AUTOINTERVISTA
Tutto quello che avreste voluto sapere su Massimo Minini e non avete mai osato chiedere
Massimo Minini
22.01.2022
Pubblichiamo un estratto dal volume Scritti di Massimo Minini edito da Silvana Editoriale.

D: Lei apre a Brescia una galleria nel 1973. decisione improvvisa, come racconta, causa licenziamento a Milano. Si capisce che lei è tornato a Brescia per necessità minori che ha già spiegato in numerose interviste. Bene, è pur vero che è arrivato a livelli impensabili, in competizione con le grandi gallerie mondiali e ha sempre detto che comunque si può stare anche a Brescia. Adesso, dopo quarant'anni di menzogne, ci dice finalmente la verità?

MM: A parole ormai sono in grado di dimostrare tutto e il contrario di tutto. Parliamo dunque del contrario. Sì, stare qui a Brescia è stato un limite. Avrei potuto fare molto di più a Milano o a New York, come Francesco Vezzoli o Cattelan, che sappiamo non essere rimasti rispettivamente a Brescia o a Padova. Ciò che mi ha salvato è stato il fatto che non mi sono mai riferito a Brescia, città che amo, per carità, ma, a parte pochi casi, qui non ho referenti. Quindi mi sono guardato in giro, ho stabilito contatti e legami con Europa e America e via! Ho costruito una galleria equivalente a un museo. Quarantasette anni ormai, se facessi i nomi sarebbe da svenire. Invece, qui a Brescia anche se faccio i nomi nessuno sviene perché nessuno sa chi sono, a chi e a cosa corrispondono.

D: Ma lei ora è nientemeno che Presidente di Fondazione Brescia Musei. Mica male no? Non avrà referenti né santi in Paradiso ma a qualcuno non è sfuggita la Sua levatura. Quindi non faccia la vittima.

MM: Guardi non faccio la vittima, mica sono Ken Damy. Lui ha avuto un seguito importante in città perché era al livello giusto per Brescia; ha anche avuto grandi finanziamenti con l'escamotage del preteso Museo Ken Damy, piazza Ken Damy, io mi sono fatto i fatti miei e i contributi non li ho mai avuti. Sa perché? Semplice: perché non li ho mai chiesti. Non mi interessano. Mi piace sbagliare da solo.

D: Ma allora perché o per chi fa queste mostre con mega installazioni, che certo non costeranno poco?

MM: Bella domanda. Me la faccio anche io sovente. Ma da poco ho capito: lo faccio per me. Mi è piaciuto e mi piace ancora. Pensi che in questi mesi abbiamo fatto costruire in Belgio due padiglioni di Dan Graham. costo totale per sola produzione, trasporto, montaggio: 160.000 euro. Fatti per il piacere di vederli ed esporli.

D: Ma da voi in galleria scommetto che non viene nessuno.

MM: Vero, vengono in tanti all'inaugurazione, come si conviene. Poi basta: poca gente. Ma ogni tanto arriva qualcuno importante che ci stupisce. Poco fa marito e moglie canadesi: dove abitate? In Italia, in Monferrato (tra parentesi conoscono a menadito tutti e tutto). Che lavoro fate in Italia? Niente. Benestanti. Adoriamo l'Italia. E meno male visto che noi abbiamo poca stima di noi stessi. Ecco una visita così da un senso al nostro lavoro. Sono stati qui due ore. Abbiamo visto tutto, parlato, ci siamo capiti.

D: Perché l’arte contemporanea ha tanto successo, quotazioni stratosferiche e l'arte antica no?

MM: Per varie cause concomitanti. Chi partecipa è dentro a un gioco. Chi entra conosce gli artisti, con l'arte antica no, al massimo conosci le opere. Chi compra ha la sensazione di essere utile alla causa chi scommette su uno sconosciuto prova il brivido della scommessa sulla propria intelligenza.

D: Torniamo al Presidente. Non le sembra di aver esagerato accettando? Come la mette col conflitto di interesse?

