Pluriverso e politica dell’amicizia
Luigi Pellizzoni

11.06.2021

Postfazione al volume

Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo


Questo libro può essere letto in molti modi; o forse è più opportuno dire da molti versi. È uno di quei testi in cui si può partire da punti differenti e dirigersi in direzioni altrettanto divergenti, cogliendo assonanze e dissonanze tra temi, concetti, riflessioni. Lo dice il titolo: non c’è una sola maniera di concepire il mondo, di stare al mondo, di immaginare relazioni umane e oltre-che-umane, cercando vie d’uscita dal vicolo cieco in cui la modernità si è cacciata. Tuttavia – punto a mio avviso cruciale – il pluriverso, che il libro alimenta prima e più che descrivere, non è un caleidoscopio di (in)differenze; non descrive o dichiara una realtà puramente differenziale, equivalente nella e per la sua infinita variazione. Questa è la realtà del capitale; quella che in particolare il capitalismo tardo-moderno cerca in tutti i modi di imporre. Una realtà in cui la forma-merce ha raggiunto un’estensione e un’intensione che oltrepassa di molto l’analisi di Polanyi, poiché in gioco non è più la produzione di un’immagine fittizia di parti o elementi del mondo per poterli scambiare sul mercato, ma la rivelazione del carattere originario e integrale di merce del mondo intero. Una realtà cui molti autori, nella loro critica della società capitalista e dell’ontologia cartesiana che ne ha costituito la cornice originaria di senso, si sono fin troppo avvicinati, se pure non hanno contribuito a costruirne le basi; tesi, quest’ultima, sostenuta da autori come Luc Boltanski e Eve Chiapello1 o Paolo Virno2 a proposito dell’acquisizione a fini controrivoluzionari della “critica artistica” dei movimenti degli anni ’70, e rinnovata a proposito del sempre più sistematico impiego della decostruzione scientifica a fini reazionari.3

Contro la realtà del capitale e la sua interfaccia operativa, lo sviluppismo, muovono gli autori di questo testo, accomunati nella sottoscrizione della dichiarazione zapatista secondo cui, contro e oltre il mondo dei potenti che lascia spazio solo ai big e ai loro cortigiani, sta un mondo dove c’è spazio per tutti; un mondo composto di molti mondi. La scansione in tre parti – crisi del paradigma dello sviluppo; approcci riformisti; alternative emergenti all’incrocio tra tradizioni non-moderne ed esperienze alter-moderne – ne definisce il ritmo. Ritmo inverso rispetto a quello che scandisce il discorso pubblico e le politiche globali. La sezione più breve, infatti, è quella dedicata al paradigma dominante. Come a dire: la sua crisi è conclamata, un dato di fatto che nessuno o quasi prova più a negare. Ragionarci sopra è importante per capirne le cause, ma più importante è procedere oltre.

Il paradigma della crescita è fallito, così come il tentativo di renderlo “sostenibile”. È fallito per due ragioni principali, solo analiticamente separabili. La prima è l’assunzione universalista su cui esso si basa. Tale assunzione è minata da una contraddizione originaria: tra specificità storico-culturale di un modello e pretesa di dare ad esso validità generale; tra obiettivo post-coloniale e logica coloniale che soggiace all’azione con cui si intende perseguirlo; tra promessa di emancipazione e impossibilità di corrispondere a tale promessa, poiché il mondo “avanzato” con cui il resto del pianeta avrebbe dovuto mettersi al passo doveva la sua posizione non a chissà quale destino storico, ma alla perpetuazione di rapporti ineguali. Il paradigma della crescita è poi fallito per la sua contraddizione ecologica: la dipendenza da un’estrazione di risorse e deiezione di rifiuti sempre più forsennata e costosa per il capitale stesso, oltre che per una vastità di individui e comunità collocate non più solo ai margini ma anche, in misura crescente, al centro dell’impero.

