18 gennaio 2021
Pirati, astuzia e preghiere del mattino nella filosofia della storia di Hegel
Manlio Iofrida
Come mai, ci chiedevamo, nel momento in cui la storia assurgeva a quel concetto tipico della modernità che è vivo ancora per noi oggi (salvo l’oblio assai effimero degli ultimi anni), essa si presentava per un lato con un’ impostazione teleologica e carica di violenza omogeneizzante, per l’altro come l’esigenza di una fraternità fra gli uomini e di una loro reciproca relazione produttiva che si basa sul presupposto del rispetto dell’altro e della sua differenza?
Per cominciare a rispondere a questa domanda, che è il nucleo più profondo della problematica affrontata in questi articoli, ripartiamo da un protagonista “pesante”, che già abbiamo chiamato in causa: da quello Hegel che non a torto è indicato come l’imputato maggiore in questo processo alla storia occidentale.
In effetti, il filosofo tedesco - che aveva visto, come si sa, sfilare davanti a sé lo spirito del mondo a cavallo - tenne una serie di cicli di lezioni fra il 1821 e il 1831, che canonizzarono, appunto, la filosofia della storia (G.W.F. Hegel, Lezioni sulla filosofia della storia, tr. it. La Nuova Italia, Firenze, 1966, 4 voll.): la sistemazione che al tema del tempo, dello spazio e della storia egli dette in quel decennio dell’800 rimane, come su molti altri punti, paradigmatica ancora per noi oggi.
Per Hegel non ci sono dubbi sul fatto che il processo storico a cui sta assistendo sia quello del calarsi della Ragione nel mondo, ovvero del farsi reale e concreto dello spirito; e nemmeno che questa Ragione, espressione dell'autoproduzione progressiva dello Spirito, sia, né più né meno, quella occidentale, anzi europea, anzi - al suo culmine - germanica. Questa Ragione, per lo Hegel che aveva assistito al trionfo di Napoleone, ma anche alla sua sconfitta e a quell'altra forma di modernizzazione che va sotto il nome di Restaurazione, ha il volto dello Stato, della borghesia e dell'apparato produttivo-industriale, al punto che essa implica un rapporto con lo spazio, col geografico e col materiale e corporeo che è di assoluta soggezione: lo Spirito essendo autoproduzione, esso è nemico della terra, come mostra il rapporto che le varie società hanno con l'acqua e, più in particolare, con il mare; questo infatti costituisce l'assenza di limite per definizione e, dunque, è una specie di significante naturale dello spirito autoproducentesi:
Il mare poi, in genere, dà origine a uno speciale tipo di vita. L'elemento indeterminato ci dà l'idea dell'illimitato e dell'infinito, e l'uomo, sentendosi in questo infinito, ne trae coraggio per superare il limitato. Il mare stesso è ciò ch'è sconfinato, e non tollera pacifiche delimitazioni in città come la terraferma (ivi, vol.I, p. 218).
Di conseguenza, più una società è attraversata, nella sua essenza, dal rapporto col mare, più essa è spirituale: non ci si meraviglierà quindi di leggere che l'Europa, quintessenza della modernità e culmine della filosofia della storia di tutti i tempi, sia la società che ha il più profondo rapporto con il mare - il mare, l'assenza di terra e di limite, vera incarnazione delll'infinito, simbolo vivente della temporalizzazione dello spazio messa così bene in evidenza dall' Etica della spazio (Milano, Mimesis, 2015) di Stefano Righetti. A tratti sembra poi, leggendo queste pagine, di essere di fronte a un testo di Nietzsche o di Carl Schmitt; la terra e il lavoro legano l’uomo al suolo e al bisogno, a un’economia della tranquilla e paciosa sopravvivenza, che fa sì che “gli individui s'ingolfino, si sprofondino in questa sfera dell'acquisto” (ibidem). Il mare svela invece quanto in ogni uomo cova di animo piratesco, che non trascura certo la dimensione del guadagno, ma persegue quest’ultimo come conquista e preda:
Coloro che navigano sul mare vogliono e possono, certo, anche guadagnare ed acquistare per mezzo di esso; ma [...] essi si pongono a rischio addirittura di perdere vita e proprietà. Il mare desta il coraggio: coloro che lo solcano per acquistare vita e ricchezza debbono cercare il loro guadagno attraverso il pericolo, debbono essere coraggiosi, mettere in giuoco e disprezzare la vita e la ricchezza (ivi, p. 218-9).