MM: Guardi, non dovrei dirlo (e quindi lo dico): ne trovi un altro a Brescia con la mia conoscenza, pratica, esperienza. Comunque sì, penso di essermi sbagliato. Anche da Presidente, quindi con pieni poteri, non riesco a fare molto. Il motivo principale per cui sono atterrato su quella poltrona (conoscenze in arte moderna) è che il futuro Sindaco mi chiese di mettermi a disposizione della città e di trasferire le mie conoscenze, rapporti, contatti a favore del sistema museale bresciano. Diciamo che sono stato toccato su una corda sensibile e ho reagito di conseguenza. Che poi sia successo esattamente il contrario, e cioè che io non abbia potuto far approfittare la città delle mie conoscenze, questo è un dato di fatto evidente. Il conflitto non esiste, non muovo un dito in quella direzione. Ma è un peccato (per la città). Se avessi carta bianca potrei fare qualche miracolo. Invece quattro benpensanti agitano lo spettro del conflitto. Loro pensano che potrei guadagnare mettendo i miei artisti nelle strutture pubbliche (che non ci sono). Invece è vero il contrario, ci guadagnerebbe la città, oppure ci perderei io. Se lo immagina come le quotazioni di Kapoor possano esplodere se piazzo una sua scultura in Castello? Ovviamente è più probabile che lui venga sputtanato e che le sue quotazioni dimezzino.

D: Parliamo dell'Italia, la sua sembra essere una delle prime gallerie che contano, non le pare eccessivo? Cosa ha fatto lei? Chi e cosa ha scoperto e/o lanciato?

MM: Sì, anche io sono sempre stupito della simpatia che trovo attorno alla mia avventura. Io l'ho fatta semplicemente ma con determinazione, oserei dire bresciana, nel senso dell'impegno nel lavoro. Non dimentichi che la nostra caratteristica è quella di essere dei grandi lavoratori. Oggi posso dire che siamo la galleria più aperta d'Italia. Ogni giorno dalle 9,30 alle 19,30 senza interruzione.

D: La Triennale di Milano le ha dedicato una grande mostra celebrativa su 1.500 mq. La prima mai dedicata a un gallerista. Quanto ha pagato? Quali santi in paradiso?

MM: Mi piacciono le domande dirette. Non solo non ho pagato, mancava poco che mi pagassero loro. È stata una sorpresa anche per me. Ho fatto un libro bellissimo per i quarantanni della galleria, Amedeo Martegani, editore, ideatore, impaginatore, ha fatto un miracolo. Ho portato il libro in Triennale per regalarlo. Lo hanno guardato, non credevano ai loro occhi. Dieci minuti dopo mi proponevano la mostra. Per idearla ci ho messo solo due settimane; per montarla una, con dieci persone e cinque camion. All'inaugurazione non si poteva entrare, tanta era la folla. Nessuno ha visto niente e così deve essere.

D: Lei è o è stato amico di Szeeman, Celant, Rudi Fuchs, Amman, ha conosciuto Richter, Polke, Ryman, LeWitt, Gilbert & George, Dan Graham, Anish Kapoor, Giulio Paolini, Daniel Buren. Come ha fatto? Come è successo che un ragazzo di Brescia arrivasse a trattare alla pari, senza mediazioni, con tanti grandi personaggi?

MM: Primo perché Brescia è una cittè importante, è la terza potenza economica italiana dopo Milano e Torino. Poi perché ho avuto buoni maestri (Cavellini, Politi). Inoltre perché ero curioso di sapere e invece di dire, come tanti, non capisco, ho mollato il freno a mano e cercato di capire.

D: Lei è a Basilea da 40 anni filati: un record. Quali amicizie potenti ha per resistere così a lungo?

MM: Le amicizie che mi hanno protetto si chiamano Daniel Buren, Giulio Paolini, Nicholas Logsdail, Dan Graham, Philip Rylands, Germano Celant, loro sono i compagni di viaggio di cui ho cercato di imitare i modelli. Bisogna scegliersi compagni di viaggio di alto profilo, cercare di fare e come loro, possibilmente anche meglio.

D: Non ha mai avuto problemi con le dogane, con la SIAE, con l'Agenzia delle Entrate, con la Guardia di Finanza?

MM: E no per fortuna, basta pagare, anche quando non è giusto, come il dds e la Siae. Ma se si vuole stare tranquilli meglio accettare le regole. Poi si cerca di sopravvivere, naturalmente.

D: Lei non vorrà dirci che la sua è una galleria senza macchia, no? Avanti, dica due cose che non ha mai confessato. Un gallerista ne ha ben più di due.