Certo, è possibile obiettare che il fallimento non è completo, che la globalizzazione capitalista ha portato anche benefici, come mostra l’ascesa dei nuovi ceti medi in paesi come la Cina e l’India. Tuttavia tale ascesa avviene a costi ambientali e umani sempre più alti ed è improbabile possa proseguire fino a raggiungere i livelli di “benessere” di cui hanno goduto i ceti medi occidentali, oggi in declino. Ciò non solo per la limitatezza fisica del pianeta. Anche un benessere completamente assorbito nella sfera delle merci non è mai fatto solo della materia delle cose. Le merci vivono anche, e oltre una certa soglia di accumulo soprattutto, una vita simbolica, fatta di desideri e distinzioni. Se così stanno le cose, allora quanto più la realizzazione di tali desideri e distinzioni diviene accessibile tanto più – ed esattamente per questa ragione – essa recede verso un punto di fuga irraggiungibile. Lo aveva notato Fred Hirsch4 all’inizio del grande declino: i limiti dello sviluppo sono sociali – oltre e in un certo senso prima ancora – che materiali. Detto altrimenti, lo “stile di vita imperiale” di cui parlano Ulrich Brand e Markus Wissen5 non è esportabile su scala planetaria se non come ideale normativo (non per questo, ovviamente, meno produttivo di disastri ecologici); e ciò neppure se si sposano le più ottimistiche utopie di efficientismo tecnologico, per la semplice ragione che la storia non si ripete. La congiunzione astrale tra orientamenti culturali, assetti politici e accesso a materiale grezzo (terra, energia, lavoro) tanto abbondante quanto a basso prezzo che ha portato al dominio planetario dell’occidente è destinata a rimanere un unicum nella vicenda umana, qualunque cosa di buono e di cattivo abbia prodotto.

Il fallimento del paradigma della crescita traspare anche dai tentativi di rilancio riformista su cui si sofferma la seconda parte del libro. Le parole d’ordine che troviamo nei titoli dei contributi (economia circolare, servizi ecosistemici, economia verde, città e agricoltura smart, oltre naturalmente a sviluppo sostenibile), per quanto continuamente evocate da governi, imprese, partiti, attori di società civile, appaiono oggi appannate, non solo agli occhi della critica anti-capitalista. Quando l’esistenza quotidiana e i progetti di vita di quote sempre più ampie di popolazione, tanto nel Sud quanto nel Nord del pianeta, vanno in direzione opposta alla smartness è arduo che lo slogan continui a fare la stessa presa di anni addietro. Non è difficile preconizzare che anche l’ultima parola d’ordine, quella dell’industria 4.0, farà la stessa fine.

Le proposte riformiste alla fine non fanno che riproporre il dogma della crescita, con esiti sghembi ma non meno problematici rispetto alla versione originale. Come notato nelle pagine introduttive del libro e in vari contributi, il modo in cui il paradigma sviluppista viene declinato nel nuovo millennio, in particolare nei termini dei Sustainable Development Goals (SDG) propugnati dalle Nazioni Unite e accolti sin troppo entusiasticamente da Stati, fazioni politiche, imprese, mondo scientifico e della cultura, mostra che in gioco oggi, più che lo sviluppo, è la sopravvivenza stessa dell’umanità, o perlomeno la garanzia di condizioni di vita accettabili; condizioni che peraltro a molti sono già negate, come mostrano le spinte migratorie. La sensazione sempre più diffusa, non solo nel Nord globale, è che non ci sia più nulla da guadagnare; c’è solo da evitare, per chi ha qualcosa da perdere, di perdere troppo, o tutto. Questa è la nuova, paradossale, promessa dello sviluppo sostenibile. E tuttavia anche in questa declinazione crepuscolare della sostenibilità manca un’analisi delle condizioni strutturali della povertà e del degrado ecologico e si rinnova l’assunto che il loro nesso sia un dato oggettivo cui porre rimedio piuttosto che un legame indotto che occorre spezzare. Si rinnova anche un’acritica apertura di credito al produttivismo, la globalizzazione, la tecnica. La medesima combinazione tra crepuscolarità e coazione a ripetere si incontra anche nel discorso del Green New Deal, una volta depurato dai toni di proclama con cui viene sovente enunciato; discorso che appena avviato già registra fratturazioni tra varianti neoliberiste (la “nuova” green economy europea) e neokeynesiane (il “nuovo” progressismo liberale americano), e che soprattutto conferma nella sostanza i pilastri ideologici dello sviluppo sostenibile: produttivismo, tecno-ottimismo, assunto universalistico rispetto a problemi e soluzioni.

