Ordoliberalismo
Costituzione e critica dei concetti (1933-1973)
Adelino Zanini

28.05.2022


Il testo che qui pubblichiamo è tratto dalle Conclusioni al volume Ordoliberalismo di Adelino Zanini


Rispetto all’ordoliberalismo, vi è certamente un prima e un dopo Foucault. Si deve al filosofo francese, infatti, l’aver ridestato un pensiero poco conosciuto e ben poco discusso al di fuori della Germania; e, soprattutto, si deve a lui un’interpretazione autoriale, divenuta un punto di riferimento imprescindibile – ciò che rende superflua qualsivoglia questione filologica.

Va però ricordato anche come l’ineguagliabile capacità di estrarre, dalle righe del libro di François Bilger (e non solo, certamente), quanto serviva al proprio pensiero, permettesse al filosofo francese di asserire, già a fine anni Settanta del secolo scorso, che il neoliberalismo non era (stato) affatto la riproposizione del mercato lasciato a se stesso, facendo esso appello, piuttosto, a una politica attiva, caratterizzata dal minimo d’interventismo economico e dal massimo d’interventismo giuridico.

Questo bastò per fare dell’interpretazione di Foucault un punto di svolta, anche a prescindere (se si potesse) dalle aperture create dagli sviluppi della cosiddetta governamentalità biopolitica, ai quali, come espressamente affermato, egli riteneva necessario premettere l’analisi dell’emergere della nuova ragione governamentale liberale a partire dal diciottesimo secolo, per poi giungere, con «un balzo in avanti», al liberalismo tedesco contemporaneo, poiché, per quanto paradossale potesse sembrare, nella seconda metà del ventesimo secolo, «liberalismo» era parola che giungeva dalla Germania.

L’ordoliberalismo e l’economia sociale di mercato erano stati tuttavia molto di più e molto di meno, allo stesso tempo, soprattutto se considerati tenendo conto delle reciproche differenze. E questo è ancor più vero se li si ripensa quarant’anni dopo i Cours foucaultiani, entro l’irriducibilità «residua» di un Novecento europeo finito ma, a dispetto di tutto, ancora inesausto quanto ad alcuni dei suoi nodi, generatori di scenari ibridi.

Ibrido, in particolare, è l’odierno concetto d’ordine posto al centro del «discorso» neoliberale e delle sue differenze interne, poiché l’ibridazione riguarda in primo luogo lo Stato-nazione, la forma politica residuale per eccellenza – in questo senso, sicuramente, ancora costitutiva, nonostante la decentralizzazione della sua sovranità, l’erosione di significato della costituzione statale, l’emergere di un costituzionalismo societario e di nuovi regimi giuridici privati sovranazionali. Quanto accompagna, senza paradossi, la stessa irresolubilità della crisi dell’idea non solo politica, ma anche economica di Europa, perché quanto più deboli divengono i singoli Stati, tanto più fragile risulta essere l’integrazione europea e, in essa, l’asimmetria tra sovranismi, palesantisi con il loro duplice volto, interno ed esterno. O, per esprimerci altrimenti, tanto più debole è quella che Dieter Grimm definisce la «dimensione orizzontale», il rapporto reciproco fra Stati, tanto più fragile risulta essere la «dimensione verticale», la relazione tra EU e Stati membri.

Rispetto a questo «presente», la decostruzione sopra svolta della tradizione ordoliberale – non di rado approssimativamente definita in funzione di quella che ne rappresentò l’Aufhebung, compimento e toglimento, a un tempo: la Soziale Marktwirtschaft – è solo un lavoro preliminare – più realisticamente, un ulteriore tentativo lungo questa direzione –, necessario, credo, alla miglior focalizzazione di concetti comunque riconducibili alle più nobili vicende del pensiero politico del Novecento europeo.

Di qui mi sembra si possano ricavare inoltre le necessarie distinzioni, utili per togliere anzitutto di mezzo quanto all’approssimazione può conseguire: un facile «sloganismo» di sinistra, di destra – e anche di centro. È forse solo in-esatto considerare l’attuale «costituzione europea» come frutto di un mix indistinto fra tradizione ordoliberale e Soziale Marktwirtschaft, ma di certo può divenire anche consolatorio.

Assodato che l’odierna struttura ordinamentale europea condivide e difende, al di là di ogni dubbio, la «forma» dei principi di quella tradizione e il loro compimento/superamento a opera di «una» economia sociale di mercato – nella quale è enfatizzato, a dire il vero, solo l’archetipo rigorista: la finzione costituzionale del sistema dei prezzi, della piena concorrenza, del pareggio di bilancio –, sarebbe da chiedersi, forse, cosa possa restare di quella «forma» quando si prenda definitivamente atto che su scala globale è ormai delineata – come afferma Gunther Teubner – «una metacostituzione di conflitti costituzionali», conseguente al fatto che il contendere riguarda a questo punto «regimi di produzione transnazionali»; dunque, che dovendo assumere discrezionalità ben differenti da quelle formulate, in un ambito nazionale, tra crisi di Weimar e secondo dopoguerra tedesco, l’operare in accordo con la «forma» dei principi della tradizione ordoliberale parrebbe inevitabilmente dover ricorrere oggi ad altre modalità d’azione e di decisione, impastate di linguaggi amministrativi, di esiti giudiziali, di veti e mediazioni; soluzioni per forza di cose ibride rispetto a ogni statuizione di principi pregressi, spesso ribaditi con formule cristalline quanto altamente generiche. Ecco, nello specifico, la peculiare e «sorprendente resilienza» delle costituzioni economiche neo-corporative europee notata dallo stesso Teubner.

