No name. Sulla fotografia di Carlo Fei
Ubaldo, Fadini, Carlo Fei

10.04.2021

Alcune considerazioni a margine del tentativo – di Carlo Fei – di vedere infine luce, polvere, aria, tutto quello che in fondo fa scordare (di “me”, di “noi”, forse, in primo luogo?). C'è una prossimità della fotografia con la filosofia: si tratta di prendere sempre una posizione, di coltivare questa illusione, quando in effetti sono le “immagini” a prendere il nostro posto ma nel senso di ribadire ciò di cui siamo “materialmente” fatti, in parte – soltanto in parte – di qualcosa che però non ci appartiene. E' un esercizio che non porta da nessuna “parte” perché lo siamo costitutivamente, da nessuna parte, ed è ciò che a volte pretendiamo di rappresentare/raffigurare, non riuscendoci mai o soltanto in maniera “micro-scopica”, quella che consente di dire “né più né meno”. Anzi, al di là di tutto (che non c'è mai), quello che (si) tenta è proprio il più nel meno, il fattore della stanchezza e del possibile esaurire, quel fattore che porta a ciondolare negli spazi, a collocarci in essi di traverso, per così dire, per sentirsi “nel vento che cammina”, come scrive Bousquet.

Ubaldo Fadini

Siamo fatti di energia. Ma non la vediamo, Non partecipiamo a questa festa se non con l’apparenza di un corpo gli uni con gli altri. Gli uni con il resto delle cose. Siamo fatti di energia. Siamo regolati dall’energia. Gli organi con gli organi. Gli uni con il resto degli organi delle cose. Siamo fatti di energia. Percepiamo a tratti. Siamo immersi sempre in un vortice energetico ma non ci accorgiamo minimamente. Cerchiamo continuamente la vita negli altri ma lei è dentro di noi.

La vita è l’energia di cui non ci accorgiamo minimamente. Il nostro nome, che ci viene dato alla nascita, è l’energia che quel nome si porta dietro e noi così perdiamo di vista la vita vera per cibarci dei racconti che ci vengono narrati e su quello impostiamo la nostra vita, una vita di apparenza raccontata sempre da qualcun altro che ci portiamo dietro come un fardello di apparenza energetica. Per caso ho studiato elettrotecnica alle scuole superiori e anche matematica ed elettronica: perché pochi, pochissimi, raccontano che noi siamo fatti esattamente in quel modo?

Noi siamo energia, ma non riusciamo a conciliare la minima percezione di questo con quello che crediamo sia la vita, l’arte. Il nome, della serie “fatti di niente”, “no name”, come le altre serie che ho fotografato, parla di apparenza, l’apparenza inganna. Voglio fermare le mie fotografie proprio nell’esibizione totale, deificata, simbolizzata dell’apparenza della naturale maschera che ci portiamo dietro, la quale dinamicamente rimane apparenza: sta a noi cogliere il differenziale elettrico, il voltaggio e l’amperaggio che ci riguarda e che ci porta ad una vera uguaglianza con tutto quello che ci circonda.

Le altre serie di fotografie, che mi riguardano, si chiamano “né più né meno” e sempre di energia parlano e di apparenza: è quello che vediamo se rimaniamo nel racconto dell’esibizione, del voyeurismo, del narcisismo. Che cosa è per me l’attenzione a questo mezzo, analogico e digitale, se non la ricostruzione della storia dello sguardo di chi siamo e da dove veniamo. Pietra, tavola, tela, carta fotografica. Per me non c'è differenza alcuna e trovo incredibile che ancora oggi la fotografia non sia nei libri di storia dell’arte.

Difficile esaurire le interpretazioni, difficile dire della sua continuità con i disegni nelle grotte, ma credo che il principio che guida il lì e l’altrove sia il solito. Di questa serie mi hanno detto che sono egocentrico, bene! Ben venga un giudizio qualsiasi, se la fotografia è il reale per chi la guarda, non uno specchio, dovrebbe comprendere che il proprio nome, messo così alla berlina, alla gogna, al rischio appunto di essere dileggiato, fa ancora più parte di un disegno di svuotare il vaso fino in fondo. Svuotiamo il pitale delle menzogne, delle illusioni con cui ci rendono schiavi.
Carlo Fei