Con accenti diversi gli autori che si cimentano nell’analisi delle proposte riformiste evidenziano che, anche nella migliore delle ipotesi, queste ultime non sono in grado di dare risposte efficaci ai problemi che pur riconoscono, poiché evitano di fare i conti con il nocciolo di questi ultimi. Possono rimedi omeopatici in dosi sempre più massicce curare la malattia? Può il mercato rispondere ai propri fallimenti, senza mettere in discussione i suoi stessi fondamenti e l’ascesa a istituzione regolativa sovraordinata a ogni altra? Può la tecnologia risolvere problemi che derivano dalla sua stessa applicazione e, prima ancora, concezione? Si può ancora credere alle virtù escatologiche dell’innovazione, senza chiedersi innovazione perché, per chi, a quali costi? Domande e obiezioni di questo genere sono diffuse non solo nelle pagine del libro ma nel più generale dibattito che coinvolge le scienze sociali e umane e, sia pure ancora in modo minoritario, le scienze della vita e della materia. Le risposte non sono univoche, nel senso che a condanne senza appello si mescolano aperture di credito. Se ci fosse un vero ripensamento, si dice, allora la tecnica e il mercato potrebbero essere usati per riequilibrare i rapporti umani e oltre-che-umani. Ma quanto profondo deve essere tale ripensamento? Tra le cose su cui, a mio parere, l’interrogazione resta in parte cospicuamente inevasa, tanto nel libro (dove il tema è trattato tangenzialmente e affrontato in modo diretto da una sola voce, quella sulla produzione neghentropica) quanto nel dibattito generale, c’è la questione del lavoro: se cioè si tratti solo di ripensare il lavoro al di fuori dei rapporti capitalistici o di ripensarlo integralmente, come categoria ontologica, modo di declinare l’esistente, umano e oltre-che-umano, così com’è andato precisandosi nel corso della modernità, in stretta connessione con la concezione termodinamica della fisica e della biologia del pianeta.6 Interrogazione che va di pari passo con quella sulla portata dell’Antropocene, come fenomeno geologico e come narrazione governamentale. E infatti anche quest’ultima nel libro non viene direttamente discussa: il termine compare una sola volta in tutto il volume, nella voce sul governo del sistema planetario, pur rappresentando, a me sembra, la quintessenza di ciò cui il pluriverso si contrappone.

A queste interrogazioni si collega, come accennato, quella relativa alla tecnica. Interrogazione tutt’altro che nuova ma sempre (più) attuale. La riflessione di Heidegger sull’essenza della tecnica è stata criticata come inconsistente e fuorviante. Non c’è nulla, si dice, al cuore della tecnica: ci sono solo innumerevoli, se non infinite, possibilità di creazione e impiego, queste sì passibili di critica. Tuttavia, la tecnica moderna presenta ambivalenze con cui nessuno, a me sembra, è finora riuscito a fare i conti; perlomeno non più di quanto li avessero fatti molti decenni fa autori come Ivan Illich o Theodor W. Adorno: il primo parlando di un rinnovamento in direzione “conviviale”, ossia non votato a un’intensificazione estrattiva e produttiva fine a se stessa;7 il secondo di una scienza capace di riconciliare umanità e natura nel cammino verso una liberazione dalle sofferenze che l’una e l’altra condividono.8 Queste possono sembrare elucubrazioni astratte, ma hanno correlati governamentali importanti, su cui l’interrogazione è urgente. Ci si può chiedere, per esempio, se sia possibile coniugare l’idea di tecnologia conviviale in termini di “ricerca e innovazione responsabile” (RRI); concetto elaborato nella cornice delle politiche europee come nuovo approccio al governo della tecnica ma, contrariamente a Illich o André Gorz, assai poco disponibile, già a livello definitorio,9 a mettere in discussione produttivismo e mercato. Per rispondere al quesito se, o a quali condizioni, la RRI o la “scienza aperta” di cui preferisce parlare il nuovo Programma Quadro per la Ricerca e l’Innovazione dell’Unione Europea (2021-2027) potrebbe essere veicolo per tecnologie conviviali occorre partire dalla constatazione che non basta dare spazio a voci inascoltate e a discussioni sugli scopi dell’innovazione, se le cornici di senso e le diverse capacità d’azione degli attori che intervengono nel dibattito non vengono a loro volta messe in questione. Altrimenti il rischio, per nulla ipotetico, è che tutto si risolva in un’ulteriore espansione dell’irresponsabilità organizzata di cui parlava Ulrich Beck; un gigantesco sgravio a favore di chi le decisioni le prende davvero. Sgravio che, per tornare al punto segnalato sopra, passa anche dalla narrazione dell’Antropocene, nonostante essa abbia il pregio, forse involontario, di segnalare come la situazione attuale non sia riconducibile a una delle ricorrenti crisi da cui il capitalismo ha sempre saputo trarre nuovo slancio.10

