Millepiani
Le crepe del presente
Tiziana Villani, Ubaldo Fadini
Il testo che presentiamo è la Premessa al volume Le crepe del presente. Filosofia critica della vita quotidiana, ultima uscita della collana Millepiani, edito da Manifesto Libri.

AUTORI: Tiziana Villani, Ubaldo Fadini, Stefano Righetti, Igor Pelgreffi, Cosimo Lisi, Gianluca De Fazio, Francesco Demitry, Piergiorgio Caserini, Marco Tronconi.


Premessa

Tiziana Villani e Ubaldo Fadini


Queste righe introduttive alla nuova fase/espressione del percorso di ricerca di “Millepiani” vogliono sottolineare il significato di un lavoro collettivo, espresso in molteplici tonalità nei contributi raccolti, su alcune dinamiche di resa contraddittoria del presente – dei nostri modi di vivere, di pensare, di agire – che si sono concretizzate in modo inequivocabile con il periodo della pandemia e della guerra “alle porte di casa”, come si sarebbe detto una volta. Si percepiscono infatti delle crepe, comunque sempre più evidenti, sulla superficie del nostro quadro d’epoca, delle nostre immagini/raffigurazioni del tempo: immagini che sembravano fino a poco fa nitide, chiare, ben formate e soprattutto incisive e per qualcuno addirittura rassicuranti per ciò che lasciavano appunto trasparire sotto la veste del risultato infine ottenuto di un ordinamento complessivo dell’esistere da considerarsi incontestabile, imprescindibile. E certamente pazienza che in quel loro trasparire “pulito”, essenziale, sparissero proprio le ragioni anche flebili di contrasto, di messa in discussione dei loro riferimenti di valore, delle loro pretese di valere in modo incondizionato, ad ogni costo (umano, ambientale, sociale, politico...). Ma la nostra idea è quella di prendere, di rilevare, tali crepe ancora nel senso di aperture che fanno entrare più luce, cioè quello che è indispensabile per cercare di vedere meglio, nonostante tutto. Scommettiamo ancora su quel senso di estraneità che trova espressione nella nostra costitutiva relazionalità, nel nostro essere di parte (in ogni senso) e quindi pure positivamente “aperti” di fronte al manifestarsi dell’inatteso, dell’imprevedibile, del differente. In tale prospettiva si spiega il rilancio e la proiezione sul “nostro” presente di tradizioni di pensiero filosofico (intimamente “straniero”) particolarmente predisposte a fare i conti con contingenze storiche drammatiche, anche nel tentativo consapevole di accompagnarle con le punte teorico-pratiche di maggiore radicalità che si manifestano oggi nei diversi “campi di battaglia” che si sovrappongono negli spazi dell’esistere.

Un esempio cruciale di tali “campi di battaglia” può essere quello fornito dal quotidiano, stravolto da quelle trasformazioni del nostro modo di vivere che si sono in particolare concretizzate nell’esperienza del lockdown. Un quotidiano che appunto ci viene restituito, anche nelle sue componenti di maggiore “intimità”, nelle sue lacerazioni neppure più apparentemente normate/normalizzate come nel caso delle sue ibridazioni per via tecnologica che riguardano – sempre esemplificativamente – le modalità del lavoro o – come si è visto inequivocabilmente in questo periodo pandemico – della cosiddetta “didattica a distanza” all’interno del sistema complessivo dell’istruzione.

La “distanza” è però qualcosa che proprio ci interessa laddove ne sia rilevata la sua qualifica in primo luogo bio-antropologica, segnalata dai molti che insistono sul nostro costitutivo essere di relazione, di parte, che vorremmo ulteriormente rimarcare nella sua valenza sociale, da svolgersi criticamente, in termini dunque radicali, nel senso di significarne il suo valore d’incontro e di scontro, il complesso di affezioni e affetti che ne contraddistingue la presenza, comunque provvisoria e revocabile nei suoi assetti e configurazioni dati.

Si tratta infatti di realizzare “distanze”, opportunità di incontro e mediazione diverse da quelle solitamente imposte anche sottolineandone l’apparente versatilità, una elasticità consegnata – sembra irrimediabilmente – alla pseudo-logica della massimizzazione dei profitti, quella propria del capitalismo in tutte le sue rovinose versioni.

Tentare di articolare tale “compito” è da accompagnarsi ad una maggiore comprensione, nei limiti del possibile, di ciò che si definisce come “crisi del presente”, come difficoltà da parte nostra di collocarsi in esso, di abitarlo sensatamente, di contribuire a un suo disegno nel quale possano risaltare i valori della cooperazione/condivisione e della solidarietà concreta e non saltuaria. “Crisi del presente”: da leggersi allora nei seguenti termini, come difficoltà apparentemente irrisolvibile di individuare in esso elementi di futuro, la possibilità – ripetiamolo – dell’imprevedibile, dell’inatteso, del differente rispetto a ciò che risulta “istituito” in un qualche modo. Per afferrare alcune delle sporgenze non banali di tale formulazione, si può fare riferimento pure all’idea di matrice sociologica che il presente sia sempre “futuro passato”. Ecco, è propria del risvolto del presente, che vale come traduzione di proiezioni temporali alternative al sempre uguale incessantemente riprodotto dalla logica di funzionamento del modo di produrre, questa manifestazione di una sorta di “utopia” che si rivela come “concreta”, materiale, come scriveva Ernst Bloch, in grado di spalancare altre strade, di stimolare ad un altro modo di vivere il/nel mondo, standoci dentro, coltivando l’idea che tutto potrebbe essere diverso da come viene realizzato e si manifesta. Si ha in fondo un bisogno vitale di fuori-uscire dall’istituito e dal suo rovinare continuo, un desiderio di “trascendere” che non si rivesta degli abituali orpelli della “trascendenza ultraterrena” (oltretutto sempre più legata appunto al frantumarsi in mille pezzi del presente): in sintesi, si ha l’obbligo (qualche vincolo ci può stare... per noi, esseri di relazione) di cercare di stare nel mondo, di collocarsi in un presente sapendolo aperto, intimamente “utopico”, disposto decisamente all’articolazione di differenti esperienze del tempo.