26.06.2025
“Una donna potente, schietta, originale, luminosa” capace di cogliere lo spirito del suo tempo, e diventare così il “simbolo di tutto il fertile smarrimento che si è aperto con il Novecento”. Il recente libro di Susanna Mati, Lou Salomé. Amare la vita (Feltrinelli, 2025) riporta in luce una figura straordinaria, che ha dedicato la propria vita al pensiero e alla ricerca intellettuale. Si tratta di un libro necessario, che viene a colmare una lacuna: una monografia aggiornata mancava nel panorama filosofico italiano, dove circolava, già a partire dagli anni Sessanta, la traduzione della biografia di Peters, Mia sorella, mia sposa, sull’onda della riscoperta di Nietzsche.
Susanna Mati, filosofa e scrittrice – fra i suoi lavori più noti, Friedrich Nietzsche. Tentativo di labirinto (2017), oltre alla riedizione delle opere, e Ninfa in labirinto (2021) – racconta una vita concentrandosi sugli “snodi cruciali” che emergono da una trama complessa. Con una scrittura al confine fra generi diversi – filosofia, letteratura, biografia – che si legge come un romanzo per la sua scorrevolezza e la passione che lo anima, ma è basata sul rigore filologico e linguistico, esamina una grande quantità di testi, lettere, articoli, documenti in modo dettagliato e puntuale, fino a restituire una personalità per molti aspetti sorprendente.
Del resto, è la stessa Salomé a travalicare i confini: la sua è una vita che una biografia non riesce a contenere, “una vita già romanzesca e romanzata all’origine”. Lei stessa scrive la sua autobiografia, pubblicata postuma, Lebensrückblick, Sguardo sulla vita, in cui propone “un’autonarrazione”, mescolando verità e invenzione, nel tentativo di ricostruire la propria esistenza. Testimoniato anche dal rogo di carte in cui, negli ultimi anni, bruciò ciò che non meritava di lasciare tracce.
L’amore per la vita, tema di fondo del libro, era già caro a Nietzsche: l’amor fati, l’accettazione gioiosa e appassionata del proprio destino, anche nei suoi aspetti negativi. Ma in Lou Salomé assume una valenza particolare: amare la vita significa “scrivere la vita, comporla, poetarla vivendo”. La composizione poetica permette di donare un senso al succedersi dei giorni che altrimenti scorrerebbero via senza significato. La scrittura è dunque “il segno attraverso cui la vita senza senso diventa conscia di sé”. Parafrasando Heidegger, Dichterisch wohnet der Mensch, si potrebbe dire, Lou abita poeticamente.
Ma questa creazione poetica è gioia, nota Susanna Mati. “La vita è forse qualcosa di diverso dal racconto che ne facciamo? Come distinguerla, sennò, dalla sua pura parabola biologica? Come conservarne, altrimenti, la dimensione fondamentale di gioia?” La scrittura salva la memoria, gli istanti di letizia, fa sì che non vadano perduti. Ma la gioia più alta, sublime, è quella della creazione, della Dichtung. Il vissuto poetico diventa così il “solido fondamento dell’esserci”: è da qui che nasce quella forza vitale che spinge ad agire, ad affermare la propria potenza. Se risuona l’eco di un pensatore come Spinoza, il riferimento più esplicito è però al Wille zur Macht di Nietzsche che, al di là di tutte le interpretazioni fuorvianti è, nel suo significato più autentico, una forza creatrice. Proprio in virtù di tale “eros senza confini” l’immagine di Lou resta ancora oggi un simbolo di vitalità. La sua “intelligenza gioiosa” evita di scivolare negli abissi, se ne tiene bene a distanza, al punto da sembrare quasi superficiale. Ma vale anche per lei ciò che Nietzsche diceva degli antichi greci: superficiale per profondità.
Il tema della gioia si ritrova anche in pensatrici successive, come Simone Weil, che nei Cahiers definisce la gioia il “sentimento della realtà”, mentre la tristezza ne indebolisce la percezione. Oppure in scrittrici più vicine a noi come Goliarda Sapienza che nel suo romanzo L’arte della gioia (1998) esprime una profonda accettazione della vita, senza il tentativo di volerla addomesticare, senza forzarla entro rigidi schemi interpretativi. Eppure l’itinerario di Salomé è del tutto particolare, perché animato dalla tensione verso l’altro, dalla “dimensione dinamica e narrativa dell’andare incontro”, secondo la felice intuizione di Susanna Mati. “Incontro alla vita, così com’è, senza pregiudizi – e sembra non aver paura di niente: bellezza e terrore. Amare la vita significa anche non esserne spaventata, non essersi mai presa – né nell’infanzia, né nell’adolescenza, né da giovane, né da vecchia – quel normale spavento della vita che induce al ritiro, alla protezione, all’acquietamento, all’accasamento. Lou non si è mai presa paura della vita, l’ha sempre fortemente amata e voluta”. Spinta da un atteggiamento rapinoso, teso ad cogliere le occasioni, è convinta che “la vita non ti regala niente. Se vuoi una vita, rubala”. La meta cui tendere resta sempre lo sviluppo intellettuale, e l’andare verso l’altro avviene nell’ambito dello Spirito, del Geist. “Soltanto se sei una persona speciale, farai incontri speciali”. E Lou, questi incontri, li fa. Proprio la passione per la conoscenza la porta a incontrare i più grandi intellettuali del tempo, tra cui spiccano le figure di Nietzsche, Rilke e Freud, coloro che hanno segnato in modo indelebile la modernità.