Una resilienza forse più problematica e contraddittoria – o semplicemente meno virtuosa – di quanto Teubner dica, ma indubbiamente tale, rispetto alla quale sarebbero però da considerarsi ancor prima le ragioni per le quali l’estensione armonica di un’economia sociale di mercato a livello europeo non avvenne già nel momento in cui era certo più ipotizzabile – quando, cioè, gli Stati nazionali erano ancora strutture decisive. Al pari del keynesismo, la Soziale Marktwirtschaft aveva invocato e avrebbe quindi richiesto statualità nazionali forti, corpi intermedi nettamente definiti e inclusi, perché ogni forma di autonomia avrebbe dovuto essere includente e quindi accompagnata da una Entmachtung.

Così non fu, tuttavia, perché le forme di autonomia sociale (via via, anche nelle loro istanze corporative) espressero la loro scarsa propensione all’essere incluse e dilatarono le proprie ramificazioni, dentro e oltre il semplicisticamente detto «compromesso fordista» – il quale rappresenta ancora oggi, e non a caso, una rilevante forma residuale generazionale (i Boomers), i cui «privilegi» non di rado integrano la sussistenza di altre generazioni, precedenti e successive, alimentando, anch’essi, la resilienza indicata da Teubner.

Hanno ragione Pierre Dardot e Christian Laval a sottolineare che il fondamento dottrinale dell’odierno edificio europeo non viene dal nulla; e hanno pure buoni motivi per rammentare quanto sostenuto da Frits Bolkestein relativamente alle radici ordoliberali dell’EU – quantunque non ci si possa proprio stupire a fronte della frequenza con cui nei trattati europei appare il richiamo, in forma costituzionale, al principio di «an open market economy with free competition».

Del resto, si potrebbe ricordare anche l’opposto parere di Walter Oswalt, secondo il quale neppure nella Germania postbellica trovò realizzazione quanto auspicato dalla tradizione ordoliberale, dal momento che, se tali proposte avessero trovato concreta realizzazione, sarebbe nata un’altra repubblica. In breve, le asserzioni di principio trasformate in ideologie sono indicative sino a un certo punto. Flessibilizzazione dei salari tramite la riforma dei mercati del lavoro, riforma delle pensioni e incentivazione del risparmio individuale, promozione dello spirito d’impresa – potrebbero ribattere Dardot e Laval: come non ricondurli alla tradizione ordoliberale richiamata da Bolkestein?

Più che a una tradizione, a me pare ci si debba riferire tuttavia, prima ancora, alla trasformazione epocale che ha caratterizzato – non in senso unilaterale, peraltro – la crisi avviatasi nei primi anni Settanta del Novecento. La quale, certo, ha trovato, dopo, una sponda importante in un modo già definito e sperimentato d’intendere l’Europa a trazione tedesca e quindi in una concezione neoliberale che di fatto faceva perno su di una tradizione forte; a sua volta costretta, però, a fronteggiare dapprima resistenze considerevoli, e poi a mediare – insisto – tra residualità costitutive, perché durature e molteplici. Uno scenario da cui uscirono ribaditi il suo impossibile inveramento e la sua ineludibile ibridazione a livello europeo.

La stessa tradizione dovette perciò registrare da un lato l’esasperazione enfatica dei propri principi, dall’altro, il loro forzato imbastardirsi non appena l’eccezione rivelò la propria normalità – basti pensare, da ultimo, all’operato della BCE tra crisi greca e quantitative easing (effetti di finanziarizzazione bancaria inclusi, perché pur essi inaccettabili secondo la tradizione freiburghese). Conformemente a un’ideologia comunque neoliberale? Questo va da sé.

Ma se così è stato, è questo neoliberalismo, sono le sue nervature istituzionali-governamentali, il suo ordinamento tendenzialmente pluralistico al proprio interno, il «funzionamento della macchina giuridica dell’integrazione europea», a dover essere interrogati, prendendo allo stesso tempo atto di un dato semplice quanto cruciale: ossia, che nella formulazione dei principi economici difesi e articolati da Eucken a Miksch, da Röpke a Müller-Armack, non vi era nulla di veramente nuovo, mentre innovativa era la formulazione giuridica a essi associata (da parte degli ordoliberali, soprattutto, perché l’impostazione sociologica sintetizzata nella Soziale Marktwirtschaft era al riguardo molto meno rigorosa). Una formulazione fondata sì su politiche di bilancio austere, ma non certo sulla finanziarizzazione qui e ora conseguitane: non solo perché allora impensabile, ma anche perché concettualmente inammissibile, pura espressione di «potere privato».

E se ciò è vero, è vero anche che una delle condizioni della soluzione giuridica era l’ambito nazionale. Sebbene fosse auspicato l’estendersi sopranazionale del «modello tedesco», quando e se si ragionava di Europa (massimamente indicativo Müller-Armack), lo si faceva sulla base di istituzioni minime, legittimate da Stati che avrebbero dovuto essere «forti» – mentre risultava esservi, allo stesso tempo, un radicale sospetto nei confronti di ogni autoprodottosi diritto dell’economia, di una lex mercatoria nazionale, timida antesignana della governance transnazionale odierna (non solo della corporate governance).

©Adelino Zanini, Ordoliberalismo. Costituzione e critica dei concetti (1933-1973), il Mulino 2022