In sostanza, se l’idea di un rinnovamento della tecnica resta inscritta in una matrice riformista non c’è da fare molto conto sulla sua capacità di cambiare le cose. Capacità che la parte più corposa del libro assegna ad approcci che si pensano e si vogliono realmente trasformativi, innanzitutto perché abbandonano o non hanno mai sottoscritto l’idea di un “mondo fatto di un mondo solo”,11 affermando e praticando un mondo fatto di molti mondi.12 Non è il caso qui di ripercorrere la varietà dei temi che questa sezione sviluppa: alcuni assai noti, altri meno, almeno per il lettore mediamente informato sul dibattito post-coloniale e alter-mondialista. Vale la pena piuttosto riflettere brevemente sui punti di convergenza e su alcune questioni aperte che mi sembrano emergere da questa sezione.

La convergenza riguarda non solo l’adesione all’idea del molteplice darsi e farsi del mondo, ma anche il dove e il come di questa molteplicità. Gli ambiti di riferimento sono da un lato il pensiero e le pratiche radicali del Nord globale (ecoanarchismo, ecofemminismo, ecovillaggi, agroecologia, pacifismo, slow movement, decrescita ecc.); dall’altro il paesaggio del Sud globale non-moderno: variegato ma, come già si diceva, tutt’altro che puramente differenziale. Basta pensare all’aria di famiglia di modi di pensare-agire come, per fare solo un esempio, il sumak kawsay andino e l’ubuntu sudafricano. Ciò che accomuna queste innumerevoli immaginazioni e pratiche di vita è il rifiuto della concezione cartesiana della realtà come lettura della trama di relazioni, di inter e intra-azioni,13 che la costituiscono, e del suo correlato dialettico: l’universalismo-universale (spiego fra un attimo il perché di questa espressione) di un mondo fatto di un mondo solo. L’affermazione che tutti gli autori fanno è che solo da un mondo fatto di molti mondi, umani e oltre-che-umani, può giungere un autentico dopo o oltre dello sviluppo; ma l’affermazione è anche che questo dopo e oltre non è un’utopia persa nell’orizzonte del futuro ma un’eterotopia già presente, in atto, sia pure da consolidare e diffondere.

Qui si aprono questioni in parte adombrate nel testo ma da considerare innanzitutto come appello a ulteriori elaborazioni teorico-pratiche. Tre in particolare mi sembrano degne di nota: ibridazione, coordinamento, amicizia. È appena il caso di precisare che, anche qui, la distinzione è analitica: l’una questione si tiene insieme all’altra.

