standard richiesti per la voce. E lì la pellicola si inceppa e la sincronia tra immagine e suono si perde in un attacco schizofrenico dagli effetti esilaranti.

Cinema sulla moda: storia del costume a secchi nel numero di rivista che immortala in pose statiche da copertina glamour, veri tableaux vivants, le modelle che in fogge anni ’20, tra lustrini piume e pellicce, anticipano le minigonne e i colori sgargianti degli anni ‘60. Il film, ambientato nel 1927, è in effetti del 1952: visionario quanto basta. O forse solo scaramantico, sebbene a ritroso: consapevole di contenere, nello sfarzo euforico della messa in scena, il presagio della crisi del ’29, dal punto di vista privilegiato del boom economico del primo dopoguerra che negli anni ’50 l’America, scimmiottando sé stessa, replicava come modello su scala planetaria. Un film sociologico? Forse è un po’ troppo, ma è anche certo che l’unica scena in cui si alzano i calici appartiene al sogno di Don (quello in cui alla virginale Kathy si sostituisce inspiegabilmente la conturbante Cyd): se si eccettua la battuta di Cosmo sul sigaro del produttore, è un film praticamente senza alcol né tabacco. Il proibizionismo diventa virtù, in perfetta sintonia con l’atleticità dei personaggi.

Un film sportivo e salutista senz’altro: unica trasgressione l’eponima passeggiata sotto la pioggia che, chissà perché, suscita lo sguardo severo del poliziotto di turno a cui Don, farsescamente impaurito, risponde sfumando la sua mitica canzone non prima di aver regalato l’ombrello ad un passante. La pioggia suggella l’amore appena promesso a Kathy, per il quale vale la pena di rischiare una polmonite. Infine, un film sul teatro, che con il teatro e nel teatro si conclude. La scena finale è a dir poco epica. Per pochi secondi l’inquadratura del palco di scorcio da dietro le quinte seziona, con una precisione chirurgica, questa realtà col suo doppio: Lisa, l’attrice muta, al di qua del sipario; Kathy, la cantante, subito alle sue spalle, pronta suo malgrado a completarne l’esibizione scema; mentre i tre personaggi maschili, tramutati in spettatori, le spalle le mostrano alla macchina da presa.

Pochi secondi appunto e i tre si trasformano in siparisti: l’apertura della tenda a suon di corde evoca una danza di campanari che batacchiano a festa e si traduce di fatto in uno sfondamento della quarta parete. Il pubblico, finalmente, sa. Il sogno supera la finzione e si fa realtà, la menzogna viene svelata e l’amore e la virtù trionfano. La fine può essere scritta nell’ultimo fotogramma.