10.07.2022
Certo non eravamo felici, ma dell’amore ci dispiaceva di più non essere ricambiati che considerarne la mancanza, ci attraeva di più quell’assenza ottusa di un’intesa con un oggetto del desiderio del tutto inconsistente che la pretesa di una pienezza a noi distante. Dico noi perché in Biglietti agli amici è di questo che mi ha scritto, del fatto di confondere la vita con l’amore, il nostro argomento, quello che ci teneva uniti mentre vagabondavamo insieme per quelle strade della città lungo le quali lo accompagnavo a cercare un motivo per ridere e distrarci da tanto essere inutilmente affranti. Non erano le mie strade quelle, lui me le insegnava, me le indicava, me ne descriveva le regole, me ne rivelava gli antri segreti, gli anfratti in cui discendere nell’oscurità per mescolarsi a corpi sconosciuti, i messaggi cifrati composti nell’aria dal chiudersi e aprirsi delle dita mentre incrociavamo i suoi complici altrimenti impassibili; faceva salire negli svariati appartamenti in cui ho abitato nel corso della nostra solidarietà dei personaggi rotti, bislacchi, da cui sperava di venire compreso o che comunque tradissero un istante la sua dolcezza goffa. Era la mia città, del venir meno, del potersi spogliare di sé, che diventò la sua perché diceva che passare con me l’ultimo dell’anno gli portava fortuna, perché aveva le chiavi di casa mia e mi lasciava una lettera nella cassetta della posta quando rabbuiato per un’attesa delusa si risolveva d’un tratto ad andarsene giurando che non ci sarebbe tornato mai più. La sera usciva per i fatti suoi e tornava sempre interdetto, stavamo bene insieme, ridevamo di noi, sapevamo chi eravamo, due ragazzi con fierezza consapevoli che presto o tardi correvano il rischio di deludere, gli avevo fatto una tenda di carta che spenzolava davanti alla finestra della sua casa di Milano, sopra un cartoncino azzurro mi ha scritto che in certe giornate luminose gli piaceva intravedermi attraverso gli specchi di luce di quel mio lavoro che aveva in camera sua, allora gli veniva da sorridere per la contentezza e avrebbe voluto avermi lì. Era il mio amico dello spalancargli la porta, lui a guardarmi dall’alto, con una cicatrice rotonda a un margine del volto, una mano a tirarsi indietro il ciuffo di capelli. Faceva un bagno caldo a lume di candela, le candele doveva procurarsele da sé, leggeva un po’ di Peter Handke, andava a pranzo al Cinghiale Bianco e verso le quattro ritornava per continuare a leggere nella mia casa che giudicava soft proprio perché era tutta nera, me lo lasciava scritto su un biglietto mentre chissà dov’ero, insieme a certe sue riflessioni su quanto avrebbe fatto meglio a pretendere da chi voleva farsi amare che si desse parecchio più da fare a convincerlo; mi fa piacere rendermi conto ora di essere stata una persona accanto alla quale ha considerato possibile avere la comodità di rilassarsi, può succedere a chi sta nei paraggi di qualcuno maldestro, anche Vanni Scheiwiller mangiava la mia minestra di brodo Knorr, l’unica che ero in grado di far bollire in una pentola, con molto più sollievo di quello che provava nel doversene stare impettito al ristorante assillato dalle poetesse che non vedevano l’ora di farsi pubblicare, poi chiudeva gli occhi e per uno scampolo di tempo si convinceva a dormire seduto su una seggiola e io mi rilassavo perché comunque accudire mi procurava un disagio terribile. Non ero mai triste quando vedevo Pier, i fantasmi che ci avevano umiliati evaporavano nel nulla, ho trovato una lettera in cui gli dicevo che ero contenta di come era diventato, più innamorato di sé, in una sua mi scrive che il “nostro” libro davvero gli piace e lo entusiasma, ma non ricordo più a quale avventura si stesse riferendo. Parlavamo a lungo, riflettevamo, aveva un amico, Roberto Daolio, più smilzo e appuntito di lui, meno sguaiato, un critico d’arte con il quale ha abitato, un uomo calmo, raffinato, l’unico a precisarsi nello sgranarsi della nebbia che si insinua nei miei ricordi confusi; in conseguenza del mio modo di conoscerlo mi pareva necessaria a Pier Vittorio quella loro alleanza, a questi contesti fiorentini in cui tanto si è sottolineato di averlo voluto far esistere apparteneva come osservatore critico, curioso, attento soprattutto a rendersi adatto a ricevere un abbraccio, ma non c’era modo, la sua indole tornava a dimorare nella sua malinconica coscienza di scrittore, nel suo paesaggio calmo di parole accurate dopo essere stato profondamente alterato, terribilmente stanco di aspettare persone che sperava arrivassero, così stufo di nobilitare con la sua presenza festini e inaugurazioni che a un certo punto decise di fuggire anche se gli sembrava oltraggioso lasciarmi, con l’impressione di non avere altro scampo, altra scappatoia sebbene non avesse in tasca nemmeno i soldi per comprare un biglietto alla stazione. Poi si innamorò e me lo volle dire subito per tranquillizzarmi e rendermi partecipe di quella che chiamò la sua grande felicità, scrisse che aveva voglia di abbracciarmi e di volere anche per me buone cose, tutto d’improvviso gli pareva simpatico e voleva farmi ridere, maledicendosi per il fatto di essere liscio, come diceva lui insieme alla considerazione che era un sacco di tempo che non si sentiva desiderato, anche per banalità, tipo gli occhi, il lavoro che faceva, quello a cui pensava, i suoi discorsi, lui e quella persona apparsa si piacevano fino a commuoversi e si rivestivano di una saggia e profonda attenzione. Ho letto i suoi libri, non è tramite loro che ho nutrito il mio affetto per questa persona amabile, attenta ai miei progetti, come quando sul “Manifesto” scrisse una recensione sul mio libro di racconti sui colori, tra i quali il rosso, il desiderio di vendicarci, di farla pagare a chi ci aveva abbandonati, gli sembrò il più adatto a rivelarci. Aveva un colorito beige, le unghie curate in modo impressionante, era elegante ma flessuoso, si ricordava il nome delle persone che aveva conosciuto appena per il tempo di un cordiale saluto fuggevole, mi spediva cartoline che raffiguravano il paesaggio oppure il monumento che stava osservando in quel momento, volersi bene impavidi, senza il progetto di fuggirne per la paura di perdere noi stessi, ci incontravano per strada, seduti a un tavolino davamo subito l’idea di essere a raccontarci qualcosa di importante.
L’ultima volta che è venuto a trovarmi in occasione di una mia mostra è stato silenzioso, serio e distante, mi guardava da lontano senza ridere, ho l’immagine di lui seduto sul gradino più alto di una specie di tribuna accanto a un uomo che gli bisbiglia nell’orecchio parole malinconiche, così gli ho scritto con una rabbia da sorella che allora se gli stavo così antipatica avrebbe fatto meglio a non venire per niente, non lo sapevo che era malato, compreso nella paura che non ci fosse rimedio al tradimento della nostra storia di ragazzi che non si erano vergognati di sfuggire al mondo quando trovavano un rifugio nello starsi accanto. Mi ha risposto tacendo che la tenerezza immensa che con la quale ci eravamo scelti con la nostra innocenza spudorata non ci aveva riparati dalla morte, cercando di convincermi che mi voleva tanto bene. Deve essere stato per questo che sono rimasta in silenzio a conservare il segreto.