MM: Beh, qui mi avvalgo della facoltà di non rispondere.

D: Da qualche anno lei scrive, e sembra che scriva bene e che i suoi libri piacciano. Allora perché non ha un editore?

MM: Dicono in tanti che scrivo bene, ho imparato da poco, prima scrivevo come tanti. Poi ho cominciato a leggere più attentamente. Comunque non sono uno scrittore, una casa editrice non l'ho mai cercata. Non voglio aggiungere nulla al già detto. Magari avrò edizioni postume. Naturalmente non è vero. Mia moglie dice che io voglio lasciare delle tracce dietro di me. È vero. Se trovassi un editore vero forse scriverei meglio e di più. Intanto faccio il gallerista di provincia.

D: Non le pare di essere troppo eclettico e dispersivo? Lei fa il gallerista, il Presidente dei Musei di Brescia! Scrive, fa fotografie e dipinge.

MM: Calma. Dipinge… io dipingo per scommessa solo in Agosto, solo se vado a Panarea, dipingo un unico soggetto: Stromboli. Non espongo, regalo i dipinti. Ovviamente spero di farcela e diventare almeno come Winston Churchill. Ma è vero. Faccio troppe cose, tutte benino, nessuna superlativa. Sono come un decatleta rispetto a un centometrista: vado mica male in dieci discipline, ma non faccio il record del mondo in nessuna.

D: Ce la dice la verità sul suo licenziamento a Flash Art nel 1973?

MM: Mi sembra di averla già detta e scritta. Io ero addetto al finanziamento della rivista e vendevo opere che le gallerie ci davano in cambio di pubblicità. Ho imparato il mestiere così. Ogni tanto mi facevo qualche affaretto privato. Diciamo che mi compravo un’opera, la vendevo, me ne acquistavo un’altra. Inoltre avevo mantenuto rapporti con la ditta di mio padre a Brescia, che avevo abbandonato sì, ma con cui avevo comunque un rapporto. Facevo lunghi viaggi in Europa, metà per Politi, metà per altri lavori. Alla lunga questo stato di cose dava fastidio a Politi e al suo nuovo socio, Gino di Maggio. Credo sia stato lui a convincere Politi a eliminarmi. Così nasce in fondo la mia fortuna. E siccome io pratico la realpolitik, sono grato a entrambi di avermi insegnato e poi liberato.

D: Senza i soldi di papà ce l'avrebbe fatta ugualmente?

MM: Credo di no. Mio padre non aveva soldi, non ho mai avuto contributi da lui. Però mi ha dato un lavoro part time che mi ha permesso di vivere e di aprire la galleria in parallelo. Poi io ne ho approfittato e per almeno dieci anni ho spinto la galleria avendo le spalle coperte. Comunque visto che andava bene l'attività paterna e che lui si era aggrappato a quella, più per me che per se stesso, visto che avevamo dipendenti e fornitori che vivacchiavano con noi, non me la sono sentita di chiudere. L'attività si è trascinata per anni senza infamia. Poi è arrivata la globalizzazione, la Cina, e tutto è saltato. Coraggio a due mani, chiusa l'altra storia. Venduta per poco niente, ma con un mio colpo di genio all'unica persona al mondo cui poteva interessare. Prendo pochissimo e uso i soldi per ristrutturare. La galleria in poco tempo si sviluppa come non avrei creduto e io entro in un periodo felice.

D. Il caso Galleria Minini a livello internazionale è più unico che raro. Le hanno già chiesto in altre interviste: “Come ha fatto?” Ma ha dato risposte evasive, praticando una falsa modestia o una sorta di understatement all'inglese. Ci racconta nei dettagli come ha fatto? Si dice che lei sia stato avviato all'arte da Franca Ghitti e che poi abbia rischiato di diventare archeologo con Emmanuel Anati. È vero?

MM: Sì quello è stato il mio inizio. Abitavo a Pisogne, lago d'Iseo. Ma studiavo a Brescia e Milano e sentivo che c'era qualcosa da fare con l'arte ma non sapevo cosa né come. Ghitti e Anati erano per me allora (1962/64) due mostri sacri del settore e ho cercato di conoscerli. Poi ho continuato su altre strade, come è logico, non dimentico la lezione di Cavellini, grande collezionista, che mi indicò un percorso diverso nel 1966 con un’ora di colloquio.