Ma questo incontro avviene, sottolinea Mati, sotto il segno della fratellanza. Forse influenzata dal rapporto positivo coi fratelli fin dall’infanzia, Lou tende a scorgere in ogni uomo un fratello, a ricercare un’intesa amicale, una forma di complicità, un’alleanza, certo un sodalizio intellettuale. Nonostante i tanti pettegolezzi circolati intorno al presunto “triangolo”, o meglio, la “Trinità”, fra Nietzsche, Paul Rée e Lou, l’autrice cerca di sfatare il mito della femme fatale che avvolge Salomé: in realtà, questa donna singolare vede negli uomini soprattutto degli “strumenti di conoscenza”, dei portatori di cultura, dei compagni nel cammino verso la crescita personale. Oppure dei padri – la perdita del genitore a soli diciotto anni è un altro dato biografico da non sottovalutare – com’è il caso di Freud. Un’eccezione è costituita dall’incontro con Rilke, col quale lei realizzerà finalmente, a 36 anni, la totale unione di spirito e corpo, intelletto e sensi. E diventerà così, non solo una potente musa ispiratrice, ma anche sorella, compagna, amata, madre – una totalità dalle molteplici sfaccettature affettive.
Giunta così a scoprire la dimensione corporea dell’Eros molto tardi, Lou Salomé era forse consapevole di uno sviluppo psichico non conforme a quello fisico, come accade alla protagonista del romanzo Ruth, storia di formazione anch’essa per certi versi autobiografica. Questa sopravalutazione dello spirito sul corpo potrebbe far pensare che resti impigliata negli schemi di quel dualismo che attraversa la tradizione filosofica occidentale. O forse è un modo per sottrarsi ai modelli femminili del tempo, e lottare strenuamente contro “l’angelo del focolare”.
Perché non si comprende a pieno la vita di Salomé se non si tiene presente il forte bisogno di libertà che si manifesta già a 19 anni, quando lascia la Russia, nel 1880, per andare a studiare a Zurigo. Una libertà intesa come indipendenza, autodeterminazione; un bene da conquistare e salvaguardare che la porterà a non legarsi, non appartenere a nessuno, restando fedele solo a se stessa. Una libertà che si coniuga col cosmopolitismo, l’affondare radici in luoghi diversi, vivendo da “buona europea” (così Nietzsche) tra Roma, Berlino, Parigi, Vienna. E la porta a studiare, conoscere, scrivere, viaggiare, esplorare, fare esperienza, nonostante l’essere donna. Quindi ad andare contro le convenzioni sociali, anche se il suo sarà perlopiù un “anticonformismo casto”. Perfino il matrimonio con Andreas sarà segnato dalla distanza, da una estraneità di fondo, e la loro sarà una famiglia non canonica. Ma resterà sempre la casa di Göttingen, Loufried, immersa nella natura, un punto fermo cui ritornare dai tanti viaggi. Come nota Susanna Mati, il suo è una sorta di “innato femminismo, in gran parte inconscio, non teorizzato, mai predicato”, consono forse alla sua natura ribelle.
Un altro concetto chiave intorno al quale ruota questo libro è il lavoro. “Il faut toujours travailler, toujours” risponde Rodin a Rilke che, reduce dagli abissi spalancati in seguito alla rottura con l’amata, gli chiedeva in una lettera come bisognasse vivere. “Lavorare significa vivere senza morire”; è “l’unica cosa che salva, che si sottrae alla disgregazione operata dal tempo”. Lou è senza dubbio una grande lavoratrice, innanzitutto come autrice di diversi romanzi – fra i quali Dissolutezza e Rodinka. Un ricordo di Russia – ma anche di numerosi articoli e saggi. E in seguito, quando la psicoanalisi diventa la sua patria spirituale, come analista: dal 1914 esercita fino agli ultimi anni della sua vita, elaborando molte riflessioni originali. Come il concetto di salute in rapporto alla creatività artistica: l’essere “sani, troppo sani”, cioè una salute “in forma stolida e autoappagata”, ripiegata su se stessa, che si accontenta di “attestarsi al di sotto delle possibilità esistenziali”, non gioverebbe all’atto creativo.
Pagine preziose sono quelle sulla vecchiaia, quando con l’approssimarsi della fine, Salomé percepisce il “diventare inorganico” del corpo, mentre una “corteccia di insensibilità lo ricopre”. Ma l’amore per la vita è così forte da comprendere anche l’accettazione della morte, la capacità di accoglierla o essere accolti a braccia aperte, con la curiosità di andare verso qualcosa ancora da scoprire. E la certezza di far ritorno al “fondamento originario dell’Essere”. Resta la sua scrittura, come eredità, come occasione per riflettere e mettersi in discussione. Resta l’insegnamento di una donna che ha avuto il coraggio di osare e andare oltre.