Il tema dell’ibridazione riguarda l’ontologia del pluriverso. Negli anni recenti si è assistito a un interscambio sempre più intenso tra il Nord e il Sud globale, in uno sforzo di apprendimento reciproco sul modo in cui la realtà va concepita. Così, da un lato, filosofia e scienze sociali e umane hanno guardato ai modi non-moderni di configurare l’esistente e le sue relazioni per superare tanto il dualismo cartesiano quanto il costruttivismo linguistico (che del primo costituisce in effetti una variante, dato che riafferma la distinzione ontologica tra mente, o cultura, e mondo). Dall’altro le ontologie indigene sono state elaborate, soprattutto grazie a figure di intellettuali come – pensando al contesto latino-americano – Alberto Acosta, Arturo Escobar o Eduardo Gudynas, che hanno agito in funzione di mediatori, rendendole agibili tanto presso il Nord globale quanto a volte presso le stesse comunità indigene, investite dalle forze della globalizzazione. Il caso più noto ed evidente è appunto quello latino-americano del buen vivir, nozione che, come la voce a esso dedicata nel volume sottolinea, è sottoposto a continua elaborazione. Ciò è indice di dinamismo, capacità adattiva, ma anche di una plasticità non necessariamente benefica. Le ibridazioni hanno un rischio: che in esse lo scambio ineguale si riproduca, ossia che le categorie concettuali occidentali finiscano per svuotare nozioni non-moderne, come appunto il buen vivir, della loro forza trasformativa.14 Questo rischio è, a ben guardare, insito nell’entusiasmo piuttosto acritico che circonda da tempo l’idea di ibridazione. Idea che va invece maneggiata con cura, senza assumere che il processo comporti automaticamente né un incontro alla pari né esiti emancipativi, e tenendo conto del carattere aporetico della nozione stessa. Perché si dia un ibrido riconoscibile in quanto tale occorre infatti che si incontrino dei non-ibridi: ma in questo modo si ridà valore alle sostanze identitarie. O viceversa: se si ritiene che ciò che viene assemblato è a sua volta esito di ibridazioni precedenti, allora si giunge alla concezione puramente differenziale della realtà cara alla critica post-strutturalista ma anche, sfortunatamente, al capitalismo tardo-moderno. È importante riflettere, al riguardo, che ontologie non-moderne come quelle amerindie hanno poco a che fare con la celebrazione, da parte di avanguardie intellettuali occidentali, di una realtà completamente fluida e contingente. Queste ontologie non descrivono un mondo (solo) popolato da assemblaggi umani e non-umani perennemente cangianti ma mondi differenti abitati da differenti tipi di esseri, tra i quali si svolge un gioco di ruoli e relazioni complesso ma non gerarchicamente ordinato.15

E tuttavia se per fuggire ai rischi dell’ibridazione si va all’estremo opposto, sostenendo l’incomunicabilità dei mondi, il dissidio incolmabile dei discorsi,16 non solo si riproduce surrettiziamente l’ontologia occidentale (da un mondo solo a ciascun mondo per sé solo), ma soprattutto si blocca sul nascere ogni progetto politico fondato sul pluriverso, ossia sul pensare localmente per agire globalmente. Qui nasce il problema del coordinamento; problema continuamente sollevato da chi si occupa di alter-mondialismo, “utopie concrete”17, movimenti prefigurativi,18 e che prima delle mobilitazioni odierne ha riguardato l’anarchismo storico e l’ecoanarchismo.19 Problema di non facile soluzione, poiché la politica del pluriverso non può basarsi né sulla sostituzione delle attuali gerarchie istituzionali con altre che ne riproducano rigidità e conseguenti forme di dominio, né sullo sposare l’orizzontalità acefala e (in)differente della rete (o almeno della sua ideologia). Non pretendo certo di risolvere il problema qui. Tuttavia disponiamo di spunti a mio parere importanti.

Uno lo troviamo nelle pagine di questo libro, e precisamente nelle riflessioni di Onofrio Romano sul Mediterraneo e il “pensiero meridiano”,20 come esemplificazione di un ideale politico basato sulla coesistenza e la reciproca affezione di mondi differenti, via di mezzo tra universalismo-universale dell’umanità in quanto tale21 e chiusura comunitaria e identitaria continuamente reinventata;22 tra radicamento alla terra e orizzonte aperto sul mare e quindi sulla possibilità dell’altrove e dell’altrimenti. Che il meridianismo non si sia finora tradotto in un movimento politico vero e proprio non ne inficia il valore e le potenzialità. Il fatto che il Mediterraneo sia oggi un punto cruciale di frizione tra Nord e Sud globale indica anzi esattamente il contrario. L’altro spunto viene da una vecchia (per i tempi con cui si consumano i dibattiti accademici) idea del filosofo Michael Walzer, quella dell’“universalismo reiterativo” e del minimalismo della critica sociale e della morale. Per universalismo reiterativo Walzer intende che, contrariamente all’assunto dell’universalismo-universale (ciò che egli chiama covering law universalism, ossia universalismo della legge generale), ogni luogo, ogni comunità, ogni tempo – ogni mondo – ha una sua via all’emancipazione dal dominio e dalla sofferenza; via che non corrisponde a quella degli altri, ma che rimane riconoscibile come tale e per la quale si può lavorare insieme, nella misura in cui “la liberazione è un’esperienza particolare che si ripete per ogni popolo oppresso”.23 Sulla stessa linea Walzer intende per minimalismo la capacità di trarre dal bagaglio delle proprie categorie critiche o morali (normatività thick, spessa) elementi minimali condivisi (normatività thin, sottile) che permettono di comprendere, e rispondere, a richieste di giustizia che vengono da ogni parte del pianeta.24

