Recensione a Nel tempo dei mali comuni
Per una pedagogia della sofferenza
Daniela Floriduz

05.02.2022

Può essere utile leggere questo libro alla luce dello stillicidio che la cronaca della pandemia ci impone ormai da due anni, ma anche come continuazione del volume precedente di Franceschelli, Dio e Darwin (Donzelli 2005) che suscitò un vivace dibattito nella comunità scientifica e filosofica per il coraggioso attacco al neocreazionismo, teoria “di tendenza” non solo in America, ma anche in molti ambienti sovranisti e conservatori di casa nostra.

La prefazione di Telmo Pievani, poi, contiene forti richiami alla recente trasmissione televisiva, andata in onda su Rai3, dal titolo La fabbrica del mondo, un dialogo tra lo stesso Pievani e Marco Paolini in tre puntate sui temi scottanti richiamati anche da Franceschelli, una forma di teatro civile dedicato all’ambiente, alle storture della new economy, al mito del progresso senza limiti.

Al contrario di quanto auspicato da Kant, che sognava il cosmopolitismo della fratellanza e la pace perpetua, per Franceschelli – ma come dargli torto? – abbiamo globalizzato la sofferenza rendendo inospitale il pianeta, creando un vero e proprio cosmopolitismo dei mali comuni, un anti-illuministico inferno sulla terra. Con la voracità di Prometeo, siamo entrati in una nuova era geologica: l’antropocene, la rupe cui l’umanità si è auto incatenata.

Dalla rivoluzione industriale si può anzi parlare di capitalocene, attribuendo appunto al capitalismo il saccheggio delle risorse, che rappresenta la causa principale dei problemi attuali di inquinamento ambientale, ma soprattutto la matrice principale della pandemia, anzi, come afferma a più riprese Franceschelli, della sindemia. Essa è l’insieme dei problemi (sanitari, ambientali, psicologici, sociali, economici) e la relazione tra le varie malattie che hanno favorito e reso ancora più devastanti gli effetti della diffusione del coronavirus nella popolazione.

Non solo sono rimasti inascoltati gli appelli autoreferenziali proclamati nei summit e nelle conferenze sull’ambiente, ma è stato anche disatteso quel “Principio responsabilità” caldeggiato già nel 1979 da Hans Jonas come un pilastro etico per la società tecnologica (Einaudi 1990). Il pessimismo della realtà effettuale indurrebbe a pensare all’assenza completa di vie di fuga, tramontate come sono le prospettive escatologiche e provvidenzialistiche.

E mentre qualcuno (Jeff Bezos) investe notevoli capitali (sempre di quelli si parla) verso la costruzione di un uomo nuovo con la bioingegneria o verso una nuova corsa allo spazio per abbandonare il nostro pianeta malato, ci chiediamo se non esistano forme alternative di resistenza comune.

Franceschelli parla a questo proposito di «pedagogia della sofferenza», racchiudendo varie sfumature di rimandi in questa espressione complessa. Innanzitutto essa contiene il riferimento all’eco-appartenenza. Vi è relazione tra la storia umana e la geostoria, per cui la natura, come già teorizzato da Democrito e da Spinoza, è infinitamente più potente di noi, emancipata dai nostri disegni, segue il suo corso imprevedibile e trascende quell’antropocentrismo con cui pretendiamo di dominarla e che ci si ritorce contro.

La razionalità scientifica degli esseri umani, anziché depredare inutilmente il pianeta, dovrebbe poter essere messa al servizio dell’estensione di risorse e di beni comuni quali cibo, istruzione, salute: si pensi alla polemica sui brevetti delle case farmaceutiche produttrici dei vaccini, che di fatto impediscono a buona parte della popolazione di usufruire di questo bene.

Dunque, la pedagogia della sofferenza parte dal presupposto che «il solipsismo è una fantasia puerile» (Primo Levi, Contro il dolore, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, vol. III, p. 637). L’esistenza delle altre forme di vita e degli altri esseri umani richiama a quell’educazione al bene e a quell’impegno etico che già secondo Platone rappresentano il punto di partenza per avvicinarsi alla costruzione della città ideale su questa terra.

Ma, senza scomodare i Greci, sarebbe sufficiente scorrere il n. 389 della rivista Aut Aut, Riflessioni sulla pandemia, per ritrovare quella necessità di un ripensamento del modello sociale basato sulla competizione esasperata che non può assolutamente condurre alla giustizia. Si vedano, solo per citare alcuni contributi, gli interventi di A. Dal Lago e di D. Fassin, che arrivano proprio alle conclusioni di Franceschelli: la necessità di attivare una «social catena» che sappia ripristinare dall’interno, laicamente, i valori della solidarietà e della giustizia distributiva, attraverso una sinergia tra pensiero e azione che renda produttivo il pensiero e intenzionale l’agire.

Una pedagogia della sofferenza non può servirsi di alcuna visione metafisica del mondo, tantomeno di matrice idealistica: il richiamo a Platone serve semmai solo per indicare un orizzonte di giustizia e, soprattutto, la necessità di una teoria, di una visione, di una interpretazione critica della realtà che nasca dall’osservazione e non da quell’agire dissennato che ci ha portato alla deriva che è ormai, appunto, cronaca quotidiana a tutti i livelli.

Quanto questa pedagogia sia praticabile è e rimane un punto interrogativo, ma praticare l’indagine filosofica significa anche aprirsi a sfide intellettuali che non sono passibili di risposte preconfezionate. E, d’altra parte, questo testo ci consegna un’indagine non scontata rispetto alla realtà del nostro presente, uno sforzo di oltrepassare i luoghi comuni per interpellare i classici alla luce degli eventi che ci riguardano più direttamente in questa fase storica.