Implicitamente riferendosi alla figura di Ulisse, Hegel fa poi da battistrada alle celebri pagine che ad essa sono dedicate nella Dialettica dell’Illuminismo di Adorno e Horkheimer e vede nel mare, nella sua apparente, ingannevole morbidezza e ospitalità, anche la matrice dell’intelletto come astuzia; infatti “questo infinito piano [...] assolutamente morbido, che ha l'aria infinitamente innocente, remissiva, amabile e carezzevole”, con la sua apparenza tranquilla e la sua cedevolezza, è infido e tende trappole all’uomo; di fronte a tale elemento ingannatore, il coraggio deve mettere capo a un’intelligenza che è innanzitutto astuzia:
Il coraggio è qui connesso essenzialmente all'intelligenza, che è la massima astuzia. È appunto la debolezza di questo elemento, questo cedere, questa mollezza che nasconde il maggiore pericolo. Il coraggio di fronte al mare deve quindi essere insieme astuzia, perché ha che fare con ciò ch'è astuto, con l'elemento più malsicuro e mendace (ivi, p. 219).
Dunque coraggio, disprezzo del pericolo, astuzia: è tutta una dimensione antropologica guerriera che emerge in questo Hegel, che sembra dar ragione a chi individua nell’idealismo tedesco una vena nichilistica che porta dritto dritto a Nietzsche, all’amico-nemico di Schmitt e all’essere per la morte di Heidegger, a un annullamento del presente e del sensibile nel Futuro.
Eppure, come in Marx, anche nel filosofo di Stoccarda c’è spazio per una visione assai diversa della storia - come se vi fosse una specie di necessità nel presentarsi del concetto di storia secondo una antinomicità; è la stessa formula de “il reale è razionale” - così spesso fraintesa - che comporta un radicamento nel presente e l’esigenza, non di annullarlo nell’assenza del futuro, ma di scoprirne il nocciolo di eternità, di ripetibilità, di ciclicità. Basta che prendiamo alcune altre pagine, dedicate all’America, nello stesso volume della Filosofia della storia, per convincercene. L’America, dice il filosofo tedesco, “è così il paese dell’avvenire, quello a cui in tempi futuri, forse nella lotta fra il Nord e il Sud, si rivolgerà l’interesse della storia universale” (ivi, p. 233) Questo paese a cui guardano tanti europei stufi dei vecchiumi dell’Europa (ivi compreso Napoleone, che pare che abbia detto che Cette vieille Europe m’ennuie) deve ancora dare il meglio di sé: per ora non ha fatto che seguire i passi della vecchia Europa; ma sorprendentemente il filosofo della metafisica del progresso qui fa punto e dice che proprio per questo l’America non lo riguarda:
Come paese dell'avvenire, d'altronde, essa qui assolutamente non ci riguarda. Il filosofo non s'intende di profezie. Dal lato della storia noi abbiamo piuttosto a che fare con ciò che è stato e con cio che è, mentre nella filosofia non ci occupiamo nè di ciò che soltanto è stato o che soltanto sarà, ma di ciò che è ed è eternamente: della ragione; e con ciò abbiamo abbastanza da fare (ivi, p. 234).
A questo Hegel i futuribili, dunque, non interessano: la ragione si occupa di ciò che è (di nuovo: il presente) e dei tratti eterni, costanti, non effimeri del presente : un modo per opporre al tempo divorante - a cui ha dato tanto spazio nella sua concezione - la coesistenza, la tolleranza verso l’altro, l’apertura e l’ospitalità verso il diverso che è tipica dello spazio.
Nella stessa direzione andava un suo celebre aforisma:
La lettura del giornale il mattino presto è una sorta di realistica preghiera mattutina. Uno orienta il proprio comportamento nei confronti del mondo o secondo Dio, oppure secondo ciò che è il mondo. Entrambe danno la stessa sicurezza, quella di sapere come ci si possa stare (G.W.F. Hegel, Aforismi jenensi (Hegel Wastebook 1803-1806), tr. it. Feltrinelli, Milano, 1981, aforisma n. 32, p. 63).
Il giornale come preghiera del mattino: naturalmente, oggi per giornale non intendiamo più lo specifico medium cartaceo a cui alludeva Hegel; ma, una volta fatta questa traduzione in termini odierni del termine “giornale”, possiamo negare che questa esigenza presentata da Hegel sia ancora la nostra? Non è in questo senso che, ancora oggi, nel solco della modernità, continuiamo a scrutare gli eventi contemporanei per rintracciare un filo di senso, per capire dove stiamo andando, che prospettive si aprono e, di conseguenza, cosa possiamo fare? Si noti come di nuovo qui Hegel non schiacci il presente sul futuro, piegandolo con violenza verso qualche telos, ma si ponga di fronte ad esso in una posizione che è insieme di scontro, di viva tensione e provocazione ludica e dialettica e di rispetto della sua alterità. La storia e il nostro rapporto con la storia sono dunque presentati da questo altro Hegel come un gioco fra temporale e intemporale, come una ricerca, fatta con affanno e con speranza, di un filo di senso negli eventi storici, infine come il coinvolgimento in un grande spettacolo a cui si guarda a un tempo da lontano e da vicino, come spettatori e come attori: su questa strada, come su molte altre cose, era stato un altro gigante tedesco del pensiero, Immanuel Kant, a fare da battistrada: è ora di dargli a sua volta la parola (continua).