Pensare in termini di universalismo reiterativo, la cui normatività thin non va confusa con quella, narrow o shallow, ristretta o superficiale, dell’homo oeconomicus neoliberale, può consentire di evitare un’insidia presente nel pensiero post-coloniale: ossia di concepire il pluriverso come composto di mondi non solo separati ma anche auto-consistenti e l’universalismo occidentale come qualcosa da condannare in toto e senza appello. Concezione e condanna che, a ben guardare, hanno come presupposto la comfort zone di diritti e libertà assicurati proprio da quest’ultimo, e condivisa dal Nord globale insieme con quella parte di Sud – acculturato, urbanizzato, non di rado provvisto di esperienze accademiche internazionali – al cui ruolo di mediazione ho già accennato. Concezione e condanna, soprattutto, che ostacolano una piena comprensione dell’attrazione, non dovuta solo allo sfavillio delle merci, che l’Occidente continua a esercitare agli occhi di chi intraprende un viaggio rischioso e che chiudono lo spazio per la critica, stretta tra nostalgia per la comunità (dimentica di quanto il suo abbraccio possa essere soffocante) e denuncia di ogni obiezione come espressione di imperialismo (dimentica, fra le altre cose, di come il capitalismo abbia mostrato di adattarsi bene a condizioni sociali e culturali molto diverse da quelle in cui è fiorito). Se c’è qualcosa che la modernità può consegnare al pluriverso è proprio il valore della critica: non come sguardo trascendente ma come possibilità immanente a ogni esperienza di vita. Non che la critica sia appannaggio esclusivo dell’Occidente, ovviamente; anzi: una conoscenza reciproca delle forme di critica presenti in ogni piega del pluriverso è quanto mai importante, se a esso si vuole conferire valore di progetto politico. E tuttavia a me pare che l’idea di critica immanente che Foucault riassume nella domanda su “come non essere governati in questo modo, da questo, in nome di questi principi, in vista di tali obiettivi e per mezzo di tali procedure, non così, non per quello, non da loro”,25 costituisca il contributo più prezioso dell’Occidente al legame sotterraneo che percorre il pluriverso.

Romano parla di pensiero meridiano come apertura a una politica della convivialità, e abbiamo visto che questo tema emerge in merito al ripensamento della tecnica e della scienza. Ne parlano Illich e Adorno; quest’ultimo richiamandosi a Walter Benjamin, il quale, contro l’idea di una natura da spogliare dei beni da essa “gratuitamente offerti”, ma contro anche l’idea di una condanna senza appello della tecnica, parla della possibilità di un lavoro che aiuti la natura “a sgravarla dalle creature che, in quanto possibili, sono sopite nel suo grembo”.26 È in altri termini possibile, per Benjamin e Adorno, una politica dell’amicizia in cui gli umani, grazie alla posizione di primi tra i pari consentita dalla capacità di coniugare concettualizzazione e prassi in uno sguardo inclusivo, procedano insieme ai non-umani verso il superamento della comune condizione di sofferenza e ingiustizia da cui avevano cercato di fuggire tramite il dominio tecnologico.27 Di politiche dell’amicizia (su cui restano importanti le riflessioni di Derrida28) parlano oggi soprattutto le studiose femministe, estendendo il lessico della cura dalle relazioni sociali a quelle tra umani e non-umani.29

