Recensione di La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo
Melania Moltelo

26.11.2021

Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato
S. FEDERICI

La mamma è uscita. Una storia di arte e femminismo è un testo pubblicato recentemente (luglio 2021) per DeriveApprodi in cui si ricostruisce la storia di due madri e compagne: Milli Gandini e Mariuccia Secol, l’incontro tra la militanza e la pratica estetica, la fondazione del Gruppo Femminista Immagine di Varese e la vicinanza con il gruppo del Salario al Lavoro Domestico.

Sono anni focosi gli anni Settanta del secolo scorso, segnati da un attivismo messo a tacere dalla dimenticanza e dagli occultamenti dei decenni successivi e riemersi grazie a una mostra organizzata da Raffaella Perna e Marco Scotini dal titolo Il soggetto imprevisto.

La prefazione di Manuela Gandini ci lascia immergere nelle difficoltà e negli entusiasmi dell’essere “figlia di una femminista”, ripercorre le tappe di un personale che diventa politico e la nascita di un movimento sovversivo tra i cocci rotti e le lenzuola sporche.

“La mamma è uscita” bene esemplifica il gesto di fuoriuscita dal ruolo, simbolico e fisico, determinato dalle strutture sociali. D’altronde, la lotta rivoluzionaria non può scindersi dalla lotta domestica, così, in questa visione, è la casalinga a essere percepita come la componente più sfruttata della classe operaia il cui lavoro è naturalizzato e reinserito nei meccanismi pacificanti degli affetti familiari.

Le mura di casa finiscono per delimitare il nuovo campo di lotta in cui si effettua una concreta azione di liberazione dal lavoro domestico visto ora come mortificante e umiliante, contestato da pratiche che prendono vita tra gli accumuli di polvere sulle stoviglie e le impronte di rossetto lasciate provocatoriamente sulle superfici.

La lotta non si ferma alle fabbriche, ma si estende alla vita, a quella vita imprigionata nel perimetro della casa e nello stereotipo della famiglia prodotto dall’ideologia borghese. Se la fabbrica è il luogo di produzione delle merci, la casa è il luogo di produzione della merce forza-lavoro.

Quando la mamma esce di casa, provoca quel disordine che fa vacillare le certezze sulle quali nel tempo sono andate a costruirsi tutte le forme di dominio.

L’arte diviene, in questo clima, una delle armi più affilate per la battaglia di ricostruzione del sé. Il Gruppo Femminista Immagine di Varese utilizza arazzi e tappeti, pentole e scolapasta tappati, come strumenti di rivendicazione del lavoro produttivo e riproduttivo non remunerato.

È un procedimento che ricorda il lavoro di ri-semantizzazione degli oggetti inaugurato dalla svolta dadaista. È proprio l’avanguardia storica, infatti, ad avere provocato una rilevante messa in discussione dell’ideale standardizzato di autorialità.

Cresce poi, con la lettura del manifesto Vogliamo-Vo(g)liamo, l’esigenza di praticare un’arte per l’arte, di esercitare una creatività libera e non esauribile neanche nella militanza.

Questa esigenza è, ancora una volta, quella di abbandonare la casa in cui non ci sono mai state stanze riservate alle donne, se non quelle in cui si legittima la propria subordinazione, e di aprire finalmente uno spazio in cui si dà la possibilità effettiva di auto-determinazione, che comprende il diritto a rivendicare la partecipazione all’attività artistica re-inventando il senso stesso del fare storia dell’arte.

La storia di due donne che lasciano la casa e strappano agli utensili casalinghi il loro valore d’uso per interrogarne la portata simbolica ci induce a fare attenzione alle modalità, più o meno evidenti, attraverso le quali l’ingiustizia sociale si insinua fino agli angoli più reconditi delle nostre esistenze.

Questa consapevolezza, che spoglia il pensiero di tutte le sovrastrutture patriarcali di cui è andato rivestendosi nel corso del tempo, provoca l’esigenza di un gesto radicale di “disorganizzazione” delle funzioni.