D: Non se ne parla mai, ma l'influenza di una compagna può essere fondamentale. Come è stato per lei?

MM: Molto importante, sia per la costruzione dei programmi, per le relazioni, sia per la parte negativa, per evitare errori. Daniella è stata molto più dura di me, inflessibile, determinata. E mi ha evitato errori che io avrei commesso per debolezza, se non fosse intervenuta lei a opporsi. Diciamo che discutiamo pesantemente tanti aspetti e alla fine trovo che lei abbia ragione su molti. Poi lei ha tenuto assieme una famiglia, figli, lavoro, impresa, quasi impossibile. Guardo in giro nel mondo dell’Arte, il nostro è un caso piú unico che raro. Abbiamo anche noi dei lati deboli, ma questi non li dico.

D: Come mai parla e scrive correntemente inglese e francese, oltre naturalmente all'italiano?

MM: Parlare le lingue è questione di orecchio, se canti bene puoi parlare bene le lingue. Adoro l'imitazione, così mi viene facile imitare suoni e pronunce. Francese a scuola, grande professoressa alle medie e ginnasio, grazie M.me Rosa! Poi un giorno a Milano arrivano i double deck bus rossi dell'Inghilterra, più la birra rossa, le cabine del telefono rosse, i soldatini rossi. Resto fulminato. Allora studiavo Legge in Statale. Decido di imparare l'inglese con Linguaphone per tutto l’inverno e la primavera. Agosto a Bournemouth, che vergogna! Ai test non ne imbrocco una, mi mandano con quelli che non sanno nulla. Sfortunatamente la scuola è piena di italiani (e italiane...). Lei era proprio carina, si chiamava Lea, Venezia. L'inglese lo imparerò l'anno dopo facendo autostop tra London e la Cornovaglia, con notti negli youth hostels. Tutto fiero del mio inglese dico ad Anati che finalmente lo so parlare. Lui mi fulmina: "Anche per fare il portiere di notte in albergo si deve sapere l'inglese." Condizione necessaria ma non sufficiente, come dicono i matematici. Ricomincio a studiare inglese. Poi la vita, la pratica, il telefono, i libri, le lettere, oggi le mail, le discussioni....Voilà.

D: Il suo programma è influenzato dal mercato, dalle possibilità di vendita, dalle richieste?

MM: Certamente, in parte sì, la galleria è anche un'attività economica per noi che ci lavoriamo e per gli artisti che si aspettano sostegno. Non facciamo beneficenza. E la parte attiva sovente serve a finanziare la ricerca a sostenere il lavoro di artisti giovani che costano più che rendere, a fare libri, mostre, trasporti, musei che fanno richiesta.

D: Come si può reggere per quarant’anni, organizzando cinque, sei, sette mostre all’anno senza scadere nella qualità?

MM: Seth Siegelaub in A brief history of curating di Hans Ulrich Obrist dice: "Mi è sembrato che non fosse possibile avere un programma di otto/dieci mostre all'anno, e averle tutte giuste o quasi tutte, il ritmo di produzione delle mostre era troppo veloce.

Se facciamo un piccolo calcolo solo considerando New York, Londra, Berlino, Parigi operano duemila gallerie, cinquecento ogni città per dieci mostre all’anno fa ventimila mostre l’anno. Nel mondo lavorano almeno ventimila gallerie e quindi duecento mila mostre all’anno.

Follia pura. Il ventesimo secolo darà probabilmente cento grandi artisti, così come i nomi che rimangono del XII secolo sono non più di trenta.

Chi mi fa l’elenco dei cento nomi?

Non c'era tempo per pensare ciò che per me era molto importante." Ecco sono d'accordo con Seth. Pensi che nei primi anni facevamo dieci mostre in una stagione. La mia quarta stagione (1976/77) è stata: Boetti, Paolini, Toroni, Dan Graham da metà settembre a Natale. Roba da matti. Oggi ancora le grandi gallerie fanno una mostra al mese, ma è una follia. Io ora sono attestato su cinque mostre, una ogni due mesi, così abbiamo tempo per pensare.

D: Abbiamo parlato molto del passato. Propositi del futuro?

MM: Sassicaia, Koufunissi, Alicudi, Panarea, Filicudi, Orcadi...



© Massimo Minini, Scritti, Silvana Editoriale 2022