Naturalmente sul modo di esprimersi di Benjamin e Adorno e in parte anche dell’etica femminista della cura per il mondo (che è prima di tutto un’ontologia) grava l’ipoteca delle categorie occidentali. E tuttavia, se ammettiamo che qualcosa come l’universalismo reiterativo possa esistere, tutto ciò non è estraneo agli altri mondi del pluriverso, pur se la lingua che vi si parla non è la stessa. Tutto ciò, inoltre, vale a prendere le distanze dall’ambiguità emergente in alcuni ambiti della teoria sociale occidentale, in cui l’“intrusione di Gaia”30 negli affari umani, il “geopotere”31 di processi come le dinamiche climatiche e quelle virali o batteriologiche, è spesso declinato con gli stessi accenti un tempo attribuiti al potere sovrano e oggi al mercato – soverchiante, indifferente, ingiustificato e ingiustificabile.32 Il geopotere, in altre parole, è riconosciuto non nei termini di una mossa laterale ma di un’inversione, e quindi una conferma, dei rapporti di forza con la natura, alla supremazia della quale si asserisce poi dover rispondere tramite una governance dell’imprevisto dall’inequivocabile sapore neoliberale – preparazione alla sorpresa, resilienza, flessibilità, “sperimentazione continua”.33 Latour è, come in altre circostanze, il più esplicito al riguardo. La politica, egli nota, non può che concentrarsi sempre più sulla zona critica «di pochi chilometri di spessore tra l’atmosfera e le rocce madri»34 su cui insistono e si relazionano umani e non-umani. Ma questa politica, “terrestre” piuttosto che planetaria, non è più – come il sociologo francese predicava ancora pochi anni fa – una questione di parlamentarizzazione delle istanze non-umane che bussano alla porta, esercizio di arte diplomatica nel contemperarle con quelle umane. Se negoziazione e composizione di interessi vi deve essere, essa avviene non nel segno dell’amicizia, dell’accoglienza di uno straniero non più sentito come avverso, estraneo, ma sotto il giogo di una «forma di sovranità, […] una potenza al di sopra dei capi di Stato»35 cui è necessario e urgente inchinarsi, avendo ben chiaro che «non c’è altra politica se non quella degli umani e a loro vantaggio».36

Secondo Latour, insomma, «l’ostacolo [da evitare è] di credere che sarebbe possibile vivere in empatia, in armonia, con gli agenti detti “naturali”».37 Questa affermazione proviene da un esponente di spicco di un’intellighenzia riformista che si rende conto della gravità della situazione ma con tutta evidenza si ostina a credere che il mondo in cui è prosperata, e che per essa è quindi il migliore dei mondi possibili, possa essere salvaguardato nelle coordinate fondamentali. Contro una simile visione, intrisa di un bellicismo crepuscolare, l’eterotopia del pluriverso mostra che una “concordia discordante” o una “armonia discorde delle cose” (per riprendere la famosa espressione di Orazio) non solo è l’unica strada che oggi vale la pena tentare di percorrere, ma che molti già la percorrono, da un po’ o da sempre. Questo libro ne costituisce un’affascinante illustrazione e un viatico.

1 L. Boltanski, E. Chiapello, Il nuovo spirito del capitalismo, Mimesis, Milano 2014.
2 P. Virno, Do you remember counterrevolution?, in Radical Thought in Italy: A Potential Politics, P. Virno, M. Hardt (cur.), University of Minnesota, Press Minneapolis, 1996 pp. 241-259.
3 B. Latour, Why has critique run out of steam?
From matters of fact to matters of concern, «Critical Inquiry», 30(2),2004, pp. 225-248; N. Oreskes, E.M. Conway, Merchants of Doubt, Bloomsbury, New York 2011; L. McIntyre, Post-Truth, MIT Press, Cambridge, MA 2018.
4 F. Hirsch, I limiti
sociali allo sviluppo, Bompiani, Milano 1981.
5 U. Brand, M. Wissen, The Limits to Capitalist Nature, Rowman & Littlefield, London 2018.
6 C.N. Daggett, The Birth of Energy. Fossil Fuels, Thermodynamics and the Politics of Work, Duke University Press, Durham, NC 2019.
7 I. Illich, Tools for Conviviality, Harper & Row, New York 1973. Si veda anche A. Vetter, The matrix of convivial technology e assessing technologies for degrowth, «Journal of Cleaner Production», 197, 2018, pp. 1778-86; A. GENOVESE, M. PANSERA, The circular economy at a crossroads: technocratic eco-modernism or convivial ‎technology for social revolution?, «Capitalism Nature Socialism», 2020. DOI: 10.1080/10455752.2020.1763414.‎
8 Si veda ad esempio, T.W. Adorno, Teoria estetica, Einaudi, Torino 2009.
9 R. Von Schomberg, A vision of responsible research and innovation, in Responsible Innovation, R. Owen, J. Bessant, M. Heintz (cur.), Wiley, Chichester 2013, pp. 51-74.
10 D. Chakrabarty, The climate of history: four theses, «Critical Inquiry», 35(2), 2009, pp. 197-222; A. Malm, A. Hornborg, The geology of mankind? A critique of the Anthropocene narrative, «Anthropocene Review», 1(1), 2014, pp. 62-69.
11 J. Law, What's wrong with a one-world world?, «Distinktion», 16(1),2015, pp. 126-139.
12 M. Blaser, M. de la Cadena (cur.), A World of Many Worlds, Duke University Press, Durham, NC 2018.
13 K. Barad, Meeting the Universe Halfway: Quantum Physics and the Entanglement of Matter And Meaning, Duke University Press, Durham, NC 2007.
14 P. Altmann, The commons as colonisation - the well-intentioned appropriation of buen vivir, «Bulletin of Latin American Research», 39(1), 2020, pp. 83-97.
15 E. Viveiros de Castro, Cannibal Metaphysics, Univocal, Minneapolis 2014.
16 J.F. Lyotard, Le différend, Minuit, Paris 1984.
17 E.O. Wright, Envisioning Real Utopias, Verso, London 2010.
18 L. Yates, Rethinking prefiguration: alternatives, micropolitics and goals in social movements, «Social Movement Studies», 14(1), 2015, pp. 1-21.
19 D. Graeber, Direct Action: An Ethnography, AK Press, Oakland, CA 2009; M. Bookchin, Post-Scarcity Anarchism, Black Rose Books, Montreal 1986.
20 F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Bari 2005.
21 Per una riedizione di ciò nel lessico dell’Antropocene si veda per una riedizione nel lessico dell’Antropocene si veda D. Chakrabarty, The climate of history: four theses, cit.
22 E. Hobsbawm, T. Ranger (cur.), The Invention of Tradition, Cambridge University Press, Cambridge 1983.
23 M. Walzer, Due specie di universalismo, «Micromega», 1,1991, p. 130.
24 M. Walzer, Geografia della morale, Dedalo, Bari 1999.
25 M. Foucault, Illuminismo e critica, Donzelli, Roma 1997, p. 37, trad. mod. e integr.
26 W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997, p. 41.
27 L. Pellizzoni, Ontological Politics in a Disposable World: The New Mastery of Nature, Routledge, London 2016; M. Maurizi, (Non) lavorare come un mulo, Menelique, 1, 22-34, 2020.
28 J. Derrida, Politiche dell’amicizia, Cortina, Milano 2020.
29 D. Haraway, Staying with the Trouble: Making Kin in the Chthulucene, Duke University Press, Durham, NC 2016. M. Puig de la Bellacasa, Matters of Care: Speculative Ethics in More Than Human Worlds, University of Minnesota Press, Minneapolis 2017.
30 I. Stengers, Autonomy and the intrusion of Gaia, «South Atlantic Quarterly», 116(2), 2017, pp. 381-400.
31 E. Grosz, Becoming Undone. Darwinian Reflections on Life, Politics and Art, Duke University Press, Durham, NC 2011.
32 M. Hird, The Origins of Sociable Life: Evolution After Science Studies, Palgrave MacMillan, New York 2009; N. Clark, Inhuman Nature. Sociable Life on a Dynamic Planet, Sage, London 2011; B. Latour, Facing Gaia, Polity Press, Cambridge 2017.
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© Pluriverso. Dizionario del post-sviluppo, Orthotes Editrice 2021.